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Art. 18

Colloqui, corrispondenza e informazione (1)

1. I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici. (2)

2. I detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, fermo quanto previsto dall’articolo 104 del codice di procedura penale, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena. Hanno altresì diritto di avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei diritti dei detenuti. (3)

3. I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia. I locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto. Particolare cura è dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici. (4)

4. Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari.

5. L’amministrazione penitenziaria pone a disposizione dei detenuti e degli internati, che ne sono sprovvisti, gli oggetti di cancelleria necessari per la corrispondenza.

6. Può essere autorizzata nei rapporti con i familiari e, in casi particolari, con terzi, corrispondenza telefonica con le modalità e le cautele previste dal regolamento.

7. I detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione.

8. Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento. (5)

9. L’informazione è garantita per mezzo dell’accesso a quotidiani e siti informativi con le cautele previste dal regolamento. (5)

10. [La corrispondenza dei singoli condannati o internati può essere sottoposta, con provvedimento motivato del magistrato di sorveglianza, a visto di controllo del direttore o di un appartenente all’amministrazione penitenziaria designato dallo stesso direttore. (6)]

11. Salvo quanto disposto dall’articolo 18-bis, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, i permessi di colloquio, le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica e agli altri tipi di comunicazione sono di competenza dell’autorità giudiziaria che procede individuata ai sensi dell’articolo 11, comma 4.

12. Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado provvede il direttore dell’istituto.

13.[Le dette autorità giudiziarie, nel disporre la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo, se non ritengono di provvedervi direttamente, possono delegare il controllo al direttore o a un appartenente all’amministrazione penitenziaria designato dallo stesso direttore. Le medesime autorità possono anche disporre limitazioni nella corrispondenza e nella ricezione della stampa. (6)]

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 212/1997, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui non prevede che il detenuto condannato in via definitiva ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena.

(2) Comma così modificato dall’art. 11, comma 1, lett. g), n. 1), D.Lgs. 123/2018.

(3) Comma inserito dall’art. 11, comma 1, lett. g), n. 2), D.Lgs. 123/2018.

(4) Comma così modificato dall’art. 11, comma 1, lett. g), n. 3), D.Lgs. 123/2018.

(5) Comma inserito dall’art. 11, comma 1, lett. g), n. 4), D. Lgs. 123/2018.

(6) Comma abrogato dalla L. 95/2004.

Rassegna di giurisprudenza

Colloqui

L’ordinanza del magistrato di sorveglianza, confermata da quella impugnata, faceva riferimento ad una pronuncia di legittimità; in essa si affermava che la sottoposizione al regime carcerario differenziato di un detenuto non esclude, in via di principio, che lo stesso possa essere autorizzato ad avere colloqui visivi con altro detenuto sottoposto al regime dell’art. 41-bis, legato a questo da rapporti genitoriali o familiari, mediante forme di comunicazione controllabili a distanza (come la videoconferenza), tali da consentire la coltivazione della relazione parentale e, allo stesso tempo, da impedire il compimento di comportamenti fra presenti, idonei a generare pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica (Sez. 1, 7654/2015). In quella pronuncia si richiamava il diritto soggettivo del detenuto alla vita familiare ed al mantenimento mediante colloqui di relazioni dirette e di presenza con uno dei suoi più stretti congiunti, che gli era precluso anche in ragione dell’applicazione nei riguardi di tale congiunto del regime differenziato di cui all’art. 41-bis; questo consente l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna che si rivelino necessarie per prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza, nonché eventuali contrasti con elementi di gruppi contrapposti e l’interazione con detenuti o internati della stessa compagine o di altre a questa alleate. Si osservava che l’applicazione di detto regime “pregiudica anche la situazione detentiva del genitore in un settore della vita penitenziaria, cui l’ordinamento stesso assegna rilevanza quale strumento del percorso trattamentale, finalizzato al reinserimento sociale della persona, secondo quanto è deducibile da più fonti normative”. Le stesse venivano individuate nell’art. 28, che stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, norma di cui costituiscono attuazione le singole disposizioni dell’ordinamento penitenziario: ad esempio l’art. 18, comma 3, che espressamente assegna “particolare favore ... ai colloqui con i familiari”, intesi quali occasioni relazionali personali e dirette, perché strumento per il mantenimento dei contatti con quanti sono liberi ed impedire effetti negativi sulla personalità del detenuto, determinati dall’isolamento. Per tali ragioni, ai sensi dell’art. 1, comma 6, e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’ art. 61, comma 1, lett. a), Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, Reg., prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. La pronuncia osservava che “la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis, sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore”. Un’altra norma di riferimento era indicata nell’art. 8 CEDU, che prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare ...”, sicché eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. Veniva evocata la giurisprudenza della Corte EDU, che ha stabilito, da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno, dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile. La pronuncia condivideva “il riconoscimento nella materia specifica all’amministrazione penitenziaria di poteri discrezionali, il cui uso è stato esercitato in funzione della tutela dell’ordine e della sicurezza, sia interna agli istituti, che nei riguardi della generalità dei cittadini sotto il profilo della prevenzione di ulteriori reati”; osservava, tuttavia, che “la forzata separazione di un padre dal figlio per un periodo di tempo così prolungato incide negativamente sul mantenimento della loro relazione affettiva, sulla vita familiare e sul rispettivo percorso trattamentale, integrando condizioni restrittive particolarmente penose ed avvilenti e precludendo in assoluto l’esercizio di un diritto soggettivo ai colloqui”; poneva, quindi, “il problema di come conciliare queste opposte esigenze in modo da non dare attuazione soltanto ad una di esse a scapito dell’altra”. Secondo la Corte, in quel procedimento “il Magistrato di Sorveglianza ha offerto una lettura parziale della normativa di riferimento, ha attribuito rilievo essenziale alle esigenze di contenimento della pericolosità qualificata del figlio del ricorrente, senza addentrarsi in una considerazione più ampia e di ordine sistematico delle disposizioni di legge diverse dall’art. 41 bis, ed egualmente applicabili al caso, ad esempio dell’art. 28 e delle finalità perseguite mediante l’istituto dei colloqui visivi quale strumento per la coltivazione della relazione genitoriale e, suo tramite, per l’espressione della personalità del detenuto. Non si è dunque prospettata la possibilità di una soluzione che contemperi nel caso specifico, al di fuori di qualunque generalizzazione e per ragioni umanitarie che tengano conto delle privazioni subite dal detenuto in via ininterrotta per quasi due decenni, le esigenze di ordine interno all’istituto e di ordine pubblico con il diritto soggettivo del detenuto ai colloqui mediante un sistema tecnico che garantisca la visione dell’immagine senza comportare spostamenti e contatti fisici diretti”. La Corte aveva cura di precisare che la praticabilità di tale soluzione avrebbe dovuto essere verificata in sede di merito, ma la affermava a livello di principio, riscontrando il vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente; evocava il ricorso alla videoconferenza, “ossia a forme di comunicazione controllabili a distanza e tali da impedire il compimento di comportamenti tra presenti, possibile fonte di pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica, in quanto correlati all’attività di organizzazioni criminose di stampo mafioso ancora attive ed operanti nelle aree geografiche di provenienza dei detenuti coinvolti.” Il magistrato di sorveglianza avrebbe dovuto condurre la verifica demandata, rapportandola ai principi esposti (Sez. 1, 16557/2019).

Corrispondenza

L’art. 41 -bis, comma 2-quater, lett. a) e c), nel testo novellato dalla L. 94/2009 (recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica"), consente all’Amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri, riviste e stampa in genere. Ciò in ragione della possibilità che libri e riviste costituiscano veicolo di comunicazioni illecite tra il detenuto e esponenti dell’organizzazione criminale di appartenenza che si trovino in libertà. Al medesimo fine, il DAP aveva adottato, il 6/11/2011, una prima circolare (identificata dal n. 8845/2011), recante un complesso di disposizioni in ordine all’ingresso, alla circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale, con cui era stato stabilito che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) potesse essere acquistata dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla direzione, con conseguente divieto di ricevere libri e riviste provenienti dall’esterno, e in particolare dai familiari, sia a mezzo posta sia tramite consegna in occasione dei colloqui, così come di trasmettere, all’esterno, tale materiale da parte del detenuto. Tali disposizioni erano state, successivamente, disapplicate con provvedimenti di alcuni magistrati di sorveglianza, secondo cui esse avrebbero leso i diritti di informazione e di studio dei detenuti, introducendo penalizzanti ostacoli all’acquisizione dei testi necessari per l’esercizio di tali diritti, incidendo, altresì, sulla libertà di corrispondenza, sancita dall’art. 15 Cost. I provvedimenti di disapplicazione della circolare ministeriale erano stati, tuttavia, annullati dalla Corte di cassazione, secondo cui l’Amministrazione penitenziaria aveva regolarmente esercitato il «potere regolamentare» per la concreta applicazione delle restrizioni stabilite dall’ordinamento penitenziario, senza rendere inutilmente più gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto (cfr. tra le altre, Sez. 1, 1774/2015). Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, la ricezione e lo scambio della stampa non avrebbero potuto essere ricondotti al concetto di «corrispondenza» in senso stretto (Sez. 1, 19204/2015), essendo quest’ultima limitata alle forme di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive e non comprensiva, pertanto, della ricezione dall’esterno, tramite servizio postale, di pubblicazioni - quali libri e riviste - che riportano il pensiero di terzi. E proprio per le limitazioni nella ricezione della stampa, dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis derivava la sottoposizione a una disciplina speciale, derogatoria di quella dettata dall’art. 18-ter, giustificata dal più elevato livello di pericolosità del detenuto (Sez. 1, 1774/2015). Va, peraltro, osservato che la stessa giurisprudenza di legittimità aveva anche osservato, condivisibilmente, come la mancata consegna, al detenuto in regime speciale, di pacchi postali contenenti libri o riviste provenienti dall’esterno non potesse assimilarsi al «trattenimento» della stampa di cui all’art. 18-ter, comma 5, demandato, da tale disposizione, all’AG. Ciò in quanto, diversamente dal trattenimento, la mancata consegna non sottraeva gli stampati alla disponibilità tanto del mittente quanto del destinatario, ma aveva il solo effetto di non consentire l’ingresso dei libri e delle riviste nell’istituto, ferma restando la facoltà del mittente di pretenderne in qualunque momento la restituzione; sicché, in definitiva, la mancata consegna configurava un semplice “respingimento” (Sez. 1, 50158/2014), analogo a quello che l’Amministrazione penitenziaria poteva disporre nei casi in cui un pacco postale o gli oggetti in esso contenuti non fossero conformi alla normativa di ordinamento penitenziario o alle prescrizioni del regolamento interno di istituto. 4.2. A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prima ricordato, che aveva riconosciuto la correttezza dell’azione amministrativa, il DAP aveva emanato, in data 11/2/2014, una nuova circolare, con la quale aveva ripristinato le disposizioni della circolare oggetto dei provvedimenti di disapplicazione. La relativa disciplina è stata, infine, ritenuta compatibile con i principi della Carta fondamentale da parte della Corte costituzionale, la quale, con sentenza 122/2017, ha ritenuto che le disposizioni in questione non violassero la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati e del diritto allo studio (artt. 33 e 34 Cost.), sottolineando come il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta non fosse limitato da tale disciplina, essendo agli stessi semplicemente imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, al fine di evitare che il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno. E parimenti infondata è stata ritenuta la censura di violazione della libertà di corrispondenza (art. 15 Cost.), non potendo la trasmissione di libri e riviste rientrare nella nozione di «corrispondenza» in quanto inidonei a fungere da veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario, posto che, in tal modo opinando, si sarebbe dovuto riconoscere alla persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare con l’esterno, senza alcuna restrizione quali-quantitativa - fin tanto che non intervenisse uno specifico provvedimento limitativo dell’AG - non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto (Sez. 1, 5211/2020).

È consolidato l’orientamento secondo il quale il divieto all’utilizzo di determinati strumenti di comunicazione (nella specie contatti di tipo informatico) non costituisce limitazione alla libertà di corrispondenza (Sez. 7, 18394/2019).

Ruolo dei garanti dei detenuti e colloqui dei detenuti con costoro

L’istituzione - ad opera del DL 146/2013, convertito in L. 10/2014 - del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (di seguito Garante nazionale) costituisce il momento finale di un processo nel corso del quale il nostro Paese si è fatto carico di recepire le ripetute sollecitazioni che, in ambito sovranazionale, hanno affermato la necessità di approntare efficaci strumenti di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale. Una sollecitazione che, storicamente, ha tratto alimento dalle esperienze virtuose, affermatesi nei paesi anglosassoni di common law e dell’area scandinava sul modello del cd. ombudsman, istituito in Svezia nel 1809 con il fine di controllare l’attività discrezionale della pubblica amministrazione. Lungo questa direttrice, sono state emanate - a livello europeo - la Raccomandazione R (1975) 757 dell’Assemblea Parlamentare, adottata il 29/1/1975, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa R (1985) 13, adottata il 23/9/1985, con cui gli Stati membri sono stati invitati a considerare l’opportunità di istituire un Ombudsman (o una figura similare), rimarcando la “necessità di una garanzia ulteriore, al contempo più semplice, più rapida e più agevole dei ricorsi giurisdizionali vigenti”. Successivamente, la “Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, adottata il 26/6/1987 e aperta alla firma il 26/11/1987, ha istituito il cd. Comitato per la prevenzione della tortura (CPT), composto da soggetti esperti, indipendenti e imparziali, nominati da ciascuno Stato contraente, che “esamina, per mezzo di sopralluoghi, il trattamento delle persone private della libertà allo scopo di rafforzare, se necessario, la loro protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti inumani o degradanti” (art. 1), al fine di proteggere, in via preventiva, le persone private della libertà dalla tortura o dall’esecuzione di pene o trattamenti inumani o degradanti. E anche le Regole penitenziarie europee del 1987 (adottate con Raccomandazione R 1987- 3 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 12/2/1987) hanno previsto, nella regola 4, che “Ispettori qualificati e dotati di esperienza, nominati da una autorità competente, devono procedere alla ispezione regolare degli istituti e servizi penitenziari. Il loro compito deve consistere in particolare nel sorvegliare se ed in quale misura questi istituti sono amministrati conformemente alle leggi ed ai regolamenti in vigore, agli obiettivi dei servizi penitenziari e alle norme contenute in queste regole”. Mentre le Regole del 2006, adottate in data 11/1/2006 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con Raccomandazione R (2006) 2, stabiliscono, alla regola 9, che le strutture penitenziarie devono essere oggetto di una “regolare ispezione governativa così come di un controllo da parte di un’autorità indipendente”. Ai fini che qui interessano, assume rilievo soprattutto il Protocollo opzionale della Convenzione ONU contro la tortura, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 9/1/2003 n. 57/199 ed entrato in vigore il 22/6/2006, la cui parte IV è dedicata ai meccanismi nazionali indipendenti di prevenzione (artt. 17-23). Tale Protocollo, che l’Italia ha firmato il 20/8/2003 e ha ratificato con la L. 195/2012 (con deposito dello strumento di ratifica il 3/4/2013), prevede, all’art. 1, “l’istituzione di un sistema di visite regolari svolte da organismi indipendenti nazionali e internazionali nei luoghi in cui le persone sono private della libertà, al fine di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”, nonché la costituzione di “meccanismi nazionali indipendenti di prevenzione della tortura a livello interno” (art. 17), cui saranno garantiti il potere di “sottoporre a regolare esame il trattamento di cui sono oggetto le persone private della libertà nei luoghi di detenzione” (art. 19, lett. a), nonché di “formulare raccomandazioni alle autorità competenti al fine di migliorare il trattamento e le condizioni in cui versano le persone private della libertà e di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” (art. 19, lett. b). Mentre la maggior parte degli Stati aderenti hanno deciso di attribuire i compiti indicati dal Protocollo ai Difensori civici già esistenti (è il caso, tra gli altri, di Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Portogallo, Spagna, Svezia), altri stati, tra cui l’Italia, hanno optato per la creazione di nuovi organismi. In questa prospettiva, sono stati istituiti Garanti regionali (Campania, Emilia Romagna, Friuli, Lazio, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Valle d’Aosta, Veneto), provinciali (Avellino, Enna, Ferrara, Gorizia, Lodi, Massa Carrara, Milano, Monza Brianza, Padova, Pavia, Trapani, Trento) e comunali (tra gli altri, Alessandria, Asti, Bergamo, Bologna, Bolzano, Brescia, Busto Arsizio, Enna, Ferrara, Firenze, Fossano, Ivrea, Lecco, Livorno, Lucca, Milano, Nuoro, Parma, Pescara, Piacenza, Pisa, Pistoia, Porto Azzurro, Prato, Reggio Calabria, Rimini, Roma, Rovigo, San Gimignano, San Severo, Sassari, Sondrio, Sulmona, Tempio Pausania, Torino, Trieste, Udine, Venezia, Verbania, Vercelli, Verona, Vicenza), che l’ordinamento penitenziario ha riconosciuto formalmente con il DL 207/2008, convertito con L. 14/2009, che ha modificato, tra l’altro, la formulazione degli artt. 18 e 67. La prima disposizione, infatti, come modificata dall’art. 12-bis, comma 1, lett. a) del citato decreto legge, ha previsto “il Garante dei diritti dei detenuti” tra coloro i quali “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui”. Mentre l’art. 67, che disciplina le visite in istituto, nell’individuare i soggetti istituzionali legittimati a visitare gli istituti penitenziari senza previa autorizzazione, vi colloca anche, alla lettera I -bis del comma 1, “i Garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati”, alludendo, con questa formula, proprio alle diverse figure istituite a livello regionale, provinciale, comunale. Il percorso di attuazione del processo di omologazione dell’ordinamento interno alle sollecitazioni degli istituzioni sovranazionali, ha segnato una tappa fondamentale con l’emanazione del DL 146/2013, convertito in L. 10/2014, al quale si deve l’introduzione della figura del Garante nazionale, competente non soltanto nei casi di persone detenute negli istituti penitenziari, ma anche di quanti si trovino in altre strutture quali gli «ospedali psichiatrici giudiziari, le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive, le comunità terapeutiche e di accoglienza o comunque le strutture pubbliche e private dove si trovano persone sottoposte a misure alternative o alla misura cautelare degli arresti domiciliari, gli istituti penali per minori e le comunità di accoglienza per minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria», nonché, ancora, i centri di identificazione e espulsione e le camere di sicurezza, in forza della nuova previsione dell’art. 67- bis. L’art. 7 del citato decreto indica analiticamente, al comma 5, le funzioni del Garante Nazionale: funzioni di vigilanza “affinché l’esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti”; funzioni di verifica circa “il rispetto degli adempimenti connessi ai diritti previsti agli artt. 20, 21, 22, e 23 del regolamento di cui al DPR 394/1999, e successive modificazioni, presso i centri di identificazione e di espulsione previsti dall’art. 14 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”; e, infine, funzioni di formulazione di specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata nel caso in cui siano state accertate violazioni di norme giuridiche ovvero la fondatezza delle istanze e dei reclami proposti ai sensi dell’art. 35. Ora, a fronte della minuziosa indicazione delle competenze funzionali dell’organismo di nuovo conio, la legge istitutiva non ha proceduto a una specificazione, altrettanto puntuale, degli strumenti di indagine e di intervento, i quali, dunque, devono essere ricostruiti attraverso il richiamo alle singole norme dell’ordinamento penitenziario, ovviamente interpretate sistematicamente. Uno dei principali strumenti di controllo è costituito, come già osservato, dalle visite in istituto. L’art. 67 stabilisce che “gli istituti penitenziari possono essere visitati senza autorizzazione” da una seri di soggetti istituzionali - dai magistrati di sorveglianza al direttore del DAP, dai ministri ai giudici costituzionali, dai parlamentari ai componenti del Consiglio superiore della magistratura gli ispettori generali et cetera - accanto ai quali sono indicati anche “i Garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati” (comma 1, lett. I -bis). Nessun dubbio, sul piano interpretativo, che in tale nozione rientrino, oltre al Garante nazionale, anche i Garanti locali, tale soluzione imponendosi alla luce della locuzione “comunque denominati”, la quale allude certamente alle diverse figure di Garante istituite a livello regionale, provinciale, comunale, con esclusione di quelli nominati da associazioni private, secondo quanto riconosciuto dalla circ. min. 7/11/2013, n. 3651/6101 [la quale ha precisato che “per Garante si intende un organo pubblico istituito con atto normativo” emanato “dallo Stato o da enti pubblici territoriali (comuni, province e regioni)”, con esclusione di “figure che, pur fregiandosi di analoga qualifica, promanino da associazioni o gruppi di natura privata]. Sotto questo profilo, la norma aveva, all’origine, un carattere di significativa novità, mirando a sottrarre i Garanti alla necessità di munirsi, al fine di accedere in istituto, della preventiva autorizzazione discrezionale dell’Amministrazione penitenziaria ai sensi dell’art. 17 oppure come assistenti volontari ex art. 78, secondo quanto avveniva in precedenza. Lo scopo delle visite in istituto è indicato all’art. 117 Reg., rubricato “Visite agli istituti”, secondo cui “le visite (...) sono rivolte particolarmente alla verifica delle condizioni di vita degli stessi, compresi quelli in isolamento giudiziario”. Al fine di consentire ai Garanti di svolgere la loro funzione di verifica delle condizioni di vita, il trattamento penitenziario e rieducativo, essi possono ovviamente compiere delle ricognizioni dello stato dei luoghi, accedendo alle strutture detentive e parlando con le persone recluse, ferme restando le limitazioni stabilite dal citato art. 117 Reg., secondo cui “non è consentito fare osservazioni sulla vita dell’istituto in presenza di detenuti o internati, o trattare con imputati argomenti relativi al processo penale in corso”. In proposito, con la circolare DAP 7/11/2013, n. 3651/6101 (intitolata “nuovo testo unico delle disposizioni dipartimentali in materia di visite agli istituti penitenziari ex art. 67"), è stato stabilito che i Garanti possono “interloquire” con i detenuti purché in lingua italiana (e, comunque, in lingua comprensibile al direttore o a un suo delegato presente); specificandosi che in occasione di tali interlocuzioni, le quali “non sostanziano i colloqui in senso tecnico previsti dall’art. 18” Ord. pen., i Garanti, così come le altre autorità individuate nell’art. 67, “possono rivolgere la parola ai detenuti e agli internati” allo scopo di verificare “le condizioni di vita del detenuto, la conformità del trattamento ad umanità, il rispetto della dignità della persona, senza alcun riferimento al processo o ai processi in corso”. Tuttavia - prosegue la circolare - “tali dialoghi non possono travalicare in veri e propri colloqui e/o interviste, specialmente se vedenti sui contenuti espressamente vietati dall’art. 117, comma 1, secondo periodo” Reg., cioè se concernono processi in corso e “osservazioni sulla vita in istituto”, dovendo il tal caso il direttore o il suo delegato richiamare i soggetti colloquianti ovvero interrompere il colloquio allontanando il detenuto. L’art. 18, come modificato dall’art. 12 -bis, comma 1, lett. a), DL 207/2008, convertito con L. 14/2009, aveva previsto “il Garante dei diritti dei detenuti” tra i soggetti con i quali “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui”. Locuzione, quella di “Garante”, nella quale rientravano tutte le tipologie di Garante “comunque denominate”, secondo la locuzione utilizzata dall’art. 67. Ciò per l’ovvia considerazione che, quando la norma fu emanata il Garante nazionale non era stato ancora istituito, sicché le figure alle quali essa si riferiva erano proprio quelle dei Garanti locali, istituiti da regioni, province o comuni. Successivamente, l’art. 11, comma 1, lett. g), n. 1, D. Lgs. 123/2018 ha soppresso il riferimento al “garante dei diritti dei detenuti” contenuto nel comma primo dell’art. 18 e ha stabilito, modificando con il n. 2 il comma secondo dell’art. 18, che “i detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, fermo quanto previsto dall’articolo 104 del codice di procedura penale, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena. Hanno altresì diritto di avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei diritti dei detenuti”. In questo modo, dunque, i Garanti, sia quello nazionale che quelli locali, hanno ricevuto una differente collocazione nell’ambito delle categorie di soggetti con i quali i detenuti possono effettuare colloqui: non più a fianco dei “congiunti” e delle “altre persone” e previa autorizzazione dell’organo a ciò deputato, bensì, ora, a fianco del difensore, con il riconoscimento di un vero e proprio “diritto al colloquio”. Colloqui che ricadono nella disciplina dettata dallo stesso art. 18, con le modalità contemplate dal comma terzo, secondo cui essi avvengono in “appositi locali” e “sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. Modalità che, quindi, garantiscono quella riservatezza che invece non caratterizza gli scambi verbali conseguenti alla visita ex art. 67. Nondimeno, non può non rilevarsi che il Garante, comunque denominato, è chiamato a assolvere a un ruolo istituzionale di controllo e, pertanto, di tutela, tanto è vero che il colloquio con il Garante può essere finalizzato a consentire al detenuto di presentare reclami orali ex art. 35, n. 3, oltre che di rappresentare, in tale sede, questioni attinenti alla vita carceraria in specie, quanto ai Garanti regionali, con riferimento alla tutela della salute, ormai di competenza del servizio sanitario regionale, quanto ai Garanti locali, su temi che possono concernere i contatti con il territorio (con organizzazioni di volontariato, con gli enti locali per prospettive lavorative ecc.). E ciò finisce necessariamente per riverberarsi sul relativo regime giuridico, quantomeno sotto due profili, tra i più problematici tra quelli che una disciplina frutto di disarmoniche stratificazioni ha finito per determinare. Sotto un primo aspetto, va osservato che l’art. 37 Reg. non disciplina specificamente il colloquio dei Garanti locali, di tal che era lecito dubitare, prima della recente modifica dell’art. 18, se esso dovesse essere sempre autorizzato (come stabilito per i familiari del detenuto) ovvero se esso potesse essere, come previsto per le “altre persone” diverse dai “congiunti”, soltanto ove ricorressero “ragionevoli motivi”. Attualmente, dopo la recente dell’art. 18 adopera del D. Lgs. 123/2018, il riconoscimento di un vero e proprio “diritto” al colloquio con il Garante, non consente di configurare alcuna possibilità di limitare l’accesso a tale figura, salva la eventuale ricorrenza di situazioni, del tutto eccezionali, che implichino esigenze di cautela processuale o di ordine e sicurezza interna. Sotto altro profilo, quanto alla computabilità dei colloqui nel numero massimo stabilito dall’art. 37 Reg., alla tesi affermativa che argomentasse, ancora una volta, dalla mancanza di qualunque deroga espressa per i Garanti, dovrebbe comunque opporsi che la sottoposizione dei colloqui svolti con questi ultimi al limite quantitativo stabilito dall’art. 37, comma 8, Reg., finirebbe per avere ripercussioni negative sui contatti con la famiglia, sostanzialmente riducendo gli spazi dell’offerta trattamentale, sia pure a beneficio di interventi volti a verificare le condizioni di vita del detenuto. Una soluzione, dunque, che sarebbe del tutto irragionevole, ponendo il detenuto di fronte alla alternativa di esercitare il suo diritto al mantenimento delle relazioni familiari ovvero di esercitare il diritto di accedere a una forma di tutela extragiudiziaria, la cui rilevanza è stata, come detto, affermata in più occasioni in sede sia interna che sovranazionale. Diverso dallo strumento del colloquio ai sensi dell’art. 18 è, invece, quello del colloquio “riservato”, il quale, diversamente dal primo, si svolge senza alcuna forma di controllo, né auditivo, né visivo, da parte del personale di polizia penitenziaria. Questa forma, particolarmente importante, di esercizio delle prerogative dell’organo è specificamente prevista soltanto con riferimento alla figura del Garante nazionale. Quest’ultima, infatti, è stata istituita con DL 146/2013, convertita L. 10/2014, che sul punto ha inteso dare attuazione al Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (cd. OPCAT), trattato internazionale contro la tortura adottato dalle Nazioni Unite il 18/12/2002, che l’Italia ha firmato in data 20/8/2003 e ratificato con la L. 195/2012 (con deposito strumento ratifica il 3/4/2013). L’OPCAT, entrato in vigore nel giugno 2006, ha da un lato istituito, a livello internazionale, un nuovo organismo, denominato “Sottocomitato delle Nazioni Unite sulla prevenzione della tortura” (SPT), e, dall’altro lato, ha previsto che gli Stati parte abbiano l’obbligo di creare o designare, entro un anno dalla ratifica del Protocollo, appositi organismi indipendenti, i c.d. Meccanismi nazionali di prevenzione (NPMs), aventi il compito di svolgere visite regolari nei luoghi di detenzione e di formulare raccomandazioni e osservazioni ai Governi e alle autorità competenti per migliorare la condizione delle persone detenute. In tale contesto, il Protocollo opzionale e la legge di ratifica ed esecuzione 195/2012, stabiliscono, all’art. 20, che allo scopo di mettere i meccanismi nazionali di prevenzione in condizione di espletare il loro mandato, l’obbligo per gli Stati Parti di garantire ad essi “la possibilità di avere colloqui riservati con le persone private della libertà, senza testimoni, direttamente o tramite un interprete se ritenuto necessario, nonché con qualunque altra persona che i meccanismi nazionali di prevenzione ritengano possa fornire informazioni rilevanti” (lett. d); possibilità che, dunque, deve essere riconosciuta al solo Garante nazionale, siccome individuato quale Meccanismo nazionale di prevenzione dal D.M. 11 marzo 2015, n. 36, recante il “Regolamento sulla struttura e composizione del Garante” (cfr. sul punto anche la Circolare DAP 18/5/2016, “Istituzione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: compiti e poteri"). Viceversa, i Garanti locali, comunque denominati, non hanno questa possibilità, che è agli stessi espressamente riconosciuta unicamente in relazione alla corrispondenza epistolare, secondo quanto previsto dall’art. 35 che consente l’invio, anche al “Garante nazionale e ai Garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti”, di istanze e reclami in busta chiusa, la quale dovrà riportare all’esterno la dicitura “riservata”. Occorre, in conclusione, verificare se e a quali condizioni la disciplina fin qui delineata trovi applicazione con riferimento ai detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis. In argomento, va osservato, in premessa, che secondo la giurisprudenza di legittimità, cui va data continuità, l’art. 41-bis attribuisce al Ministro della Giustizia il potere di sospendere “in tutto o in parte” l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti ed internati, in correlazione con una “pericolosità qualificata” degli stessi, senza che, tuttavia, tale norma demandi in toto alla competenza ministeriale i contenuti del trattamento applicabile ai detenuti portatori di una “pericolosità qualificata” e, soprattutto, senza che essa abbia dettato una regolamentazione “speciale” dell’istituto, che si sovrapponga totalmente a quella ordinaria. In questa prospettiva, questa Corte ha già sottolineato come il contenuto del “regime detentivo speciale” risulti regolato dalla legge con previsioni operanti su un doppio livello (Sez. 1, 49726/2013). Un primo livello, per così dire “generale”, caratterizzato dalla regola della proporzionalità, in virtù della quale sono ammesse solo restrizioni al regime ordinario che siano necessarie agli scopi di prevenzione cui la misura è finalizzata. Il secondo livello di regole, invece, indica i concreti contenuti del regime, costituiti oltre che dalle previsioni del decreto ministeriale, dalle specifiche disposizioni del regime differenziato, nonché dalle norme ordinamentali con queste ultime non assolutamente incompatibili. Ciò significa che in assenza di specifiche previsioni contenute nel decreto ministeriale, anche per il detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis, possono trovare applicazione le norme dell’ordinamento penitenziario non oggetto di sospensione; norme che, per quanto qui di interesse, concernono, in primo luogo, il diritto di accesso, visita dei Garanti, anche locali, e di “interlocuzione” con i detenuti e, a seguire, la materia dei colloqui. Con riferimento ai colloqui cd. “riservati”, l’unica figura legittimata al loro espletamento, in virtù della già richiamata disciplina dettata dall’art. 20 L. 195/2012, è il Garante nazionale (cfr. la Circolare sulla “Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis”, che all’art. 16.6 stabilisce che tale organo, in quanto “Organismo di monitoraggio indipendente” (NPM) secondo la convenzione di New York del 18/12/2002, “accede senza limitazione alcuna all’interno delle sezioni 41-bis incontrando detenuti ed internati e potendo svolgere con essi incontri riservati senza limiti di tempo"). Viceversa i colloqui ordinari, disciplinati dall’art. 18, possono essere effettuati, secondo la regola generale stabilita da tale disposizione, da tutte le diverse tipologie di Garante, da quello nazionale a quelli locali. Fermo restando che il Garante nazionale, avendo la facoltà di effettuare i colloqui riservati, non avrà bisogno, tendenzialmente, di eseguire i colloqui ordinari, i quali, come appresso si dirà, sottostanno, in particolare per i detenuti sottoposti al regime più restrittivo, a significative limitazioni. La circostanza che tutte le tipologie di Garanti, anche locali, possano effettuare i colloqui ex art. 18 deriva dal principio di diritto, già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “ulteriori limitazioni, al di là di quelle previste, non siano possibili, salvo che derivino da un’assoluta incompatibilità della norma ordinamentale - di volta in volta considerata - con i contenuti normativi tipici del regime differenziato”. Assoluta incompatibilità che non può nel caso di specie ravvisarsi, atteso che l’art. 41-bis non disciplina, espressamente, il colloquio con il Garante. Invero, la lettera b) del comma 2-quater dell’art. 41-bis stabilisce un regime di particolare rigore in materia di colloqui, sia sul piano della quantità degli stessi, che dei soggetti ammessi alla relativa fruizione, che delle modalità di svolgimento, dovendo essi avvenire “in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”, essere “videoregistrati” e sottoposti “a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente ai sensi del medesimo secondo comma dell’articolo 11”. Disposizioni, queste, che sono destinate ad applicarsi a ogni ipotesi di colloquio ai sensi dell’art. 18, ivi compreso quello del Garante locale, stante il carattere generale della relativa previsione e le connesse esigenze di documentazione dei contatti con il mondo esterno, che in quanto contenuta in una norma primaria non è certamente suscettibile di disapplicazione. Quanto, poi, alle ulteriori limitazioni, attinenti al numero e al regime autorizzatorio, una interpretazione sistematica della funzione del colloquio con il Garante non può non obliterarne gli elementi peculiari, che attengono al ruolo istituzionale del Garante, nazionale e locale, e alle esigenze di preservare alcuni tipi di legame con l’esterno, ancorché essenzialmente riconducibili all’ambito delle relazioni familiari. Sul punto, non sembra discutibile che il colloquio con il Garante debba essere necessariamente distinto, per la diversa funzione assolta, da quello con il familiare. E, tuttavia, esso non può nemmeno essere assoggettato, senza alcuna distinzione, al regime previsto per gli eccezionali colloqui con i terzi. In proposito, va osservato, innanzitutto, come il “divieto” di colloqui con persone diverse dai congiunti e conviventi non possa considerarsi un divieto in senso proprio, dal momento che la stessa lettera b) del comma 2-quater dell’art. 41-bis, dopo avere affermato, formalmente„ l’esistenza del divieto ("sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi"), in realtà stabilisce, subito dopo, la possibilità che, per gli imputati dopo la sentenza di condanna in primo grado, nonché per i condannati e gli internati, il direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, l’AG che procede, consentano, in “casi eccezionali determinati volta per volta”, lo svolgimento di tale tipo di colloquio. Dunque, mentre il colloquio con i familiari (rectius con i “congiunti e conviventi") non può essere tendenzialmente impedito, in quanto riconducibile all’ambito dei diritti fondamentali del detenuto (salva l’ovvia possibilità di limitazioni per specifiche persone in presenza di comprovate esigenze di sicurezza), il colloquio con i “terzi” è sostanzialmente rimesso all’apprezzamento discrezionale dell’organo competente, chiamato a vagliare la ragionevolezza dei motivi della richiesta di colloquio, peraltro in una cornice che ne sottolinea il carattere sostanzialmente episodico. Nondimeno, nel caso del Garante locale, l’eccezionalità dell’ingresso di soggetti diversi dai familiari deve essere reso compatibile con la possibilità, per quell’organo di controllo, di esercitare la sua attività istituzionale; e ciò senza detrimento per le esigenze connesse al mantenimento delle relazioni familiari. Ciò che, per un verso, significa che il colloquio con il Garante non potrà essere considerato alternativo a quello con i familiari e che in ogni caso, l’autorità competente all’autorizzazione, pur potendo negare il colloquio (atteso che la nuova disciplina dettata dall’art. 18, che pure riconosce il diritto del detenuto al colloquio con il Garante, non si applica ai detenuti sottoposti al regime ex art. 41-bis, non potendo le modifiche introdotte dal D.Lgs. 123/2018 innovare la disciplina dettata in materia di regime speciale secondo la chiara previsione dell’art. 1, comma 85 della legge delega 103/2017), potrà farlo soltanto in presenza di specifiche e comprovate ragioni, di cui dovrà dare compiutamente conto del provvedimento di eventuale rigetto della richiesta (Sez. 1, 11597/2019).

In tema di regime detentivo differenziato ai sensi dell’art. 41-bis, il colloquio del detenuto con il Garante, sia nazionale che locale, può essere negato dall’Amministrazione penitenziaria in presenza di specifiche e comprovate ragioni di cui dovrà essere dato compiutamente conto nel provvedimento di eventuale rigetto della richiesta, atteso che la nuova disciplina dettata dall’art. 18, comma 2, inserita dal D. Lgs. 123/2018, - che riconosce al detenuto il diritto a tale colloquio, precludendo all’Amministrazione penitenziaria di valutarne le ragioni di merito - non si applica a tale categoria di detenuti, ma si è fedelmente attenuta, nella decisione del caso sottoposto al proprio scrutinio, al principio di diritto enunciato con la sentenza di Sez. 1, 46169/2018, secondo cui i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis possono svolgere colloqui con il garante locale, a condizione che non sia diversamente previsto dal decreto di applicazione, e previa autorizzazione dell’amministrazione penitenziaria, che potrà negarla soltanto in presenza di specifiche e comprovate ragioni, di cui dovrà dare compiutamente conto nel provvedimento di eventuale rigetto della richiesta; colloqui che, in ogni caso, considerata la valenza generale dell’art. 18 e le peculiari esigenze tutelate dall’art. 41-bis, comma 2, lett. b), devono avvenire “in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”, essere “videoregistrati” e sottoposti “a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’AG competente ai sensi del medesimo secondo comma dell’articolo 11” (Sez. 5, 50212/2019).

La sola disposizione di legge cui far riferimento per quanto riguardo i colloqui con i garanti territoriali rimane quella dettata dal comma 1 dell’art. 18 (così formulato al momento della decisione: «I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, nonché con il garante dei diritti dei detenuti ...»), come sostituito dall’art. 12-bis, comma 1, lett. a), L. 14/2009. Tramite tale ultimo articolo è stata prevista inoltre l’aggiunzione della lett. 1-bis) nel comma 1 dell’art. 67, così includendosi i garanti dei diritti dei detenuti «comunque denominati» - e perciò anche quelli regionali - fra i soggetti ai quali compete la «visita agli istituti» disciplinata dallo stesso art. 67 citato. Per effetto della sostituzione dell’art. 35, intervenuta con l’art. 3, comma 1 lett. a) della L. 10/2014, tutti i garanti sopra menzionati rientrano fra i soggetti ai quali i detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa e quindi senza forme di controllo. Le possibilità di contatto e di interlocuzione con i garanti territoriali nelle diverse forme sopra indicate (visite, colloqui, reclami) pacificamente non sono in sé precluse dalla sottoposizione alla detenzione prevista dall’art. 41-bis. Le questioni poste con il ricorso riguardano l’ampiezza e le modalità della fruizione dei colloqui con i garanti territoriali (nella specie quello regionale) da parte dei detenuti sottoposti allo speciale regime appena sopra menzionato. I ragionamenti alla base delle conclusioni rassegnate a tal riguardo dai giudici di merito prendono le mosse da una lettura dell’art. 18 che dovrebbe portare a distinguere - quanto al regime applicabile - i colloqui con i garanti locali da tutti gli altri ammessi con i restanti soggetti, congiunti o meno. Da ciò discenderebbe che i garanti locali non potrebbero rientrare fra le persone diverse dai conviventi e dai congiunti i cui colloqui, ai sensi dell’art. 37 Reg., vanno autorizzati in presenza di ragionevoli motivi. L’assunto poggia su due argomenti destituiti di fondamento. Il primo, di carattere letterale, valorizza la comparsa nel 1 comma dell’art. 18 della congiunzione «nonché» prima del sostantivo «garante» e dopo essersi indicati i «congiunti» e le «altre persone». L’approccio però non considera che la citata formulazione di tale comma deriva da un’aggiunta, ossia quella di cui all’art. 12-bis, comma 1 lett. a), DL 14/2009, riguardante appunto l’espressa menzione dei garanti fra gli interlocutori nei colloqui di cui può beneficiare il detenuto. Di talché, le espressioni letterali rivelano solo il fine perseguito di includere i garanti fra le «altre persone» già considerate dalla specifica disciplina preesistente. Un’estensione la cui esplicita indicazione si è resa opportuna, trattandosi di soggetti che diversamente avrebbero potuto ritenersi sprovvisti di relazioni idonee a rappresentare ragioni di interlocuzione nella forma dei colloqui. Una questione non postasi per il Garante nazionale che neppure era stato istituito. L’approccio letterale sostenuto dal provvedimento impugnato appare ancor più privo di fondamento tenuto conto che lo stesso art. 18 citato, quando in seguito si occupa delle autorizzazioni, non opera distinzioni in relazione alle persone con le quali potere espletare i colloqui. Inoltre, nello stesso senso vanno considerate le previsioni dell’art. 37 Reg., dato che neppure in tal caso si è avvertita la necessità di procedere a precisazioni di carattere distintivo, essendo rimasta ancora dettata al comma 1, senza differenziazioni di sorta, la regola delle autorizzazioni e del riscontro dei ragionevoli motivi per i colloqui con le persone diverse dai congiunti o conviventi. Persone indistintamente considerate in modo da inferirsi l’inclusione fra le stesse pure dei garanti territoriali come sopra menzionati dal comma 1 dell’art. 18. Il secondo argomento finisce per conferire in sé alle esigenze di garanzia, poste alla base dei colloqui con il garante locale, un’attitudine a modificare il significato della norma che esse non possono avere. In proposito va, ad ogni modo, rilevato che a fronte dell’attribuzione al direttore del carcere di compiti autorizzativi, con conseguenti possibili interferenze su temi che potrebbero investire l’operato dell’amministrazione, rimane la garanzia che la decisione assunta nel caso di diniego deve essere assistita da spiegazioni suscettibili di piena verifica tramite rimedi giurisdizionali. Si richiede una ragionevolezza nelle valutazioni, secondo quanto previsto dall’art. 37 Reg., che in assenza di comprovati e gravi motivi dovrà portare all’ammissione, considerando il ruolo di garanzia dell’interlocutore. Tutto ciò tenendo sempre conto che lo strumento dei colloqui non esaurisce le possibilità di interlocuzione diretta del detenuto con i garanti «comunque denominati», potendo sempre operare il riservato strumento di contatto per iscritto, secondo quanto previsto dall’art. 35 nell’attuale formulazione. Le considerazioni appena svolte danno conto dell’infondatezza della tesi secondo cui i colloqui coi garanti dovrebbero distinguersi, alla stregua di quanto previsto in via generale dagli artt. 18 e 37 Reg., da quelli indicati dalle medesime disposizioni relative alle persone diverse dai congiunti e conviventi (categoria infatti comprendente anche i predetti garanti). Si tratta di un punto fermo che inevitabilmente rende prive di rilevanza le altre osservazioni svolte nel provvedimento impugnato che chiamano in causa l’assenza di specifiche previsioni per i garanti nelle disposizioni sui colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi dettate dall’art. 41-bis. Infatti, per quanto sopra rilevato, non vengono in evidenza distinzioni, in ragione del tipo di colloqui, previste da disposizioni generali (gli artt. 18 e 37 Reg.) e non espressamente superate da quelle speciali relative al regime di rigore. Deve, pertanto, concludersi che le previsioni di cui comma 2-quater lett. f) del citato art. 41-bis, aventi contenuto ulteriormente limitativo con riferimento alle condizioni di ammissione e alle modalità di espletamento dei colloqui visivi, debbono essere riferite anche a quelli aventi come interlocutori i garanti locali. Relativamente agli altri rilievi circa l’autorità chiamata a decidere sull’autorizzazione non possono che richiamarsi le osservazioni già espresse a proposito della disciplina dettata in via generale dall’art. 18. È vero che il comma 2-quater lett. f) del citato art. 41-bis indica il colloquio con i soggetti, quali i garanti locali, diversi dai congiunti o conviventi come uno strumento solo eccezionale, ma va ricordato che resta comunque aperta senza condizioni la strada della riservata comunicazione prevista dall’art. 35. Di talché, l’eccezionalità, quale condizione idonea a dare luogo all’ammissione al colloquio diretto, potrà rilevarsi anzitutto considerando proprio l’impossibilità di pervenire agli stessi risultati comunicativi adoperando il solo supporto scritto. La pienezza della tutela individuale rimane così assicurata attraverso la corretta integrazione dei due strumenti, secondo le diverse modalità consentite. In ordine alle critiche ulteriormente svolte, secondo cui il controllo auditivo e il vetro di separazione costituirebbero l’espressione di intollerabili sospetti sui garanti, va rilevato che si tratta di un approccio per nulla appropriato. Infatti, l’attenzione va piuttosto rivolta ai detenuti sottoposti allo speciale regime in ragione della pericolosità loro riconosciuta, che potrebbe portarli a strumentalizzare questo genere di opportunità di diretta interlocuzione anche per esercitare forme di coercizione volte ad attuare all’esterno finalità illecite. Una condizione di possibile esposizione dei garanti locali, chiamati ai colloqui con i detenuti sottoposti allo speciale regime, che non appare allo stesso modo configurabile nel caso in cui venga a interporsi lo scritto inviato secondo quanto previsto dall’art. 35. Il che si presta rappresentare le ragioni per cui solo in quest’ultima ipotesi non è contemplato alcun tipo di controllo preventivo (Sez. 1, 53006/2018).