x

x

Art. 16

Regolamento dell’istituto

1. In ciascun istituto il trattamento penitenziario è organizzato secondo le direttive che l’amministrazione penitenziaria impartisce con riguardo alle esigenze dei gruppi di detenuti ed internati ivi ristretti.

2. Le modalità del trattamento da seguire in ciascun istituto sono disciplinate nel regolamento interno, che è predisposto e modificato da una commissione composta dal magistrato di sorveglianza, che la presiede, dal direttore, dal medico, dal cappellano, dal preposto alle attività lavorative, da un educatore e da un assistente sociale.

3. La commissione può avvalersi della collaborazione degli esperti indicati nel quarto comma dell’art. 80.

4. Il regolamento interno disciplina, altresì, i controlli cui devono sottoporsi tutti coloro che, a qualsiasi titolo, accedono all’istituto o ne escono.

5. Il regolamento interno e le sue modificazioni sono approvati dal Ministro per la grazia e giustizia.

Rassegna di giurisprudenza

La previsione, in via generale, ovvero tramite circolare, di limiti di orario nella fruizione dell’apparecchio TV da parte dei detenuti, è stato oggetto di vari interventi regolativi. In particolare: a) con circolare in data 2/5/2019, il DAP ha esteso la previsione della “fascia di silenzio” per sette ore notturne a tutti gli istituti penitenziari, senza distinzioni correlate al regime particolare di cui all’art. 41-bis, tant’è che con detta circolare è stato abrogato in modo espresso il comma 2 dell’art. 14 della circolare del 2017 relativa al regime differenziato; b) con determinazione del 22/7/2019, il DAP ha espressamente rivisto la circolare generale del 2/5/2019, ripristinando la regola previgente per cui il tema degli orari di fruizione della TV è rimesso alla regolamentazione interna dei singoli istituti e alle competenze delle Direzioni; c) tale nuovo assetto è applicabile, come da precisazione del DAP del 22/8/2019, anche ai soggetti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis. Va, dunque, rilevato che la circolare del 2/10/2017, nella parte di rilievo (art. 14, comma 2), non esplica più alcun effetto sul trattamento dei soggetti ristretti. Sul punto, se da un lato è pacifico che l’interesse alla impugnazione (e al suo mantenimento in essere) si sostanzia nella utilità concreta della pronunzia e nella sua idoneità a determinare l’assetto regolativo della condizione del ricorrente in termini di obiettivo vantaggio rispetto ai contenuti della decisione impugnata, va dall’altro lato precisato che, in punto di variazione intervenuta medio tempore dei profili in diritto, il giudice di legittimità ha il potere di verificare la permanente vigenza o meno - al momento della decisione - di disposizioni incidenti sull’oggetto della controversia. Come è stato di recente osservato, le circolari emesse dal DAP hanno contenuto lato sensu normativo, il che sottrae al potere dispositivo delle parti la loro necessaria produzione e impone alla Corte regolatrice di conoscerne il contenuto al fine di valutare l’ammissibilità del ricorso (Sez. 1, 962/2020).

La sovrapposizione tra permanenza all’aria aperta e tempo dedicato alla socialità (come proposta nella circolare DAP del 2017) costituisce una operazione non corretta, perchè accomuna senza ragione due differenti ipotesi, la cui unica connotazione comune (lo stare al di fuori della camera detentiva) mostra gli aspetti della irrilevanza ai fini che qui interessano; - la permanenza all’aria aperta risponde a primarie esigenze igienico-sanitarie e la limitazione della durata ad una sola ora può avvenire non già in via generale - tramite una circolare- ma solo in rapporto ad esigenze eccezionali da motivarsi in concreto, nei confronti del singolo detenuto (come previsto dall’art. 16 comma 3 Reg.) ; - l’interpretazione sistematica delle disposizioni di legge va sempre operata in riferimento a canoni di ragionevolezza e di rispetto dei contenuti delle norme costituzionali, il che porta a ritenere possibili limitazioni ’ulteriori’ dei diritti riconosciuti dalla legge ai soggetti in esecuzione della pena solo lì dove funzionali, in concreto, ad esigenze di ordine e sicurezza interne agli istituti, risolvendosi - in caso contrario - in un incremento di afflittività non rispondente ai contenuti dell’art. 27 comma 3 Cost. Va pertanto ribadito che il contenuto della circolare ministeriale - in tale parte - introduce una illegittima modalità di restrizione, in via generale (sia pure per un insieme di soggetti raggiunti dal decreto di sottoposizione al regime differenziato) di un diritto soggettivo alla fruizione di due ore di permanenza all’aperto giornaliere, la cui limitazione richiede, per converso, l’adozione di un provvedimento motivato che dia conto di particolari ragioni relative al singolo detenuto. Peraltro va anche rilevato che con modifica legislativa (D. Lgs. 123/2018) del testo dell’art. 10, il limite legale minimo di permanenza all’aperto è stato elevato a quattro ore, con possibile restrizione - in caso di giustificati motivi - ad un tempo non inferiore alle due ore e tale nuovo assetto normativo rafforza ulteriormente le conclusioni cui si è pervenuta la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 24827/2019).

La semplice lettura dell’art. 16 Reg. (che si occupa sia della permanenza all’aperto che delle attività in comune) e dell’art. 12 (in materia di attività in comune) evidenzia la netta distinzione fra le ore d’aria e quelle di socialità sotto il profilo dell’ambito spaziale e delle modalità delta fruizione proprio in ragione della diversità funzionale delle due figure. Indicazioni nello stesso senso si traggono dall’art. 36 Reg. Una sistematica lettura che mostra come l’unica condizione in comune fra la permanenza all’aria e la socialità sia rappresentata dallo star fuori dalla cella, ossia da qualcosa cui non è associabile alcunché di rilevante ai fini di cui trattasi. E deve essere ancora sottolineato che la permanenza all’aperto adempie in modo evidente a primarie finalità di contenimento degli effetti della privazione della libertà, secondo specifiche esigenze di natura sanitaria e psicologica, sì da ammettersi, come rilevato, solo eccezionali limitazioni previa specifica decisione. Il comma 2-quater dell’art. 41-bis alla lett. f), proprio perché rinvia per i limiti ai casi di cui all’art. 10, smentisce la possibilità in termini generali di comprimere la permanenza sotto le due ore, ferme restando le cautele da assicurare quanto alle condizioni di comunicazione. La «socialità» invece costituisce fruizione che attiene a ben altre esigenze, trattandosi del tempo da trascorrere in compagnia all’infuori dell’attività di lavoro e di studio, di modo che in tal caso rilevano non già le condizioni igienico - sanitarie, bensì i profili della tendenziale funzione rieducativa della pena, da tenere presente anche al cospetto di detenuti sottoposti al regime di cui trattasi. Una fungibilità fra le due fruizioni - quella sostenuta nel ricorso (evocando solo motivi di tutela diversamente assicurabili secondo altre specifiche modalità consentite) - che rimane pertanto smentita dalla razionale e coerente lettura di tutte le disposizioni sopra citate che vengono nella specie ad assumere rilevanza (Sez. 1, 48860/2018).

Il provvedimento genetico, emesso dal magistrato di sorveglianza, sul reclamo proposto dal detenuto, riguardava la disapplicazione del regolamento interno di istituto, nella parte in cui prevedeva il limite massimo di due ore giornaliere di permanenza fuori dalla cella e la rinuncia forzata all’uso delle sale di socializzazione nel caso di fruizione di due ore di permanenza all’aperto. Da tale disapplicazione discendeva che il reclamante aveva il diritto di beneficiare di un massimo di due ore all’aria aperta, nel quale non potevano essere compresi i periodi di socialità trascorsi nei locali interni della stessa struttura penitenziaria. Tale provvedimento trae il suo fondamento da una lettura ineccepibile del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, e 41-bis, comma 2-quater, lett. f), per effetto del quale la permanenza all’aperto del detenuto sottoposto al regime detentivo speciale non può essere superiore a due ore al giorno e in gruppi di non più di quattro persone, nelle quali non possono essere comprese le frazioni orarie trascorse nelle sale di socialità dell’istituto penitenziario. Si osserva, in proposito, che, nel dettare tale disciplina, il legislatore italiano intende riferirsi alla permanenza del detenuto all’aperto e non già al suo stazionamento fuori dalla cella dove è ristretto ma all’interno dell’istituto penitenziario. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «In tema di condizioni di detenzione la “permanenza all’aperto”, prevista dall’art. 10, non può consistere in una mera permanenza al di fuori della cella (nella specie nelle sale di biblioteca, palestra ecc.), dovendo essa svolgersi, secondo la previsione dell’art. 16 Reg., all’aria aperta» (Sez. 1, 44609/2018). D’altra parte, il silenzio dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), in ordine alle limitazioni all’attività di socialità svolta fuori dalla cella ma all’interno della struttura penitenziaria non può che interpretarsi nel senso dell’espansione, sul punto, della disciplina ordinaria, le cui regole sono finalizzate a garantire l’umanità della pena, ad assicurare la funzione rieducativa del trattamento sanzionatorio e a impedire la compressione del diritto alla salute del detenuto, non giustificata da effettive e comprovate ragioni di sicurezza. Né può essere interpretato nella direzione invocata dalla disposizione in esame il secondo periodo dello stesso art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), che non fa alcun riferimento alle attività di socialità in questione, limitandosi ad affermare: «Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». Occorre, al contempo, evidenziare che la ricomprensione dell’ora di socialità all’interno delle due ore di permanenza all’aperto non appare armonica con le finalità, tra loro eterogenee, alle quali rispondono gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti, atteso che nel primo caso si perseguono obiettivi culturali e relazionali non riscontrabili nel caso della permanenza all’aperto, che risponde alla diversa esigenza di garantire il diritto alla salute psico-fisica del detenuto. La giurisprudenza di legittimità, del resto, ha già affermato che gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti non possono essere assimilati sul piano delle esigenze di politica criminale che vi sono sottese, anche alla luce «del dato letterale, che rimanda all’aria aperta e non certo alla presenza fuori dalla camera di detenzione, oltre che dall’argomento sistematico costituito dal fatto che l’art. 10 che costituisce chiaramente la norma generale di riferimento, definisce la permanenza all’aperto come permanenza all’aria aperta, come chiarito anche dall’art. 16 Reg., che a tale disposizione dà attuazione, prevedendo, al comma 2, che in quei frangenti vengano utilizzati “spazi all’aperto”, se possibile non interclusi tra fabbricati, ma in luoghi maggiormente esposti all’aria e alla luce, venendo la permanenza assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico» (Sez. 1, 44609/2018). In altri termini, la previsione dell’art. art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), non giustifica un’equiparazione tra la permanenza del detenuto all’interno della struttura carceraria per finalità di socialità e la sua permanenza all’aperto, in ragione del fatto che, come evidenziato dal provvedimento impugnato, tale equiparazione «comprime il diritto alla salute e al benessere psicofisico senza ragione [...]», non comportando alcun incremento alla sicurezza o alla prevenzione dei rapporti intramurari tra soggetti sottoposti al regime detentivo speciale. A tali considerazioni occorre aggiungere che la soluzione ermeneutica seguita nel caso in esame dal Tribunale di sorveglianza appare conforme al principio, espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui l’estensione e «la portata dei diritti dei detenuti può [...] subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere [...]», con la conseguenza che «in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.» (Corte costituzionale, sentenza 135/2013). Ne discende che la compressione di un diritto, quale quello alla salute del detenuto, può essere giustificato soltanto in quanto corrisponda a una maggiore tutela accordata a un interesse sovraordinato, quale quello dell’ordine e della sicurezza pubblica. La ricorrenza di tali sovraordinate esigenze di tutela veniva correttamente esclusa dal Tribunale di sorveglianza, avuto riguardo al fatto che alle limitazioni poste alla fruizione del periodo all’aria aperta non corrispondeva un incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica, posto che l’ammissione all’aria aperta del detenuto sarebbe comunque avvenuta con le medesime persone con cui il detenuto avrebbe fruito dell’ora di socialità, con le quali avrebbe potuto comunicare liberamente. Queste conclusioni, naturalmente, non comportano che, che in caso di comprovate esigenze di ordine e sicurezza pubblica, non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta. Tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento motivato della direzione dell’istituto penitenziario, che dia adeguatamente conto dei “motivi eccezionali” richiesti dall’art. 10, comma 1, i quali non potranno essere desunti presuntivamente nei confronti del singolo detenuto, sulla base del solo decreto ministeriale di applicazione regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis (Sez. 1, 15572/2019).