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Art. 69

Funzioni e provvedimenti del magistrato di sorveglianza

1. Il magistrato di sorveglianza vigila sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena e prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo.

2. Esercita, altresì, la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti.

3. Sovraintende all’esecuzione delle misure di sicurezza personali.

4. Provvede al riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell’art. 208 del codice penale, nonché all’applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza. Provvede altresì, con decreto motivato, in occasione dei provvedimenti anzidetti, alla eventuale revoca della dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza di cui agli articoli 102, 103, 104, 105 e 108 del codice penale.

5. Approva, con decreto, il programma di trattamento di cui al terzo comma dell’art. 13, ovvero, se ravvisa in esso elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell’internato, lo restituisce, con osservazioni, al fine di una nuova formulazione. Approva, con decreto, il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno. Impartisce, inoltre, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati.

6. Provvede a norma dell’articolo 35-bis sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti:

a) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa; nei casi di cui all’articolo 39, comma 1, numeri 4 e 5, è valutato anche il merito dei provvedimenti adottati;

b) l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti.

7. Provvede, con decreto motivato, sui permessi, sulle licenze ai detenuti semiliberi ed agli internati, e sulle modifiche relative all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare.

8. Provvede con ordinanza sulla riduzione di pena per la liberazione anticipata e sulla remissione del debito, nonché sui ricoveri previsti dall’articolo 148 del codice penale.

9. Esprime motivato parere sulle proposte e le istanze di grazia concernenti i detenuti.

10. Svolge, inoltre, tutte le altre funzioni attribuitegli dalla legge.

Rassegna di giurisprudenza

Criteri sulla destinazione dei detenuti e impugnabilità dinanzi il magistrato di sorveglianza dei relativi provvedimenti

Allorquando provvedimenti comportano la sottoposizione a un regime penitenziario differenziato o, comunque, il suo mantenimento, possono essere oggetto di reclamo al magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, ove siano adottati in violazione dei criteri sulla destinazione dei detenuti, fissati in via generale ed astratta dall’amministrazione, risolvendosi in una lesione del diritto soggettivo al trattamento “comune”. Ciò perché, la scelta dell’Amministrazione penitenziaria in ordine alla classificazione di un detenuto, trova fondamento nell’art. 14, secondo cui il raggruppamento dei detenuti nelle sezioni è stabilito in relazione alla possibilità di procedere ad un “trattamento rieducativo comune” e all’esigenza di evitare “influenze nocive reciproche”. Egualmente, l’art. 32 Reg. prevede l’assegnazione ad appositi istituti o sezioni dove sia “più agevole” adottare le cautele per quei detenuti che, con i loro comportamenti, facciano temere per l’incolumità propria o dei compagni, a tutela “da possibili aggressioni o sopraffazioni”. Attraverso la previsione di un regime differenziato, il sistema penitenziario prevede per esigenze di ordine e di sicurezza, la realizzazione di percorsi trattamentali meno completi. Così si può incidere anche sui principi posti dall’art. 13, secondo cui il trattamento penitenziario deve essere individualizzato e deve “rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto”. Gli orientamenti meno recenti della giurisprudenza di legittimità hanno escluso la possibilità di impugnare il provvedimento di assegnazione del detenuto al circuito penitenziario. Esso provvedimento, si affermava, era espressione del potere discrezionale, riservato all’Amministrazione, di organizzare e regolare la vita all’interno degli istituti, in ragione della pericolosità dei detenuti e della necessità di assicurare l’ordinato svolgimento della vita intramuraria e, come tale, non risultava suscettibile di sindacato da parte della magistratura di sorveglianza. In alcuni casi si era richiamato un potere di verifica da parte dell’organo giudiziario sulle “singole disposizioni che lo accompagnano o lo seguono” o sugli “atti esecutivi che siano in concreto lesivi di diritti” Si trattava di orientamenti essenzialmente protesi a privilegiare la salvaguardia di valori di ordine e sicurezza e di osservanza delle regole interne, che non si soffermavano sulla finalità del trattamento stesso e sul sottostante obiettivo di rieducazione. Oggi può ritenersi che l’ordinamento riconosca al detenuto un generale diritto al trattamento penitenziario “non differenziato”, con l’eccezione che l’Amministrazione, in presenza di situazioni di pericolosità del detenuto, che impongano di attuare misure volte ad assicurare la sicurezza interna ed esterna, ha facoltà di sottoporlo ad un regime differenziato. In tali evenienze, dunque, fermo il diritto al trattamento comune (non differenziato) l’Amministrazione penitenziaria può pacificamente adottare, nell’esercizio di potestà organizzative, misure che incidono sulla originaria posizione soggettiva. A fronte dell’esercizio di poteri siffatti, il detenuto può investire, attraverso lo strumento del reclamo giurisdizionale, il magistrato di sorveglianza, impugnando non tanto la previsione, generale e astratta, che, nel prevedere il circuito penitenziario, definisca le condizioni per la sua assegnazione, quanto piuttosto il provvedimento di assegnazione, in ipotesi adottato in assenza dei requisiti, ovvero, per quanto di interesse in questa sede, il provvedimento con il quale, pur venendo meno i presupposti per l’assegnazione a un determinato circuito, l’amministrazione abbia negato la declassificazione. È un sindacato circoscritto al profilo dei vizi di legittimità dell’atto amministrativo. Non si estende, cioè, al merito della scelta, salvo in casi di assoluta contraddittorietà e manifesta irragionevolezza. assolutamente rimesso esclusivamente alla valutazione dell’Amministrazione penitenziaria. Si intende, allora, come esista un diritto alla assegnazione ad una sezione “comune”, quale momento d’attuazione del diritto al trattamento individualizzato, previsto dalla legge penitenziaria dagli articoli 1, comma 6, 13 e 14, comma 2. In difetto sarebbe sottratta al magistrato di sorveglianza la prima forma di controllo sulla conformità del trattamento di recupero del detenuto, trattamento che passa attraverso l’assegnazione ad un regime che assicuri l’obiettivo e la finalità della risocializzazione. Da ciò la legittimazione al ricorso, in ordine al pregiudizio, grave e attuale, che può derivare all’esercizio del diritto del detenuto dal mantenimento dell’assegnazione nel circuito differenziato. L’introduzione del reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35-bis non muta il quadro. Il rimedio è stato introdotto per adeguare la normativa alla soluzione giurisprudenziale che, sull’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 26/1999), riconosceva la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti (SU, 25079/2003) con lo strumento della procedura prevista dall’art. 14-ter. Quindi, il reclamo ex artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b) è pacificamente ammissibile in presenza di “inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni della legge penitenziaria e del relativo regolamento dalla quale derivi al detenuto un attuale e grave pregiudizio. Rischia pertanto di essere forviante l’affermazione secondo cui non è possibile proporre reclamo giurisdizionale avverso il provvedimento di assegnazione ad una determinata sezione, mentre è possibile reclamare avverso un provvedimento - eventualmente collegato a tale assegnazione - che determini la violazione effettiva e concreta di uno specifico diritto del detenuto (Sez 1, 52534/2018), in difetto di una precisazione ulteriore che prevede come esso reclamo sia esperibile anche per la violazione del diritto a non subire un trattamento penitenziario non comune, in difetto dei presupposti legittimanti della differenziazione (quali, a titolo esemplificativo, la condizione di pericolosità di esposizione a rischio per l’ordine interno ed esterno) (Sez. 1, 43858/2019).

Competenza per territorio

La competenza per territorio del magistrato o del tribunale di sorveglianza, una volta radicatasi con riferimento alla situazione esistente “all’atto della richiesta” (secondo la testuale indicazione dell’art. 677 c.p.p.) di una misura alternativa alla detenzione, rimane insensibile agli eventuali mutamenti che tale situazione può subire in virtù di successivi provvedimenti: e, ciò, anche nelle ipotesi in cui subentri, dopo la presentazione della richiesta iniziale, la rimessione in libertà del soggetto. Tale principio non muta, naturalmente, anche nell’ipotesi in cui, essendo libero il condannato, sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione, con evenienza, ex art. 656 c.p.p., della competenza del TDS del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha promosso la sospensione (Sez. 1, 53177/2014). L’esito di questo rilievo non muta, per gli effetti che la notazione determina in questa sede, per il fatto che, dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso a una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte a incidere sulla medesima misura o comunque siano alla stessa connesse o collegate, giacché anche in tal caso la competenza resta ferma, in virtù del richiamato principio della perpetuatio iurisdictionis, che esige di annettere rilevanza al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 4098/2020).

La competenza di tipo funzionale del magistrato di sorveglianza si appunta in capo all’organo che ha giurisdizione sull’istituto in cui il detenuto “si trova”. Si deve, tuttavia, chiarire che, ai sensi dell’art. 677, detto luogo e il relativo riferimento normativo si legano alla località in cui il detenuto è assegnato in via definitiva, salvo che costui non sia ancora destinatario di provvedimento siffatto, caso in cui di converso, indubbiamente avrebbe facoltà di adire e rivolgersi al magistrato di sorveglianza del luogo stesso. Per i casi, tuttavia, in cui il detenuto sia in transito e risulti solo temporaneamente ristretto, la competenza in generale resta attribuita al magistrato del locus custodiae definitivo e non sussistono le condizioni per provvedimenti legati a criterio di competenza itinerante nel senso che per il semplice accesso - anche di poche ore - all’istituto di pena si realizza una modifica della competenza dal magistrato di sorveglianza del luogo di assegnazione e detenzione definitiva a quella del magistrato di sorveglianza del luogo di transito (Sez. 7, 35405/2018).

Ricordato che, in caso di concorso di residenza anagrafica e di domicilio di fatto in Italia, la competenza territoriale va, comunque, radicata in base al criterio della residenza anagrafica, operando il criterio del domicilio solo in via residuale, va chiarito che, ai fini di cui all’art. 677, comma 2, la nozione di domicilio deve essere definita, ai sensi dell’art. 43 Cod. civ., come il luogo dove il soggetto ha il centro dei propri interessi, e tale non può, all’evidenza, essere considerato il luogo dove, solo ai fini del procedimento relativo alla istanza presentata, l’interessato ha eletto domicilio presso il quale ricevere comunicazioni e notificazioni del procedimento stesso. Siffatta nozione di domicilio si lascia preferire sia per ragioni di coerenza sistematica sia perché capace di assicurare la necessaria oggettività del criterio attributivo della competenza per territorio (funzionale al rispetto del principio costituzionale del giudice naturale), mentre il rilievo, a detti fini, dell’atto di elezione renderebbe la determinazione del giudice competente dipendente da una libera ed insindacabile scelta del soggetto che propone l’istanza (Sez. 1, 31346/2018).

In tema di procedimento di sorveglianza, qualora dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso ad una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte ad incidere sulla medesima misura o comunque siano ad essa connesse o collegate, rimane ferma, in virtù del principio della “perpetuatio iurisdictionis”, la competenza per territorio del tribunale di sorveglianza radicatasi con riferimento alla situazione esistente al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 51083/2013).

Il ricorrente, al momento di presentazione dell’istanza ex art. 35-ter, era detenuto; ed era detenuto anche al momento della decisione del magistrato di Sorveglianza così come era detenuto al momento di proposizione del reclamo al tribunale di Sorveglianza. Nelle more del procedimento di impugnazione è stato scarcerato per termine della pena. Questa circostanza ha indotto il tribunale di sorveglianza a ritenere inammissibile il reclamo poiché la richiesta iniziale di riduzione della pena era stata trasformata in richiesta di liquidazione del ristoro economico previsto dalla norma citata: ha ritenuto il giudice che fosse stato irritualmente trasformato il petitum e che la competenza a provvedere fosse ormai del tribunale civile. Tuttavia, questa Corte ha più volte espresso il principio secondo il quale presupposto necessario per radicare la competenza della magistratura di sorveglianza è lo stato di restrizione del richiedente al momento della proposizione del reclamo ex art. 35-ter, a nulla rilevando l’eventuale scarcerazione nelle more della decisione, trattandosi di competenza di natura funzionale (Sez. 1, 41211/2018).

La richiesta di misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 656, comma 6, deve essere corredata, a pena di inammissibilità, anche se presentata dal difensore, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio effettuata dal condannato non detenuto. Né l’inosservanza delle formalità di cui all’art. 677, comma 2-bis, può essere superata dalla mera indicazione di residenza, che, non comportando l’inequivocabile volontà di riconoscere il proprio domicilio con la residenza dichiarata, non risulta rispettosa dei parametri di cui all’art. 677, comma 2-bis (SU, 18775/2010).

La competenza in materia di concessione di misure alternative alla detenzione, in ipotesi di condannato per il quale è stata disposta la sospensione dell’esecuzione, appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha decretato la sospensione, a norma dell’art. 656, commi 5 e 6, norme che debbono ritenersi speciali e prevalenti rispetto al disposto dell’art. 677, comma 2 (Sez. 1, 2182/2018).

Nell’escludere l’applicabilità delle regole derogatorie di competenza, stabilite dall’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, alla liberazione anticipata - pur formalmente rientrante tra le misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI Ord. pen. - richiesta dal detenuto collaboratore di giustizia, assoggettato a speciali misure di protezione, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 43798/2015) ha da ultimo sottolineato la natura di stretta interpretazione delle regole derogatorie anzidette, correlata al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 comma 2 Cost.). Nelle materie attribuite alla magistratura di sorveglianza, la competenza a conoscere delle istanze presentate da soggetto ristretto in istituto penitenziario appartiene in via ordinaria al tribunale o al magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto medesimo (art. 677, comma 1). La deroga che a tale disposizione apporta, per i collaboratori di giustizia assoggettati a speciali misure di protezione, il citato art. 16-nonies - il quale riserva, al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui il collaboratore stesso ha eletto domicilio ai sensi dell’art. 12, comma 3-bis, del decreto legge (ossia del luogo sede della Commissione centrale prevista dal precedente art. 10, comma 2, che è Roma), la cognizione in tema «di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, L. 354/1975, e successive modificazioni» - trova la sua ratio giustificativa nell’esigenza funzionale di assicurare uno stretto coordinamento tra l’operato della magistratura di sorveglianza, che decide sulla concessione delle misure alternative, prevista in misura più ampia rispetto alle generalità dei detenuti, e quello degli organi amministrativi centrali preposti all’attuazione delle misure predette nei confronti del collaboratore protetto (Sez. 1, 45282/2013) e capaci altresì di recare un preventivo contributo ai fini di una più pregnante valutazione sull’attualità e sulla serietà del percorso seguito dal collaboratore (Sez. 1, 43798/2015), che costituisce il presupposto per il più ampio accesso ai benefici (la riassunzione si deve a Sez. 1, 8131/2018).

I provvedimenti in materia di rinvio dell’esecuzione della pena non sono testualmente compresi nell’ambito dell’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, e non partecipano della ratio ad esso sottesa; né sul piano funzionale, posto che, dopo la liberazione e per il tempo del differimento, nessuno specifico raccordo, di natura istituzionale ed organizzativo, è necessario mantenere tra organi della giurisdizione ed organi esecutivi; né sul piano logico-sistematico, perché i provvedimenti ex artt. 146 e 147 Cod. pen. postulano il riscontro di condizioni legittimanti (la presentazione della domanda di grazia, lo stato di gravidanza, di maternità, di salute) già in possesso dell’AG o ricavabili essenzialmente dalle relazioni degli operatori a diretto contatto con il detenuto in istituto, o dei sanitari di quest’ultimo; condizioni che comunque - così come affermato per la liberazione anticipata - non implicano previe valutazioni sul regime di collaborazione con la giustizia, e sulla sua valenza ed importanza, così da non giustificare lo spostamento di competenza ad un organo giudiziario diverso da quello altrimenti “naturale”. Né a diversa conclusione può indurre la circostanza che, nei casi di accoglimento dell’istanza di rinvio, il giudice competente possa disporre in sua vece la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter. La misura in tal caso disposta, pur annoverabile tra le misure alternative in senso lato, ha una finalità eminentemente assistenziale, potendo essa essere applicata, anche d’ufficio, al fine di contemperare le necessità del condannato, in relazione alla tutela della salute (o delle altre esigenze contemplate dagli artt. 146 e 147 c.p.) i e quelle della collettività, in relazione ai profili di sicurezza pubblica (Sez. 1, 12565//2015). Essa non richiede alcun apprezzamento, né in ordine all’importanza della collaborazione, né in ordine al ravvedimento (ed al riflesso presupposto dell’assenza di mantenuti collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva), che sono i requisiti cui, nel sistema delineato dall’art. 16-nonies citato, è ancorata la concessione delle misure, marcatamente premiali, viceversa prese in considerazione ai fini della deroga di competenza; requisiti, al tempo stesso, in rapporto ai quali riveste importanza decisiva l’apporto di conoscenza degli organi centrali di protezione, e in questo quadro, trova senso l’istituito stretto collegamento tra la sede di tali organi e la competenza giudiziaria. Deve essere pertanto conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: “In tema di rinvio, necessario o facoltativo dell’esecuzione della pena, la competenza a provvedere sull’istanza del soggetto detenuto, collaboratore di giustizia, appartiene al magistrato o al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta, quand’anche l’interessato richieda, o il giudice ritenga comunque di applicare, la detenzione domiciliare in luogo del differimento, non operando la regola di cui all’art. 16-nonies, comma 8, DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, che prevede la competenza territoriale esclusiva del giudice di sorveglianza di Roma” (Sez. 1, 8131/2018).

 

Reclami avverso provvedimenti disciplinari

Dinanzi al consiglio di disciplina, la violazione del diritto di difesa del detenuto deve essere eccepita, a pena di decadenza, al momento dell'apertura dell'udienza stessa, trovando applicazione le disposizioni in materia di nullità processuale, tra cui l'art. 182, comma 2 CPP (nel caso in esame, la Corte ha censurato la motivazione per mezzo della quale il tribunale di sorveglianza aveva annullato la sanzione disciplinare emessa nei confronti di un detenuto in regime ex art. 41-bis sull’errato presupposto che lo stesso non sarebbe stato convocato secondo forme rituali (peraltro non previste dalla disciplina, volta ad assicurare la speditezza della procedura) e non valorizzando adeguatamente il fatto che questi aveva partecipato alla udienza, così sanando ogni potenziale lesione del diritto di difesa) (Sez. 1, 23212/2022).