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Art. 15

Elementi del trattamento

1. Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. (1)

2. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro.

3. Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione giuridica.

(1) Comma così sostituito dall’art. 11, comma 1, lett. f), D.Lgs. 123/2018.

Rassegna di giurisprudenza

Il lavoro come componente essenziale del trattamento rieducativo

Non è in dubbio che il lavoro costituisca componente essenziale del trattamento rieducativo e lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati (art. 15, comma 3) “si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo” (Corte costituzionale, 158/2001). La legge penitenziaria prevede (art. 20, comma 1: Negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro...; art. 15: Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato ... è assicurato il lavoro") per l’appunto, che al condannato sia, salvo casi di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, presenta, per i profili di accesso e per gli aspetti organizzativi, disciplinari, di sicurezza, inevitabili peculiarità che giustificano varianti o deroghe rispetto alla regolamentazione del rapporto di lavoro in generale, tuttavia né la sua specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena «valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale, 158/2001); il lavoro dei detenuti implica, dunque, «una serie di diritti (...) modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati» che possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, restando comunque illegittima «ogni irrazionale, ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Alla luce dei parametri normativi di riferimento e, massimamente, dei pronunciamenti del giudice delle leggi, si può, dunque, affermare che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost., ma sono tendenzialmente assimilabili ai diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con i soli limiti derivanti dallo stato di privazione della libertà personale. Tanto posto, l’ammissione al lavoro all’esterno non è misura alternativa alla detenzione, ma specifica modalità trattamentale: “I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15” (art. 21). L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare in autonomia il provvedimento di ammissione, essendo tale facoltà espressamente rimessa all’Amministrazione e l’intervento del primo essendo previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa della seconda. E tuttavia, posto che l’assegnazione deve essere disposta in condizioni idonee a garantire gli scopi previsti dall’art. 15, è evidente che essa non è rimessa alla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma è subordinata, come espressamente stabilito dall’art. 48, comma 1, Reg., alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento rieducativo, formulato - secondo una logica di individualizzazione dei relativi protocolli e all’esito dell’osservazione scientifica della personalità del singolo detenuto e dell’individuazione dei suoi bisogni specifici- dal gruppo di osservazione previsto dall’art. 29 Reg., lo stesso gruppo che esamina gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati, predisponendo e apportando le modifiche che si rendano necessarie. È evidente allora che in capo al detenuto condannato è configurabile un diritto al trattamento, quale aspetto del più generale diritto alla rieducazione, restando riservata all’autorità amministrativa (e all’approvazione preliminare del magistrato di sorveglianza nell’ambito della valutazione del programma) l’offerta degli interventi finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del condannato, ossia l’individuazione delle più consone modalità trattamentali e, tale essendo il lavoro all’esterno, non è configurabile né un diritto soggettivo alla sua ammissione né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, in quanto il provvedimento di revoca dell’ammissione non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’esso nell’attività trattamentale, periodicamente riscontrata e valutata in relazione alla modificazione dei comportamenti e della personalità. Nei sensi sopra indicati va riaffermato il principio, secondo il quale in materia di lavoro all’esterno i provvedimenti di ammissione e di revoca hanno natura amministrativa e identica natura amministrativa hanno i provvedimenti che, nel corso del procedimento finalizzato alla loro adozione, la legge riserva all’autorità giudiziaria, avverso i quali non è ipotizzabile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., in quanto la materia in esame non può farsi rientrare in quella della libertà personale (Sez. 1, 35730/2018).

L’art. 15 stabilisce che il lavoro è uno dei principali elementi del trattamento penitenziario e che, proprio ai fini del trattamento rieducativo, esso è assicurato salvo casi di impossibilità. La valenza rieducativa del lavoro è ribadita dall’art. 20, ove è precisato che negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione ai corsi di formazione professionale (comma 1) e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato (comma 2). Anche il lavoro all’esterno è modalità trattamentale (art. 21, comma 1, “ I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15"), come espressamente ribadito anche dall’art. 48, comma 1, Reg., che ne subordina l’ammissione alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento. L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare, in autonomia, il provvedimento di ammissione al lavoro esterno del detenuto. Tale facoltà è, invece, espressamente rimessa dall’art. 48 Reg. all’Amministrazione, e l’intervento del magistrato di sorveglianza è previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa di quella. L’applicazione della specifica modalità trattamentale del lavoro esterno non dipende esclusivamente dalla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma presuppone, all’esito di un’osservazione scientifica della personalità del detenuto, la formulazione di un programma di interventi, tra i quali sia espressamente prevista l’ammissione al lavoro esterno. Compete, invece, all’Amministrazione, che è tenuta ad indicare i posti di lavoro disponibili in apposita tabella distinta tra lavorazioni interne, lavorazioni esterne e servizi di istituto (art. 47, comma 10, Reg.), la verifica di ulteriori condizioni, quali l’affidabilità del soggetto, la carenza di attività lavorative interne, le caratteristiche del posto di lavoro all’esterno, ossia di tutti quegli elementi che potrebbero negativamente incidere sulle finalità dell’istituto e che ne rappresentano altrettante condizioni di ammissibilità; nel provvedimento devono essere, poi, indicate le prescrizioni che il detenuto o internato deve impegnarsi per iscritto a rispettare durante il tempo da trascorrere fuori dall’istituto, nonché quelle relative agli orari di uscita e di rientro (art. 48, comma 13, Reg.). La Direzione dell’istituto è tenuta a motivare (art. 48, comma 3, “deve motivare") la richiesta di approvazione del provvedimento, con la specificazione dei concreti elementi in base ai quali è stato esercitato il potere discrezionale e con la valutazione delle indagini svolte nell’istruzione della pratica. Se, dunque, il potere di iniziativa e di scelta dei soggetti da ammettere al lavoro esterno è affidato dalla legge all’autorità amministrativa, il provvedimento di ammissione per diventare esecutivo necessita dell’approvazione del magistrato di sorveglianza, cui spetta un esame circa le modalità di ammissione e di svolgimento dell’attività prevista, potendo dissentire dalla decisione del direttore dell’istituto e restituire il provvedimento con le osservazioni ritenute necessarie al fine di una nuova formulazione, e dovendo altresì necessariamente tenere conto nella sua approvazione, resa con decreto non motivato (art. 69 bis, comma 5), del tipo di reato, della durata della pena, dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro esterno commetta altri reati (art. 48, comma 4, Reg.). Anche l’iniziativa della revoca del provvedimento di ammissione compete al direttore dell’istituto e diviene esecutiva dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza, pur essendo riconosciuta al primo la possibilità di disporre, con provvedimento motivato, la sospensione dell’efficacia dell’ammissione del lavoro all’esterno, nelle more dell’approvazione del provvedimento di revoca (art. 48, comma 15, Reg.). Tanto precisato, non v’è dubbio che il lavoro dei detenuti costituisca una delle principali componenti del trattamento rieducativo, tant’è che “lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo”. Ciò che la legge prevede è, per l’appunto, che al condannato sia, salvo caso di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero, che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, « presenta le peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza (...) per cui è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto dì lavoro in generale (...) Tuttavia, né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale,  158/2001); «Il lavoro dei detenuti, sia che venga svolto in favore dell’amministrazione penitenziaria, sia che venga effettuato alle dipendenze di terzi, implica una serie di diritti e di obblighi delle parti, modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati. (...) La configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro dei detenuti possono (...) non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena», è comunque illegittima «ogni irrazionale ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Sicché, alla luce del chiaro dato normativo e, massimamente, dei principi più volte ribaditi dal giudice delle leggi, discende che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro o dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost. Ad esempio l’art. 48, comma 11, Reg., stabilisce che í detenuti e gli internati ammessi al lavoro esterno esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti all’esecuzione della misura privativa della libertà; pertanto, è stato ritenuto che ai medesimi siano riconosciuti il diritto di sciopero, lo svolgimento di attività sindacali, la partecipazione ad assemblee sindacali sui luoghi di lavoro, quando si svolgano nel periodo nel quale possono rimanere all’esterno. E, viceversa, essendo anche il lavoro esterno una specifica modalità trattamentale, per la cui applicazione è necessaria a monte, la sua previsione nello specifico programma rieducativo, predisposto all’esito dell’osservazione e della valutazione della personalità e degli specifici bisogni del singolo detenuto, approvato dal magistrato di sorveglianza ed integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione, non è configurabile un diritto soggettivo né all’ammissione, né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, ché la revoca dell’ammissione al lavoro non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’essa nell’attività trattamentale e nelle previste e consentite modifiche del programma rieducativo individuale. In tal senso deve, pertanto, essere ribadito il principio di diritto secondo il quale «è inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di ammissione al lavoro all’esterno, in quanto esso ha natura amministrativa e non può farsi rientrare nell’ambito degli atti che incidono comunque sulla libertà personale, ricorribili ex art. 111 Cost. (Sez. 1, 4979/2018).

I colloqui

Ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, stesso DPR, prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c/ Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003) (Sez. 1, 7654/2015).

Attività trattamentali finalizzate alla liberazione anticipata

La valutazione della condotta del condannato ai fini della liberazione anticipata implica un giudizio sulla disponibilità del soggetto i cui sintomi devono necessariamente ricavarsi da un esame complessivo della personalità secondo i principi sanciti dall’art. 13. Pertanto, la valutazione negativa di alcuni semestri, a causa di comportamenti che siano indicativi della mancanza di reale disponibilità al trattamento, deve essere l’esito di un’indagine particolarmente approfondita, espressa in un provvedimento che analiticamente spieghi le ragioni in base alle quali il negativo giudizio espresso sia di tenore tale da rigettare il beneficio. A tale obbligo non ottempera il giudice di merito che si limiti genericamente a valutare in negativo la condotta tenuta dall’interessato: in altri termini, a tale obbligo di puntuale e specifica motivazione non ottempera il giudice che si serva di frasi troppo generiche o di mere clausole di stile, senza avere prima ricostruito e descritto i comportamenti cui attribuisce valenza negativa. Il mero richiamo al fatto storico dell’esistenza di alcuni rilievi senza che nulla sia specificato quanto al contenuto degli atti e alla inferenza che da detto contenuto può conseguentemente trarsi circa la sussistenza di fatti negativi, e senza una sia pur minima valutazione critica delle risultanze, oltre a non consentire di ritenere che il giudice abbia fatto propri gli atti richiamati, impedisce di sottoporre a verifica la conclusione della ordinanza nei termini di affermazione di una sottrazione all’opera rieducativa (Sez. 1, 1411/2020).

La valutazione della condotta del condannato ai fini della liberazione anticipata implica un giudizio sulla disponibilità del soggetto i cui sintomi devono necessariamente ricavarsi da un esame complessivo della personalità secondo i principi sanciti dall’art. 13. Pertanto la valutazione negativa di alcuni semestri, a causa di comportamenti che siano indicativi della mancanza di reale disponibilità al trattamento, deve essere l’esito di un’indagine particolarmente approfondita, espressa in un provvedimento che analiticamente spieghi le ragioni in base alle quali il negativo giudizio espresso sia di tenore tale di rigettare il beneficio. A tale obbligo non ottempera il giudice di merito che si limiti genericamente a valutare in negativo la condotta tenuta dall’interessato: in altri termini, a tale obbligo di puntuale e specifica motivazione non ottempera il giudice che si serva di frasi troppo generiche, senza avere prima ricostruito e descritto i comportamenti cui attribuisce valenza negativa. Il mero richiamo al fatto storico dell’esistenza di alcuni rilievi disciplinari, senza che nulla sia specificato quanto al contenuto degli atti e alla inferenza che da detto contenuto può conseguentemente trarsi circa la sussistenza dei fatti ascritti, e senza una sia pur minima valutazione critica delle risultanze, oltre a non consentire di ritenere che il giudice abbia fatto propri gli atti richiamati, impedisce di sottoporre a verifica la conclusione della ordinanza nei termini di affermazione di una sottrazione all’opera rieducativa. In secondo luogo, la mancanza di adeguato esame sulle condotte di cui sopra si riverbera negativamente anche sul giudizio di refluenza sui semestri precedenti. Secondo l’orientamento consolidato, in tema di liberazione anticipata il comportamento tenuto dall’interessato, ai fini della considerazione della sua partecipazione all’opera di rieducazione, va valutato complessivamente ed unitariamente, sicchè la registrazione di un episodio negativo può influire non soltanto sul semestre nel quale tale episodio si è verificato, ma anche su tutto il periodo di espiazione della pena. Ciò vuol dire che quando, dopo un periodo privo di rilievi, il soggetto abbia mutato atteggiamento manifestandosi in termini negativi, il giudizio sui comportamenti tenuti in epoca successiva non può essere pretermesso, ma deve entrare necessariamente a far parte della valutazione complessiva della condotta del soggetto, posto che, per godere della liberazione anticipata, un condannato deve dare prova di reale, e non meramente formale, partecipazione all’opera di rieducazione. Ma, in casi simili, una condotta negativa si riverbera anche sui periodi precedenti allorquando sia stata particolarmente grave e sintomatica, tanto da lasciar dedurre una mancata partecipazione al fine della rieducazione anche nel periodo antecedente a quello al quale la condotta si riferisce: i connotati di gravità devono attribuire una tale valenza negativa retroattiva ai comportamenti da far concludere che il condannato abbia inteso la condotta regolare come mero espediente per ottenere benefici (Sez. 1, 33834/2017).

Attività trattamentali finalizzate all’affidamento in prova al servizio sociale

Ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale e degli altri benefici penitenziari, non può certamente essere trascurata la tipologia e la gravità dei reati commessi, ma si deve avere soprattutto riguardo al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti per i quali è stata inflitta la condanna in esecuzione, per verificare concretamente se sussistano, o meno, sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che ne rendano possibile il reinserimento sociale attraverso le richieste misure alternative. Nelle corrispondenti valutazioni il TDS gode di uno spazio di apprezzamento discrezionale, ma esiste uno standard motivazionale minimo, che risulta nella specie palesemente non rispettato. Nel caso di specie, i riferimenti al passato criminale del condannato, operati dall’ordinanza impugnata, sono assertivi e fugaci, né essa dà conto, neppure in modo sintetico, dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità di cui all’art. 13, base del successivo programma individualizzato di trattamento; e lo stesso richiamo alla pur recente sanzione disciplinare non è in alcun modo circostanziato, risultando in tal modo privo d’incidenza prognostica (Sez. 1, 53219/2018).

Attività trattamentali concernenti i detenuti sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis

Già con la sentenza 376/1997, la Corte costituzionale ha in particolare chiarito che l’applicazione del regime ex art. 41-bis non comporta, né può comportare la soppressione o anche la sola sospensione delle attività di osservazione e trattamento individualizzato come previste dall’art. 13, né in sé impedisce la partecipazione alle attività di diverso genere rivolte alla realizzazione della personalità secondo quanto contemplato dall’art. 27, attività che semmai dovranno essere organizzate, per i soggetti sottoposti al particolare regime in questione, con concrete modalità tali da impedire tutti quei contatti e collegamenti cui il provvedimento ministeriale attribuisce rilievo. Finalità contemplate dagli artt. 13 e 27 allo stesso modo sia per i detenuti in esecuzione della pena o in custodia cautelare, sia per gli internati in quanto sottoposti alla misura di sicurezza detentiva quale la casa di lavoro. Del resto, alla base dell’applicazione di tale misura e dello speciale regime previsto dall’art. 41-bis, vi è la medesima valutazione della concreta pericolosità attuale, con la necessità dell’aggiunta di più stringenti limitazioni in rapporto al maggior allarme sociale nel caso dell’adozione del regime speciale, parimenti derivante da un provvedimento a tempo in ogni momento revocabile. Le vigenti previsioni, quanto ai presupposti, all’iter del procedimento e alle restrizioni di cui al decreto ministeriale, hanno superato il vaglio di costituzionalità alle quali sono state sottoposte in relazione a molteplici aspetti. Tanto rilevato, appare evidente che non ha alcun rilievo evocare distinzioni funzionali rispetto all’esecuzione della pena o della custodia cautelare, una volta che comunque lo speciale regime detentivo nei confronti dell’internato non rimane irragionevolmente imposto e in contrasto con i citati principi di cui all’art. 27 Cost., da osservare in presenza di ogni forma di trattamento detentivo. Quanto poi alla compatibilità del medesimo regime rispetto alle finalità perseguite dalle disposizioni in materia di misura di sicurezza sotto l’aspetto risocializzante, va ribadito che non rimane escluso, come affermato dalla sopra citata sentenza della Corte costituzionale, che tale misura sia eseguita, in apposito stabilimento, con adozione di un regime educativo e di lavoro però più adeguato alla persona di cui trattasi per la speciale pericolosità che manifesta. Tanto in primis con riguardo ai maggiori limiti relativi alla sfera comunicativa e dei movimenti nell’ambito degli spazi di detenzione, limiti che in sé, però, non precludono né interventi educativi, né l’avviamento al lavoro; ma comporteranno un’individualizzazione delle modalità del trattamento secondo possibili spazi di contemperamento. E ciò con quell’approccio costituzionalmente orientato che la giurisprudenza di legittimità continua ad affermare in materia di tutela di diritti anche in relazione alla posizione di chi è sottoposto al citato regime speciale. Per quanto riguarda poi in particolare le licenze previste dall’art. 53, va rilevato che si tratta in ogni caso di provvedimenti discrezionali che non costituiscono presupposto imprescindibile per valutare gli effetti risocializzanti. Effetti il cui concreto e apprezzabile verificarsi, con particolare riguardo ai presupposti di pericolosità che viene in evidenza, non possono che passare dalla riscontrabile interruzione di quei collegamenti criminali prima ritenuti attuali. Una circostanza sopravvenuta che quindi sarà preliminarmente idonea a giustificare già il venir meno, tramite la revoca, del provvedimento ministeriale. Sicché, in ragione di tutto quanto esposto, va escluso ogni possibile profilo di fondatezza e rilevanza delle questioni di costituzionalità poste in questa sede in cui deve verificarsi la legittimità del provvedimento che applica all’internato il regime di cui all’art. 41-bis, secondo modalità attuative che a loro volta, in considerazione dell’evolversi dei presupposti che giustificano, saranno in seguito fatte oggetto di concrete determinazioni sottoponibili ad autonomo vaglio giurisdizionale quanto alla stessa compatibilità con i precetti costituzionali (Sez. 1, 48297/2018).

Criteri sulla destinazione dei detenuti e impugnabilità dinanzi il magistrato di sorveglianza dei relativi provvedimenti

Allorquando provvedimenti comportano la sottoposizione a un regime penitenziario differenziato o, comunque, il suo mantenimento, possono essere oggetto di reclamo al magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, ove siano adottati in violazione dei criteri sulla destinazione dei detenuti, fissati in via generale ed astratta dall’amministrazione, risolvendosi in una lesione del diritto soggettivo al trattamento “comune”. Ciò perché, la scelta dell’Amministrazione penitenziaria in ordine alla classificazione di un detenuto, trova fondamento nell’art. 14, secondo cui il raggruppamento dei detenuti nelle sezioni è stabilito in relazione alla possibilità di procedere ad un “trattamento rieducativo comune” e all’esigenza di evitare “influenze nocive reciproche”. Egualmente, l’art. 32 Reg. prevede l’assegnazione ad appositi istituti o sezioni dove sia “più agevole” adottare le cautele per quei detenuti che, con i loro comportamenti, facciano temere per l’incolumità propria o dei compagni, a tutela “da possibili aggressioni o sopraffazioni”. Attraverso la previsione di un regime differenziato, il sistema penitenziario prevede per esigenze di ordine e di sicurezza, la realizzazione di percorsi trattamentali meno completi. Così si può incidere anche sui principi posti dall’art. 13, secondo cui il trattamento penitenziario deve essere individualizzato e deve “rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto”. Gli orientamenti meno recenti della giurisprudenza di legittimità hanno escluso la possibilità di impugnare il provvedimento di assegnazione del detenuto al circuito penitenziario. Esso provvedimento, si affermava, era espressione del potere discrezionale, riservato all’Amministrazione, di organizzare e regolare la vita all’interno degli istituti, in ragione della pericolosità dei detenuti e della necessità di assicurare l’ordinato svolgimento della vita intramuraria e, come tale, non risultava suscettibile di sindacato da parte della magistratura di sorveglianza. In alcuni casi si era richiamato un potere di verifica da parte dell’organo giudiziario sulle “singole disposizioni che lo accompagnano o lo seguono” o sugli “atti esecutivi che siano in concreto lesivi di diritti” Si trattava di orientamenti essenzialmente protesi a privilegiare la salvaguardia di valori di ordine e sicurezza e di osservanza delle regole interne, che non si soffermavano sulla finalità del trattamento stesso e sul sottostante obiettivo di rieducazione. Oggi può ritenersi che l’ordinamento riconosca al detenuto un generale diritto al trattamento penitenziario “non differenziato”, con l’eccezione che l’Amministrazione, in presenza di situazioni di pericolosità del detenuto, che impongano di attuare misure volte ad assicurare la sicurezza interna ed esterna, ha facoltà di sottoporlo ad un regime differenziato. In tali evenienze, dunque, fermo il diritto al trattamento comune (non differenziato) l’Amministrazione penitenziaria può pacificamente adottare, nell’esercizio di potestà organizzative, misure che incidono sulla originaria posizione soggettiva. A fronte dell’esercizio di poteri siffatti, il detenuto può investire, attraverso lo strumento del reclamo giurisdizionale, il magistrato di sorveglianza, impugnando non tanto la previsione, generale e astratta, che, nel prevedere il circuito penitenziario, definisca le condizioni per la sua assegnazione, quanto piuttosto il provvedimento di assegnazione, in ipotesi adottato in assenza dei requisiti, ovvero, per quanto di interesse in questa sede, il provvedimento con il quale, pur venendo meno i presupposti per l’assegnazione a un determinato circuito, l’amministrazione abbia negato la declassificazione. È un sindacato circoscritto al profilo dei vizi di legittimità dell’atto amministrativo. Non si estende, cioè, al merito della scelta, salvo in casi di assoluta contraddittorietà e manifesta irragionevolezza. assolutamente rimesso esclusivamente alla valutazione dell’Amministrazione penitenziaria. Si intende, allora, come esista un diritto alla assegnazione ad una sezione “comune”, quale momento d’attuazione del diritto al trattamento individualizzato, previsto dalla legge penitenziaria dagli articoli 1, comma 6, 13 e 14, comma 2. In difetto sarebbe sottratta al magistrato di sorveglianza la prima forma di controllo sulla conformità del trattamento di recupero del detenuto, trattamento che passa attraverso l’assegnazione ad un regime che assicuri l’obiettivo e la finalità della risocializzazione. Da ciò la legittimazione al ricorso, in ordine al pregiudizio, grave e attuale, che può derivare all’esercizio del diritto del detenuto dal mantenimento dell’assegnazione nel circuito differenziato. L’introduzione del reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35-bis non muta il quadro. Il rimedio è stato introdotto per adeguare la normativa alla soluzione giurisprudenziale che, sull’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 26/1999), riconosceva la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti (SU, 25079/2003) con lo strumento della procedura prevista dall’art. 14-ter. Quindi, il reclamo ex artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b) è pacificamente ammissibile in presenza di “inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni della legge penitenziaria e del relativo regolamento dalla quale derivi al detenuto un attuale e grave pregiudizio. Rischia pertanto di essere forviante l’affermazione secondo cui non è possibile proporre reclamo giurisdizionale avverso il provvedimento di assegnazione ad una determinata sezione, mentre è possibile reclamare avverso un provvedimento - eventualmente collegato a tale assegnazione - che determini la violazione effettiva e concreta di uno specifico diritto del detenuto (Sez 1, 52534/2018), in difetto di una precisazione ulteriore che prevede come esso reclamo sia esperibile anche per la violazione del diritto a non subire un trattamento penitenziario non comune, in difetto dei presupposti legittimanti della differenziazione (quali, a titolo esemplificativo, la condizione di pericolosità di esposizione a rischio per l’ordine interno ed esterno) (Sez. 1, 43858/2019).

Le norme penitenziarie primariamente disciplinanti il trattamento dei detenuti, con la loro classificazione e il conseguente raggruppamento (artt. 13 e 14 e 32 Reg.), certamente conferiscono all’Amministrazione il potere di apprestare regimi penitenziari differenziati corrispondenti ai vari circuiti configurando comunque il regime differenziato in termini di eccezione, giustificata da corrispondenti esigenze organizzative, rispetto a quello comune, caratterizzato dall’applicazione del trattamento ordinario. In questa direzione, sulla base del complesso degli elementi valutati, si ritiene che - in ordine alla questione relativa alla possibilità di esercitare il rimedio del ricorso giurisdizionale ex art. 35-bis in relazione al provvedimento che dispone la sottoposizione a un determinato circuito penitenziario (classificazione) o, viceversa, rigetta la richiesta di modifica dell’assegnazione (declassificazione), considerate anche le indicazioni provenienti dal citato orientamento della giurisprudenza convenzionale - il detenuto possa ricorrere al magistrato di sorveglianza per lamentare l’adozione di un illegittimo provvedimento di classificazione ovvero di illegittimo diniego di declassificazione, sempre che, però, il relativo ricorso non si risolva in una censura di mero principio dell’atto amministrativo, ma, enucleando il corrispondente interesse ad agire, prospetti l’incidenza del provvedimento su una sua situazione giuridica soggettiva (ad esempio, sul diritto allo studio, sul diritto al lavoro, sul diritto al mantenimento, nelle forme stabilite, delle relazioni familiari, sul diritto a esercitare, nelle forme stabilite, i contatti epistolari) che venga concretamente pregiudicata dal provvedimento stesso. Resta, dunque, assodato che il provvedimento di assegnazione del detenuto a un determinato circuito carcerario costituisce manifestazione dei poteri di organizzazione amministrativa contrassegnati da discrezionalità tecnica rispetto a cui il giudice ordinario non può svolgere il suo diretto sindacato, ma ciò lascia impregiudicato la - distinta e speculare - affermazione che, ove tale provvedimento contenga o determini disposizioni tali da incidere direttamente sui diritti del detenuto, l’atto o gli atti impositivi della restrizione in tesi illegittima possono formare oggetto di reclamo (Sez. 1, 10558/2019).