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Art. 30-ter

Permessi premio

1. Ai condannati che hanno tenuto regolare condotta ai sensi del successivo comma 8 e che non risultano socialmente pericolosi, il magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell’istituto, può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. La durata dei permessi non può superare complessivamente quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione.

[1-bis. Per i condannati per reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, di criminalità organizzata, nonché per il reato indicato nell’art. 630 del codice penale, devono essere acquisiti elementi tali da escludere la attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.] (1)

2. Per i condannati minori di età la durata dei permessi premio non può superare ogni volta i trenta giorni e la durata complessiva non può eccedere i cento giorni in ciascun anno di espiazione.

3. L’esperienza dei permessi premio è parte integrante del programma di trattamento e deve essere seguita dagli educatori e assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori sociali del territorio.

4. La concessione dei permessi è ammessa:

a) nei confronti dei condannati all’arresto o alla reclusione non superiore a quattro anni anche se congiunta all’arresto;

b) nei confronti dei condannati alla reclusione superiore a quattro anni, salvo quanto previsto dalla lettera c), dopo l’espiazione di almeno un quarto della pena;

c) nei confronti dei condannati alla reclusione per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, dopo l’espiazione di almeno metà della pena e, comunque, di non oltre dieci anni;

d) nei confronti dei condannati all’ergastolo, dopo l’espiazione di almeno dieci anni. (2) (3).

5. Nei confronti dei soggetti che durante l’espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, la concessione è ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto. (4)

6. Si applicano, ove del caso, le cautele previste per i permessi di cui al primo comma dell’art. 30; si applicano altresì le disposizioni di cui al terzo e al quarto comma dello stesso articolo.

7. Il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza, secondo le procedure di cui all’art. 30-bis. (5)

8. La condotta dei condannati si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, hanno manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali.

(1) Comma soppresso dal DL 152/1991, convertito con modificazioni nella L. 203/1991.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 227/1995, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma, nella parte in cui non prevede l’ammissione al permesso premio dei condannati alla reclusione militare.

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 450/1998, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 4, lettera c), nella parte in cui si riferisce ai minorenni.

(4) La Corte costituzionale, con sentenza 403/1997, ha dichiarato la illegittimità costituzionale di questo comma nella parte in cui si riferisce ai minorenni.

(5) La Corte costituzionale, con sentenza 113/2020, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 7, nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni.

Rassegna di giurisprudenza

Questioni di legittimità costituzionale

La Corte costituzionale, con la sentenza 253/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, anche in via consequenziale, dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, oltre che per i delitti diversi ivi contemplati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Oggetto della censura di incostituzionalità è la presunzione assoluta della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata che si fa discendere dalla mancata collaborazione. Alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., infatti, l’assenza di collaborazione non può risolversi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena come conseguenza della mancata partecipazione a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato. In questo modo l’art. 4-bis realizza una “deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare...”. Ed è parimenti contrario all’art. 27, comma 3, Cost. il fatto che la richiesta di permesso premio debba essere dichiarata inammissibile in limine, senza che il magistrato di sorveglianza possa operare una valutazione in concreto della condizione del detenuto, perché un siffatto meccanismo può arrestare sul nascere il percorso risocializzante. La Corte costituzionale ha così sottratto all’applicazione del meccanismo ostativo di cui all’art. 4-bis la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio di cui all’art. 30-ter (Sez. 1, 52139/2019).

Il ricorrente denuncia l’illegittimità costituzionale della norma che assegna un termine particolarmente breve, di ventiquattro ore, per la proposizione del reclamo contro i provvedimenti emessi in materia di permessi premio di cui all’art. 30-ter. Viene in gioco la disposizione di cui all’art. 30-ter, comma 7, secondo cui “il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto al reclamo al Tribunale di sorveglianza, secondo le procedure di cui all’art. 30-bis”, ove si prevede appunto, in riferimento diretto ai cd. permessi di necessità, che il provvedimento è comunicato senza formalità al pubblico ministero e all’interessato, “i quali, entro ventiquattro ore dalla comunicazione, possono proporre reclamo...”. In tal modo il ricorrente indica un vizio di violazione di legge del provvedimento impugnato che, facendo applicazione della norma della cui costituzionalità dubita, ha conculcato i suoi diritti di intervento difensivo. La questione, oltre che, come si dirà in seguito, non manifestamente infondata, è rilevante perché, ove la norma fosse dichiarata incostituzionale, si determinerebbe una situazione di indubbio vantaggio per il ricorrente, il cui reclamo dovrebbe essere esaminato nel merito invece che essere dichiarato, come è stato, inammissibile. Ancora in riferimento al profilo di rilevanza della questione si osserva che, in applicazione della norma della cui costituzionalità si dubita, il reclamo è stato correttamente dichiarato inammissibile. Il ricorrente ebbe comunicazione del provvedimento di diniego del permesso premio alle ore 8,16 del 13 novembre 2018 e presentò reclamo il giorno successivo, alle ore 8,44, pertanto oltre il termine di scadenza. Secondo quanto stabilito dall’art. 172 c.p.p., che esclude dal computo l’ora - nel caso di specie le ore 8,16 - in cui ha avuto inizio la decorrenza, il termine è andato a scadere alle ore 8,16 del giorno successivo. Il computo ad ore, sì come regolato dalla disposizione appena richiamata, non impone di considerare soltanto l’ora piena e di trascurare le sue frazioni, come invece sembra sostenere il ricorrente. Se la comunicazione del provvedimento è stata fatta alle ore 8,16, il computo del termine di ventiquattro ore non può ignorare la frazione aggiuntiva rispetto alle ore 8,00 e deve pertanto commisurare le ore successive, al fine di calcolare il decorso del termine di reclamo, muovendo da quel termine iniziale nella sua compiuta specificazione, sia dell’ora che dell’aggiuntiva frazione, ma senza tener conto, come già ricordato, dell’ora in cui ha avuto inizio la decorrenza. È quindi corretta l’affermazione che, nel caso in esame, occorre effettuare il computo dalle ore 9,16 del 13 novembre 2018; ma è proprio in tal modo che si apprezza che il termine di ventiquattro ore andò a scadere alle ore 8,16 del giorno successivo, contrariamente a quanto invece sostenuto nella menzionata requisitoria, ove invece si legge che, se l’ora di decorrenza è fissata alle ore 9,16 del 13 dicembre, allora il reclamo è da ritenersi tempestivo. Per questa ragione non è errata la decisione impugnata, che ha decretato l’inammissibilità del reclamo per tardiva proposizione. Il ricorrente, in particolare con il secondo motivo, ha lamentato che il TDS, ai fini del corretto computo del termine, avrebbe dovuto in concreto verificare se sarebbe stato possibile, in ragione dell’assetto organizzativo dell’Istituto di restrizione, presentarsi presso l’Ufficio matricola entro le ore 8,16 per la presentazione del reclamo. Ha poi dedotto che, nell’istituto ove è detenuto, le celle, per regolamento interno, vengono aperte non prima delle ore 9,00, in tal modo attestando che non avrebbe potuto in ogni caso essere tempestivo nella proposizione del reclamo. Si osserva a tal proposito che, a parte l’incongruità dell’ultimo rilievo a fronte del dato che il reclamo venne effettivamente proposto alle ore 8,44 e quindi prima dell’orario di apertura delle celle - e che dunque sembra smentire l’assunto di ricorso circa l’impossibilità di uscire dalle celle prima delle ore 9,00 -, l’accertamento di cui si lamenta la mancanza non avrebbe potuto sortire un utile effetto. Il termine di ventiquattro ore, infatti, seppur computato al netto dei possibili tempi morti conseguenti alla organizzazione interna dell’Istituto di detenzione, appare in ogni caso del tutto inadeguato a consentire un pieno ed efficace esercizio del diritto al reclamo. Per la stessa ragione la rilevanza della questione di legittimità costituzionale non viene meno sulla base della considerazione che il ricorrente avrebbe potuto richiedere, e ciò non ha fatto, la restituzione nel termine, adducendo proprio l’impossibilità di rispettare il ristretto termine di proposizione del reclamo in conseguenza di fatti e circostanze a lui non imputabili. La concessione di un nuovo termine, di pari durata e quindi spiccatamente breve, non avrebbe potuto comunque assicurare un pieno esercizio del diritto al reclamo perché l’eccessiva ristrettezza del tempo dato per il reclamo non viene meno neanche provando idealmente a sommare il termine in cui si potrebbe essere restituiti a quello iniziale. Emerge anzi, interrogandosi sui concreti effetti che la richiesta di restituzione nel termine avrebbe potuto avere nella vicenda in esame, un profilo ulteriore di irragionevolezza della disciplina. Per la proposizione della richiesta di restituzione è infatti dato un termine di dieci giorni a decorrere dalla cessazione del fatto costituente forza maggiore (o caso fortuito), di gran lunga più ampio di quello per il quale la richiesta, nella vicenda ora in esame, avrebbe potuto essere avanzata. La questione, come accennato, non è manifestamente infondata. La Corte costituzionale, già con la sentenza 235/1996, osservò che la previsione di un identico, e particolarmente breve, termine di reclamo in tema di permessi di necessità e di permessi premio non è ragionevole. Se, per un verso, i brevissimi termini di impugnazione possono essere giustificati in relazione ai permessi di necessità, per “i rigorosi presupposti cui la ... norma subordina la concessione” degli stessi, non altrettanto può dirsi, secondo l’impostazione data dalla Corte costituzionale, per i permessi premio che sono, a differenza dei primi, “parte integrante del trattamento e da cui possono discendere conseguenze dirette anche al fine dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione”. Nella giurisprudenza costituzionale, come è noto, si è più volte affermato che il permesso premio ha “natura di misura premiale di incentivo alla collaborazione del detenuto con l’istituzione carceraria, e di strumento esso stesso di rieducazione, in quanto consente un iniziale inserimento del condannato nella società” (sentenze 188/1990, 227 e 504/1995, 235/1996, 296/1997, 450/1998). Altre sono, invece, la natura e la funzione del permesso di necessità, misura eccezionale che risponde esclusivamente a finalità di umanizzazione della pena, consentendo al detenuto di stare vicino ai congiunti e di adoperarsi per loro in occasione di particolare avverse vicende della vita familiare (Sez. 1, 15953/2016). L’identità del termine per la proposizione del reclamo avverso i provvedimenti che attengono all’una e all’altra tipologia di permessi esalta esclusivamente un dato di natura meramente nominalistica, posto che il legislatore menziona entrambe le misure come permessi, che però restano segnati da una strutturale eterogeneità. L’irragionevolezza della previsione si risolve pertanto in una violazione dell’art. 3 Cost., perché la norma equipara, quanto al termine concesso per il reclamo, situazioni profondamente diverse. Essa, peraltro, si pone in violazione dell’art. 27 Cost., specificamente del principio rieducativo della pena, perché ostacola un effettivo e serio controllo sul provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza relativo ad “uno strumento cruciale ai fini del trattamento”, momento iniziale della progressività premiale in esplicazione di una importante funzione “pedagogico-propulsiva” che dà modo di saggiare, quale primo esperimento, “la risocializzazione in ambito extramurario. Altri sono ancora i parametri di costituzionalità rilevanti. È orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio costituisca un mezzo di impugnazione e quindi debba essere corredato, pena l’inammissibilità, da specifici motivi (Sez. 1, 15982/2014). Si è a tal proposito affermato che, compiuta la piena giurisdizionalizzazione dell’istituto - a seguito della pronuncia 53/1993 con cui la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità delle norme che non consentivano l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p. al procedimento di reclamo avverso il decreto di esclusione dal computo della detenzione del periodo trascorso in permesso premio -, l’obbligo di presentazione di motivi contestualmente al reclamo discende inevitabilmente dal carattere giurisdizionale, e non amministrativo, del procedimento in cui esso si innesta e delle decisioni che sono assunte in materia. Si è pure chiarito come non possa affermarsi l’esclusione dell’obbligo di presentazione dei motivi facendo leva sull’osservazione che il procedimento è modellato su quello relativo alle questioni di esecuzione, per la ragione che, mentre la domanda con cui si prospettano questioni relative all’esecuzione non ha natura di impugnazione, lo stesso non può essere detto per il reclamo avverso il provvedimento in materia di permesso premio, che all’evidenza ha natura di impugnazione, dando luogo ad un giudizio di controllo che non può che svolgersi sulla base di doglianze e censure specificamente prospettate. È appena ora il caso di evidenziare che, sotto la vigenza del precedente codice di rito, la disposizione su un termine così breve per la proposizione del reclamo aveva, in ragione di quel sistema di impugnazioni, una incidenza negativa meno rilevante sulla posizione del soggetto che intendeva dolersi del provvedimento. In quel sistema, come è noto, l’impugnazione si proponeva con dichiarazione, nella quale si dovevano indicare soltanto il provvedimento impugnato, la data del medesimo, il giudice che lo aveva emesso e il procedimento al quale si riferiva - art. 197 -; i termini di impugnazione, posti a pena di decadenza, erano calibrati sulla dichiarazione di impugnazione - art. 199 - , mentre i motivi di impugnazione, pur potendo essere enunciati nello stesso atto della dichiarazione, dovevano essere presentati per iscritto, a pena di decadenza, in un termine diverso e ampio di giorni venti a far data dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento - art. 201 -. È agevole rilevare che la previsione del termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo consentiva, in misura maggiore rispetto all’attuale, un utile esercizio del diritto al reclamo, coordinandosi con un modello di impugnazione incentrato sulla diversificazione, anche e soprattutto d’ordine temporale, tra dichiarazione e motivi di impugnazione. Il vigente codice di rito, non soltanto ha eliminato la distinzione tra dichiarazione e motivi, imponendo, a pena di inammissibilità, che entro l’unico termine di impugnazione siano proposti entrambi, ma da ultimo, in forza ella recente novella di cui alla L. 103/2017, ha aggravato gli oneri di specificità, che ora attengono oltre che all’articolazione dei motivi, alle richieste, anche istruttorie, alle indicazione delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione, all’indicazione dei capi o punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione - art. 581. Non può dunque essere condivisa la posizione reiteratamente espressa nella giurisprudenza di legittimità circa la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che ora si prospetta, in forza dell’assunto che il “tribunale adito deve comunque decidere, atteso il carattere giurisdizionale della procedura, nelle forme dell’udienza camerale nel cui ambito nulla impedisce il dispiegarsi di una difesa personale ovvero affidata ad un difensore di fiducia” (Sez. 1, 13395/2013) e che, siccome il procedimento “è regolato, per la particolarità della materia stessa, in modo da assicurare la massima speditezza con comunicazioni senza formalità e cadenze temporali ristrette”, allora un termine di reclamo così ristretto è giustificabile, anche alla luce della considerazione che “il carattere giurisdizionale della procedura non impone di per sè la pienezza del contraddittorio, conoscendo il sistema provvedimenti giurisdizionali emessi de plano” (Sez. 1, 244 /2000). Queste precedenti posizioni hanno trascurato dati di importanza centrale, e cioè che la semplificazione delle forme, per esigenze di speditezza, non può in ogni caso andare a detrimento del diritto delle parti di rappresentare compiutamente le proprie ragioni al giudice del controllo e che la possibilità di esplicarle nella fase del contraddittorio camerale è subordinata alla preliminare verifica di ammissibilità del reclamo. Se questo viene infatti dichiarato inammissibile per una affrettata articolazione dei motivi, le possibilità di recupero nel contraddittorio camerale restano del tutto vanificate. 6.5. Occorre poi considerare lo squilibrio che si realizza tra le opportunità di impugnazione riservate alla parte pubblica e al detenuto, rispetto al quale un termine di reclamo così ristretto comprime in misura irragionevolmente maggiore il diritto di difesa. Questi, per evitare il rischio di una pronuncia di inammissibilità, necessita dell’assistenza di un difensore, pur non imposta per legge, e però l’effettività dell’assistenza è fortemente compromessa dalla spiccata brevità del termine concesso per il reclamo. Da un lato il sistema consente all’interessato di richiedere l’intervento e l’assistenza della difesa tecnica, e dall’altro non pone le condizioni affinché questa facoltà possa pienamente esplicarsi. Per quanto sino ad ora argomentato il termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo si rivela incapace di assicurare alla parte, che intenda dolersi della decisione, di un tempo utile per articolare i rilievi critici da sottoporre al Tribunale di sorveglianza. La norma non si sottrae così ad un fondato dubbio di incostituzionalità per violazione degli artt. 24, compromettendo le concrete ed effettive possibilità di difesa, e 111 Cost., per eccentricità rispetto al modello di giusto processo costituzionale, che impone tra l’altro condizioni di parità tra le parti di fronte al giudice. Con la sentenza 235 /1996 la Corte costituzionale dichiarò inammissibile la questione - che ora si ripropone - soprattutto perché rilevò l’impossibilità di “rintracciare nell’ordinamento una conclusione costituzionalmente obbligata”, tale da consentire alla stessa Corte di porre rimedio alla brevità del termine “rideterminandolo essa stessa”; e per tale ragione auspicò un rapido intervento legislativo per la fissazione di un nuovo termine capace di contemperare “la tutela del diritto di difesa con le ragioni di speditezza della procedura”. Il monito della Corte costituzionale non ha avuto effetto e nel frattempo, però, il sistema di tutela si è evoluto con la piena giurisdizionalizzazione del reclamo avverso gli atti dell’Amministrazione penitenziaria asseritamente lesivi di diritti - art. 35-bis ord. pen. introdotto dal DL 146/2013, convertito con modifiche nella L. 10/2014 - e specificamente con la previsione di un termine di quindici giorni per la proposizione del reclamo contro la decisione del Magistrato di sorveglianza. La disposizione da ultimo citata può ora costituire un ben preciso punto di riferimento idoneo, nella prospettiva di una pronuncia additiva, ad evitare un vuoto di previsione colmabile soltanto attraverso un esercizio della discrezionalità legislativa (si veda, da ultimo, Corte costituzionale,  222/2018, secondo cui non è necessario “che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata”, potendo bastare che il sistema offra “precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” per consentire alla Corte costituzionale di porre rimedio al deficit di tutela. Le considerazioni esposte impongono di dichiarare rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis, comma 3, in relazione all’art. 30-ter, comma 7, nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio è pari a 24 ore (Sez. 1, 45976/2019).

Funzioni del permesso premio

Il permesso premio previsto dall’art. 30-ter ha una specifica funzione pedagogica, che lo differenzia dal permesso ordinario, essendo parte integrante del trattamento penitenziario, rispetto al quale assume una funzione decisiva, consentendo di valutare il percorso rieducativo del detenuto e la sua, eventuale, evoluzione positiva. Il permesso ordinario va distinto dal permesso premio che rappresenta un incentivo alla collaborazione del detenuto con l’istituzione carceraria in funzione del premio previsto nonché, al tempo stesso, uno strumento di rieducazione, consentendo un iniziale reinserimento del condannato in società (Sez. 1, 27149/2016). In questa cornice, i permessi premio risultano, al pari delle misure alternative alla detenzione, strumentali al reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno, costituendo parte essenziale del trattamento rieducativo e compromettendo, laddove mancanti, le stesse finalità costituzionali della pena detentiva affermate dall’art. 27, comma 3, Cost. I permessi premio, infatti, trovano fondamento nella realizzazione di una finalità immediata, costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, che li caratterizza come strumento di soddisfazione di esigenze contingenti e cronologicamente contenute, seppure non rientranti nella portata meno ampia del permesso di necessità. Al contempo, le connotazioni di contingenza che caratterizzano il permesso premio non consentono l’assimilazione integrale di tale beneficio penitenziario alle misure alternative alla detenzione, atteso che l’istituto in questione non modifica le condizioni restrittive del condannato, ma, più limitatamente, costituisce uno strumento propedeutico al suo, auspicabile, reinserimento sociale. La concessione dei permessi premio è legata a valutazioni ben diverse da quelle necessarie per la concessione delle misure alternative alla detenzione, che impongono di collocare le due tipologie di benefici penitenziari in ambiti sistematici contigui ma non sovrapponibili (Sez. 1, 57913/2018). Deve, tuttavia, rilevarsi che l’esistenza di un percorso rieducativo intrapreso positivamente dal condannato non è sufficiente a consentire di ritenerlo meritevole di usufruire del permesso premio, essendo indispensabile escludere la pericolosità sociale dell’istante, desumibile dalla sua personalità e dal suo vissuto criminale, su cui il magistrato di sorveglianza deve soffermarsi con una motivazione rispettosa delle emergenze processuali, che tenga contestualmente conto dei profili premiali e dei profili funzionali del beneficio penitenziario. Conclusivamente, ai fini della concessione del permesso premio previsto dall’art. 30-ter, il magistrato di sorveglianza deve verificare, oltre ai requisiti della regolare condotta del detenuto e dell’assenza di pericolosità sociale, che corrispondono alla funzione premiale dell’istituto, il profilo della funzionalità rispetto alla cura degli interessi affettivi, culturali e di lavoro del detenuto, acquisendo a tale ultimo riguardo le informazioni necessarie a valutare la coerenza del beneficio con il trattamento complessivo e con le sue finalità di risocializzazione (Sez. 1, 3765/2020).

Tenuto conto della natura sanzionatoria dell’isolamento diurno, la concessione dei permessi premio, non essendo espressamente prevista dall’art. 72 c.p. e dalle norme dell’ordinamento penitenziario che vi si collegano, introdurrebbe un’eccezione normativa applicata analogicamente, che, seppure concessa favor rei e come tale astrattamente giustificabile, risulterebbe incompatibile con le connotazioni di afflittività suppletiva dell’istituto; connotazioni di afflittività che, come detto, non si pongono in contrasto con le finalità di rieducazione della pena affermate dall’art. 27, comma 3, Cost. (Sez. 1, 3763/2020).

Requisiti per l’ottenimento del permesso premio

Il ravvedimento - senz'altro distinto e non ricavabile dalla mera collaborazione con la giustizia - è un presupposto che afferisce alla sfera intimistica del condannato, da collegarsi ad un concetto di riscatto morale del singolo nonché ad una valutazione globale della personalità del condannato stesso attraverso un giudizio che consideri ogni manifestazione di condotta idonea ad assumere valore sintomatico (Sez, 1, 31221/2020)

L'istituto del permesso premio si caratterizza per la portata più ampia che presenta rispetta al permesso di "necessità" e tende a una più duttile caratterizzazione dell'esecuzione della pena detentiva, attraverso la valorizzazione del suo significato premiale e del particolare tipo di esperienza che lo contraddistingue, che risultano parte integrante del programma di trattamento (art. 30- ter, comma 3), affiancandosi alla funzione premiale in senso proprio di altra valenza schiettamente special-preventiva (Corte. cost. 95/227 e 95/504), funzioni che tendono sinergicamente alla finalità rieducativa, cui l'istituto non risulta affatto estraneo considerando che, ai fini della concessione del permesso premio, il magistrato di sorveglianza deve verificare, oltre ai requisiti della regolare condotta del detenuto e dell'assenza di pericolosità sociale (che corrispondono alla funzione premiale dell'istituto), il profilo della funzionalità rispetto alla cura degli interessi affettivi, culturali e di lavoro del detenuto, acquisendo a tale ultimo riguardo le informazioni necessarie a valutare la coerenza del beneficio con il trattamento complessivo e con le sue finalità di risocializzazione (Nel caso di specie, la Corte, richiamando alcuni precedenti, ha chiarito che, con specifico riguardo al requisito dell'assenza di pericolosità sociale, tale verifica richiede maggiore rigore nei casi di soggetti condannati per reati di particolare gravità e con fine pena lontana nel tempo, in relazione ai quali rileva, in senso negativo, anche la mancanza di elementi indicativi di una rivisitazione critica del pregresso comportamento deviante) (Sez. 1, 31222/2020).

Ai fini della concessione del permesso premio, ai sensi dell’art. 30-ter, oltre al requisito della regolare condotta è necessaria l’assenza di pericolosità sociale del detenuto, da valutarsi con maggiore rigore nei casi di soggetti condannati per reati di particolare gravità e con fine pena lontana nel tempo, in relazione ai quali rileva, in senso negativo, anche la mancanza di elementi indicativi di una rivisitazione critica del pregresso comportamento deviante (Sez. 1, 5505/2017).

L’art. 30 ter comma 4,  che consente la concessione del permesso premio nei confronti dei condannati alla reclusione per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1 ter e 1 quater dell’art. 4 bis, dopo l’espiazione di almeno metà della pena e, comunque, di non oltre dieci anni, si riferisce, nonostante il rinvio all’intero art. 4 bis, ai soli reati elencati nel comma 1 ter di tale norma, dovendo trovare applicazione per le altre fattispecie la previsione del comma primo dello stesso art. 4 bis ord. pen. che pone l’alternativa tra il divieto di concessione dei benefici ovvero, nei casi di collaborazione con la giustizia nei termini indicati dall’art. 58 ter, la possibilità del loro riconoscimento secondo le regole ordinarie e senza l’osservanza dei predetti limiti di pena (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ricordato che, pur avendo il Tribunale premesso che il ricorrente ha prestato effettiva ed utile collaborazione, secondo quanto previsto dall’art. 58 ter, ha poi errato nell’affermare, dopo questa essenziale puntualizzazione, che la pretesa del ricorrente sia inammissibile non avendo questi espiato la quantità di pena inflitta corrispondente alla soglia che l’art. 30 ter pone come condizione per la concessione del permesso premio) (Sez. 1, 17667/2020).

L’art. 30-ter, comma 4, che consente la concessione del permesso premio «nei confronti dei condannati alla reclusione per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1- quater dell’art. 4-bis, dopo l’espiazione di almeno metà della pena e, comunque, di non oltre dieci anni», si riferisce, nonostante il rinvio all’intero art. 4-bis, ai soli reati elencati nel comma 1-ter di tale norma, dovendo trovare applicazione per le altre fattispecie la previsione del comma primo dello stesso art. 4-bis che pone l’alternativa tra il divieto di concessione dei benefici ovvero, nei casi di collaborazione con la giustizia nei termini indicati dall’art. 58-ter, la possibilità del loro riconoscimento secondo le regole ordinarie e senza l’osservanza dei predetti limiti di pena (Sez. 1, 37578/2016).

È necessario distinguere la determinazione della quota di pena espiata riferibile al delitto cd. ostativo, che costituisce il primo adempimento per la preliminare valutazione di ammissibilità della domanda, dalla individuazione del quantum di pena espiata ai fini della concedibilità del beneficio medesimo, secondo la disposizione dell’articolo 30-ter, comma 4, che fissa le soglie di pena e che, nel far ciò, non ha riferimento alle pene per i delitti di cui all’articolo 4-bis, comma 1, ord. pen, per le ragioni prima indicate. Rispetto ad una condanna per delitto di cui all’articolo 4-bis, comma 1, in assenza di collaborazione e fuori del caso di collaborazione impossibile o inesigibile, non v’è alternativa alla compiuta espiazione della pena per poter fruire del permesso premio, ovviamente sempre che l’esecuzione penale prosegua in forza di una condizione di cumulo di pene (Sez. 1, 5669/2019).

In base all’art. 30-ter, il permesso premio - concedibile al detenuto, di regola dopo l’espiazione di una quota-parte della pena inflitta, che abbia tenuto regolare condotta e non risulti socialmente pericoloso - costituisce parte integrante del programma di trattamento. In coerenza con tale impostazione, l’art. 65 Reg. stabilisce, al comma 1, che la relativa domanda, diretta al competente magistrato di sorveglianza, sia dall’istituto penitenziario corredata, tra l’altro, dagli esiti dell’osservazione scientifica della personalità e dal parere del direttore; ulteriori informazioni (comma 2) sono dal magistrato eventualmente acquisite, ad integrazione di quelle già disponibili, a mezzo degli organi di polizia. La decisione sull’istanza di permesso deve essere dunque assunta sulla base di tale compendio istruttorio, ad impulso officioso, e all’esito del suo completamento, entro un tempo ragionevole sul cui rispetto l’Autorità decidente è chiamata a vigilare. Durante tale tempo l’istanza è da considerare legittimamente pendente, e non è consentito alla suddetta autorità di adottare decisioni di non liquet, contraddittorie rispetto ai principi della giurisdizione e inutilmente pregiudizievoli (Sez. 1, 19366/2019).

Preclusioni ex art. 4-bis (si veda anche la rassegna di giurisprudenza sub art. 4-bis)

Il giudice di sorveglianza, al fine di verificare la concedibilità dei permessi premio ex art. 30-ter a detenuti per delitti ostativi cd. di prima fascia anche in difetto di collaborazione con la giustizia, allorché dagli elementi acquisiti possa escludersi sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che il pericolo di un loro ripristino, è tenuto a compiere un esame in concreto di elementi di fatto "individualizzanti" del percorso rieducativo del detenuto, dai quali si possa desumere - non già e non necessariamente - un'emenda intima, personale ed umana del proprio passato, bensì la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita (Sez. 5, 19536/2022).

In tema di concessione di benefici penitenziari, allo stato del diritto vigente, con riferimento specifico all’art. 4-bis, comma 1, per i delitti ivi elencati, indicati come ostativi di prima fascia, l’espiazione della relativa condanna non consente la concessione di una serie di benefici penitenziari, tra i quali è annoverato il permesso-premio: e tale condizione giuridica è superabile soltanto in presenza dei requisiti previsti dai commi 1 e 1-bis dell’art. 4-bis ossia, primariamente, l’avvenuta collaborazione con la giustizia, oppure, da un lato, l’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e, dall’altro, l’emersione dell’impossibilità o dell’irrilevanza della collaborazione con la giustizia per varie ragioni (limitata partecipazione al fatto criminoso od integrale accertamento dei fatti), anche in ragione di quanto previsto dall’art. 58-ter, al lume del quale l’avvenuta collaborazione elide le necessità del rispetto di determinate soglie di piena espiata (Sez. 1, 26073/2018).

Reclamo

A norma degli artt. 30-bis, comma 3, e 30-ter, comma 7, avverso la decisione la decisione del magistrato di sorveglianza in materia di permessi - correttamente assunta senza formalità di procedura - è ammesso reclamo al TDS, nel termine di ventiquattro ore dalla comunicazione del provvedimento; in sede di reclamo si segue il procedimento regolato dall’art. 666 del codice di rito ed è assicurato il contraddittorio camerale. Non è invece possibile, avverso l’iniziale decisione de plano, il ricorso diretto per cassazione, ammesso solo avverso l’ordinanza che definisce il giudizio di reclamo (Sez. 1, 1636/2020).

Il reclamo avverso il provvedimento di rigetto in materia di permessi ha natura di mezzo di impugnazione. Ne consegue che esso deve essere corredato da specifici motivi, rivolti a confutare le argomentazioni del provvedimento gravato, cioè correlati in chiave di confutazione colla ratio decidendi del provvedimento gravato, senza possibilità di ampliare o modificare la causa petendi (Sez. 1, 19640/2017).

Il normale regime di sospensione dei termini in periodo feriale non può trovare applicazione in relazione al termine stabilito per la proposizione del reclamo avverso la concessione o il diniego dei permessi richiesti dal detenuto, a norma dell’art. 30 (ossia per il caso di imminente pericolo di vita di un suo familiare o convivente, o per altro evento familiare di particolare gravità), ovvero a norma del successivo art. 30-ter (quale beneficio premiale, previsto in caso di regolare condotta del condannato e di assenza di pericolosità sociale); termine di reclamo che la legge penitenziaria, nei medesimi articoli, fissa in 24 ore, decorrenti - per il PM, per l’interessato e, se nominato, per il suo difensore - dalla comunicazione» della decisione soggetta a gravame. Tale negativa conclusione - non correlata dunque alla fenomenologia del procedimento di sorveglianza, che resta di per sé assoggettato alla disciplina della sospensione dei termini - si impone, per un verso, in ragione della peculiare fisionomia dell’istituto in esame (il permesso, accordato al detenuto, di allontanarsi temporaneamente dalla struttura penitenziaria), e del relativo mezzo d’impugnazione, nonché, sotto altro aspetto, in considerazione della speciale natura del relativo termine. Occorre allora considerare, con riferimento all’istituto del permesso riguardante soggetto detenuto, che il relativo procedimento è connotato da snellezza ed essenzialità. La valutazione è rimessa senz’altro ad organo monocratico, da individuarsi nel magistrato di sorveglianza (art. 30-ter, comma 1), ovvero, per l’imputato e in relazione al permesso di necessità, al giudice procedente, e, in caso di collegio, al solo suo presidente (artt. 11, comma 4, e 30, comma 1). La conseguente decisione è assunta senza formalità, sulla base di istruttoria officiosa, meramente eventuale in rapporto al permesso di necessità (art. 30-bis, comma 4) da compiersi celermente secondo le puntuali indicazioni di cui agli artt. 64 e 65 del regolamento di esecuzione. Sono previsti rimedi impugnatori, a disposizione tanto del PM che dell’interessato, da attivare entro il termine di 24 ore già menzionato - e da definire, secondo quanto dispone l’art. 30-bis, comma 4, entro il decimo giorno successivo (termine ora da coordinare con quelli più ampi, implicati dagli artt. 666 e 678 c.p.p., posto che il contraddittorio camerale deve essere assicurato anche in tale procedura (da ultimo, Sez. 1, 5186/2016). I benefici in parola rispondono a fondamentali esigenze, umanitarie o trattamentali, tutelate dagli artt. 2 e 27, comma 3, Cost., le quali ampiamente giustificano l’interesse del detenuto al rapido svolgimento dell’intera sequela procedimentale, inclusa l’eventuale fase di gravame. La facoltà d’impugnare, d’altra parte, strettamente condiziona, in caso di concessione della provvidenza, la fruizione effettiva di quest’ultima. A norma dell’art. 30-bis, comma 7, richiamato dal successivo art. 30-ter, comma 6, né il permesso premio né quello di necessità, benché deliberati, sono suscettibili di esecuzione in pendenza del termine concesso al pubblico ministero per avanzare reclamo, ovvero in pendenza del relativo giudizio (fa eccezione, ai sensi dell’ottavo comma dello stesso art. 30-bis, il permesso rilasciato per visitare il congiunto in imminente pericolo di vita, rendendosi comunque in tal caso obbligatoria la scorta della polizia penitenziaria). È chiaro, a questo punto, che il citato interesse del soggetto ristretto, costituzionalmente protetto, sarebbe irrimediabilmente frustrato se il termine delle 24 ore dovesse essere assoggettato a sospensione feriale (Sez. 1, 45736/2019).