x

x

Art. 14-quater

Contenuti del regime di sorveglianza particolare

1. Il regime di sorveglianza particolare comporta le restrizioni strettamente necessarie per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, all’esercizio dei diritti dei detenuti e degli internati e alle regole di trattamento previste dall’ordinamento penitenziario.

2. Per quanto concerne la corrispondenza dei detenuti, si applicano le disposizioni dell’articolo 18-ter.

3. Le restrizioni di cui ai commi precedenti sono motivatamente stabilite nel provvedimento che dispone il regime di sorveglianza particolare.

4. In ogni caso le restrizioni non possono riguardare: l’igiene e le esigenze della salute; il vitto; il vestiario ed il corredo; il possesso, l’acquisto e la ricezione di generi ed oggetti permessi dal regolamento interno, nei limiti in cui ciò non comporta pericolo per la sicurezza; la lettura di libri e periodici; le pratiche di culto; l’uso di apparecchi radio del tipo consentito; la permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno salvo quanto disposto dall’art. 10; i colloqui con i difensori, nonché quelli con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli.

5. Se il regime di sorveglianza particolare non è attuabile nell’istituto ove il detenuto o l’internato si trova, l’amministrazione penitenziaria può disporre, con provvedimento motivato, il trasferimento in altro istituto idoneo, con il minimo pregiudizio possibile per la difesa e per i familiari, dandone immediato avviso al magistrato di sorveglianza. Questi riferisce al Ministro in ordine ad eventuali casi di infondatezza dei motivi posti a base del trasferimento.

Rassegna di giurisprudenza

Contro i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria in materia di colloqui e di corrispondenza telefonica dei detenuti e degli internati sussiste la competenza del magistrato di sorveglianza con la procedura prevista dagli artt. 69 e 14-ter; è peraltro legittima la disciplina differenziata in materia prevista per i detenuti per i delitti individuati dal primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis (SU, 25079/2003).

Il comma 2-quater, lett. f) dell’art. 41-bis, così come introdotto dalla L. 94/2009, prescrive che i detenuti soggetti al regime differenziato siano sottoposti a delle limitazioni della “permanenza all’aperto” non previste per gli altri ristretti; permanenza che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e che deve avere “una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’art. 10”, a norma del quale “ai soggetti che non prestano lavoro all’aperto è consentito di permanere almeno per due ore al giorno all’aria aperta. Tale periodo di tempo può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno soltanto per motivi eccezionali”. Ferma restando, in ogni caso, la possibilità che il limite delle due ore sia modificato in senso più favorevole dal regolamento interno di ogni istituto penitenziario, secondo quanto stabilito dall’art. 36, comma 2, lett. e), Reg. Una prima questione ermeneutica posta dalla citata disposizione concerne il significato da attribuire alla locuzione “permanenza all’aperto”. Sul punto, si ritiene di aderire all’interpretazione secondo cui la “permanenza all’aperto” non possa essere confusa con la fruizione della cd. socialità, attesa la differente funzione dei due istituti, diretti, il primo, alla tutela della salute e ad assicurare il benessere psicofisico e, il secondo, a garantire il soddisfacimento delle esigenze e degli interessi culturali, relazionali e di trattamento. Dunque, i due istituti non possono essere sovrapposti e l’ora di socialità non potrebbe essere considerata come una modalità di fruizione delle ore di permanenza all’aperto. Ciò anche sulla base del dato letterale, che rimanda all’aria aperta e non certo alla presenza fuori dalla camera di detenzione, oltre che dall’argomento sistematico costituito dal fatto che l’art. 10, che costituisce chiaramente la norma generale di riferimento, definisce la permanenza all’aperto come permanenza all’aria aperta, come chiarito anche dall’art. 16 Reg., che a tale disposizione dà attuazione, prevedendo, al comma 2, che in quei frangenti vengano utilizzati “spazi all’aperto”, se possibile non interclusi tra fabbricati, ma in luoghi maggiormente esposti all’aria e alla luce, venendo la permanenza assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico. Tale ricostruzione comporta, già sotto questo primo aspetto, un profilo di illegittimità delle disposizioni contenute nella circolare del DAP del 2/10/2017 e del regolamento interno, che prevedono una sostanziale equiparazione tra la permanenza all’aperto e la cd. socialità, stabilendo un limite massimo unico di due ore giornaliere. Una disciplina, questa, che finisce per incorrere in una erronea applicazione del dettato normativo come sopra interpretato. Una seconda questione attiene, quindi, alla possibilità che, al di là della già censurata assimilazione tra i due istituti, le ore all’aria aperta giornaliere, che l’art. 10 prevede in numero non inferiore a due (come si evince dall’uso della espressione “almeno"), possano essere ridotte, nel caso dei detenuti sottoposti a regime differenziato, in misura pari a una, sulla base di una previsione generale contenuta in una circolare, cui faccia riscontro un provvedimento attuativo di analogo tenore; e ciò, appunto, senza che siano individuate, nei confronti del singolo detenuto, specifiche ragioni che giustifichino il regime più restrittivo. L’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. t), come già osservato, stabilisce che la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti preveda “la limitazione della permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone, ad una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’articolo 10”. Tale formulazione, sul piano strettamente letterale, presenta tratti di marcata ambiguità. Da un lato, infatti, l’enunciato normativo contiene un rinvio al “limite” stabilito dal primo comma dell’art. 10; limite che, secondo la disposizione richiamata, concerne non soltanto il profilo meramente quantitativo, ovvero il numero di ore all’aria aperta fruibili, ma anche la previsione, perché tale limite venga in concreto disposto, di “motivi eccezionali”, che l’amministrazione è tenuta a indicare, nonché di brevi periodi nei quali tale riduzione può essere attuata. Dall’altro lato, però, è vero, altresì, che la disposizione fa in realtà riferimento al “limite minimo” da essa previsto, onde l’aggettivo utilizzato parrebbe circoscrivere il rinvio al solo profilo della durata minima della permanenza all’aperto, la cui concreta modulazione, tra un massimo di due ore e un minimo di un’ora, sarebbe così rimessa alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione penitenziaria. Tale interpretazione parrebbe confermata dal confronto tra la formulazione dell’art. 41 -bis, comma 2-quater, lett. t), e quella dell’art. 14-quater, comma quarto, che certamente rappresenta uno dei più significativi riferimenti normativi ai quali avere riguardo nel definire le regole del trattamento oggetto di sospensione anche nel regime differenziato ai sensi dell’art. 41-bis. Infatti, l’art. 14 -quater, comma quarto, nell’indicare gli ambiti della vita carceraria che non possono essere incisi dal regime di sorveglianza particolare, fa espresso riferimento, mutuando l’espressione utilizzata dall’art. 10, alla “permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno”, con ciò chiarendo assolutamente, sul piano lessicale, che il limite minimo, in questo caso, è costituito da due ore all’aria aperta. Tuttavia, nella scelta della concreta soluzione esegetica, in specie a fronte di formulazione testuale che non spicca per adamantina chiarezza, l’interprete deve avere riguardo anche al criterio sistematico e al dato della maggiore o minore aderenza dell’ipotesi accolta ai principi generali dell’ordinamento, in particolare alla luce della ricostruzione che ne è stata offerta dal giudice delle leggi. In questa prospettiva, proprio in considerazione dello stretto collegamento tra l’art. 41 -bis e l’art. 14-bis, deve condividersi il rilievo secondo cui il regime proprio della sorveglianza speciale costituisce un parametro fondamentale per valutare nel concreto il livello di umanità della pena, sicché la previsione del comma quarto del citato art. 14-quater fornisce indicazioni “particolarmente pregnanti” per la concretizzazione di divieti contrari al senso di umanità (così Corte costituzionale, sentenza 351/1996). Tale puntualizzazione fa pendant con l’affermazione secondo la quale il potere ministeriale, nell’adozione della misure restrittive, deve trovare un limite “interno” di natura strettamente funzionale, nel senso che tutte le restrizioni dei diritti fondamentali del detenuto “per il loro contenuto (...) siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento” (in questo senso Corte costituzionale, sentenze 351/1996 e 376/1997). Nel caso qui esaminato, tuttavia, la disposizione della circolare, così come quella attuativa posta dal decreto ministeriale, non appare certamente idonea a rafforzare l’ordine e la sicurezza, così come la prevenzione di flussi comunicativi illeciti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale o a organizzazioni criminali contrapposte, per questa via contrastando con l’esigenza, testualmente affermata dalla Corte costituzionale, di bilanciare in maniera equilibrata tra interessi contrapposti, atteso che al minus di tutela accordato al diritto fondamentale alla salute, cui l’ora d’aria è preordinato, non corrisponde il rafforzamento della tutela accordato a un interesse, contrapposto, ma di pari rango (in termini cfr. Corte costituzionale, sentenza 143/2013). Ciò in quanto, i detenuti sottoposti al regime speciale dell’art. 41-bis possono permanere all’aperto soltanto all’interno di un gruppo di socialità di quattro persone, scelte dal dipartimento e dalle direzioni di istituto, nell’ambito del quale è sempre consentito comunicare, senza dover attendere le ore di permanenza fuori dalla camera detentiva, sicché quello che potrebbe accadere in due ore, potrebbe accadere anche in un’ora di permanenza all’aria. Dunque, sul piano sistematico, l’interpretazione seguita si conforma pienamente - nell’ottica dell’onere processuale, incombente sul giudice comune, di sperimentare preventivamente la possibilità di dare al testo legislativo un significato compatibile con il parametro costituzionale - al principio, espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui “l’estensione e la portata dei diritti dei detenuti può (...) subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere”, sicché “in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.” (Corte costituzionale, sentenza 135/2013). Un principio che, in definitiva, consente la compressione di un diritto, nella specie quello alla salute, soltanto in quanto a essa corrisponda una maggiore tutela accordata a un interesse assiologicamente omogeneo o addirittura sovraordinato; ciò che, nel caso in esame, è stato motivatamente escluso dal magistrato e dal tribunale di sorveglianza, avuto riguardo al fatto che alle limitazioni poste alla fruizione del periodo all’aria aperta non corrispondeva un incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza, posto che, come già rilevato, l’ammissione all’aria aperta sarebbe comunque avvenuta con le medesime persone con cui il detenuto avrebbe fruito dell’ora di socialità, con le quali, dunque, avrebbe potuto comunicare liberamente. Ciò non significa, ovviamente, che in caso di comprovate esigenze non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta; e tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento della direzione dell’istituto, che dia conto dei “motivi eccezionali”, i quali, dunque, non potranno essere assunti, nei confronti del singolo detenuto, sulla base del mero decreto ministeriale, salvo che questo sia in grado di indicare i suddetti motivi (Sez. 1, 27572/2019).