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Art. 18-bis

Colloqui a fini investigativi

1. Il personale della Direzione investigativa antimafia di cui all’art. 3 del decreto-legge 29 ottobre 1991, n. 345, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 1991, n. 410, e dei servizi centrali e interprovinciali di cui all’art. 12 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, nonché gli ufficiali di polizia giudiziaria designati dai responsabili, a livello centrale, della predetta Direzione e dei predetti servizi, hanno facoltà di visitare gli istituti penitenziari e possono essere autorizzati, a norma del comma 2 del presente articolo, ad avere colloqui personali con detenuti e internati, al fine di acquisire informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata.

1-bis. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche ai responsabili di livello almeno provinciale degli uffici o reparti della Polizia di Stato o dell’Arma dei carabinieri competenti per lo svolgimento di indagini in materia di terrorismo, nonché agli ufficiali di polizia giudiziaria designati dai responsabili di livello centrale e, limitatamente agli aspetti connessi al finanziamento del terrorismo, a quelli del Corpo della guardia di finanza, designati dal responsabile di livello centrale, al fine di acquisire dai detenuti o dagli internati informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.

2. Al personale di polizia indicato nei commi 1 e 1-bis, l’autorizzazione ai colloqui è rilasciata:

a) quando si tratta di internati, di condannati o di imputati, dal Ministro di grazia e giustizia o da un suo delegato;

b) quando si tratta di persone sottoposte ad indagini, dal pubblico ministero.

3. Le autorizzazioni ai colloqui indicati nel comma 2 sono annotate in apposito registro riservato tenuto presso l’autorità competente al rilascio.

4. In casi di particolare urgenza, attestati con provvedimento del Ministro dell’interno o, per sua delega, dal Capo della Polizia, l’autorizzazione prevista nel comma 2, lettera a), non è richiesta, e del colloquio è data immediata comunicazione all’autorità ivi indicata, che provvede all’annotazione nel registro riservato di cui al comma 3.

5. La facoltà di procedere a colloqui personali con detenuti e internati è attribuita, senza necessità di autorizzazione, altresì al Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo ai fini dell’esercizio delle funzioni di impulso e di coordinamento previste dall’art. 371-bis, del codice di procedura penale; al medesimo Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo sono comunicati i provvedimenti di cui ai commi 2 e 4, qualora concernenti colloqui con persone sottoposte ad indagini, imputate o condannate per taluno dei delitti

indicati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale.

Rassegna di giurisprudenza

Nell’originaria configurazione del colloquio investigativo non era previsto l’obbligo di redigere verbale, assumendo tale strumento un contenuto funzionale allo sviluppo di servizi di polizia di sicurezza, destinati ad esaurire la loro funzione nell’ambito di quella specifica fase, senza incidenza ai fini processuali (in tal senso, Sez. 5, 873/1997). Sta di fatto tuttavia che, anche al di là di quanto disposto con circolare del Procuratore Nazionale Antimafia per ragioni di trasparenza, la eventuale scelta di redigere un verbale avrebbe potuto assumere concreta rilevanza, al fine di delineare il significato della verbalizzazione e dell’eventuale verbalizzazione infedele. Va infatti osservato che è atto pubblico quello redatto dal pubblico ufficiale, che, anche al di là delle forme di cui all’art. 2699 c.c., è comunque destinato ad attestare fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica (SU, 15983/2006). D’altro canto non è dubbio che la verbalizzazione in tal caso sia riconducibile ad una pubblica funzione e che proprio il fatto della verbalizzazione assuma la funzione di conferire al contenuto del colloquio investigativo un significato oggettivo, destinato ad assumere di per sé ontologica rilevanza sia pur per finalità proprie dell’atto, riconducibili, come detto, ai servizi amministrativi di polizia di sicurezza. Va comparativamente rilevato come la giurisprudenza di legittimità abbia specificamente attribuito rilievo alla non necessitata scelta della verbalizzazione, allorché la stessa sia riconducibile allo svolgimento di indagini difensive da parte del difensore: si è infatti rilevato che, allorché si raccolgano mediante escussione di soggetti informati sui fatti, elementi che vengano rappresentati in un verbale, l’atto contenente quella verbalizzazione è destinato ad oggettivarsi, condizionatamente alla sua concreta produzione, assumendo in quel caso il valore dell’esercizio di una pubblica funzione, con la conseguente configurabilità del delitto di falso ideologico in caso di verbalizzazione incompleta o infedele (SU, 32009/2006) (Sez. 6, 27725/2018).

L’ art. 4-bis, comma 1-bis, stabilisce che: «I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purchè siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonchè nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale». L’art. 58-ter, comma 1, stabilisce, altresì che, ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 4-bis, occorre tenere in considerazione pure coloro che: «anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». La giurisprudenza di legittimità ha, dal canto suo, stabilito che, ai fini del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di benefici penitenziari stabilite dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter e 2 della L. 203/1991, non sussiste un obbligo dell’autorità inquirente di sollecitare il condannato a collaborare con la giustizia e di indicare al medesimo i temi del suo possibile apporto informativo: non può, pertanto, configurarsi, in assenza di tali iniziative, un caso di impossibilità o irrilevanza della collaborazione (Sez. 5, 4773/2020).

Le dichiarazioni rese in dibattimento dal collaboratore di giustizia che abbia avuto contatti con altri collaboratori possono essere poste a fondamento di una sentenza di condanna solo all’esito di approfondita ed esaustiva motivazione che escluda ogni negativa incidenza degli incontri e dei colloqui sulla credibilità, autonomia ed affidabilità delle dichiarazioni medesime (Sez. 1, 28278/2019).