x

x

Art. 30-bis

Provvedimenti e reclami in materia di permessi (1)

1. Prima di pronunciarsi sull’istanza di permesso, l’autorità competente deve assumere informazioni sulla sussistenza dei motivi addotti, a mezzo delle autorità di pubblica sicurezza, anche del luogo in cui l’istante chiede di recarsi. Nel caso di detenuti per uno dei delitti previsti dall’articolo 51, commi 3 -bis e 3 -quater, del codice di procedura penale, l’autorità competente, prima di pronunciarsi, chiede altresì il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 -bis , anche quello del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto. Salvo ricorrano esigenze di motivata eccezionale urgenza, il permesso non può essere concesso prima di ventiquattro ore dalla richiesta dei predetti pareri. (2)

2. La decisione sull’istanza è adottata con provvedimento motivato.

3. Il provvedimento è comunicato immediatamente, senza formalità, anche a mezzo del telegrafo o del telefono, al pubblico ministero e all’interessato, i quali, entro ventiquattro ore dalla comunicazione, possono proporre reclamo, se il provvedimento è stato emesso dal magistrato di sorveglianza, alla sezione di sorveglianza, o, se il provvedimento è stato emesso da altro organo giudiziario, alla corte di appello.

4. La sezione di sorveglianza o la corte di appello, assunte, se del caso, sommarie informazioni, provvede entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo dandone immediata comunicazione ai sensi del comma precedente.

5. Il magistrato di sorveglianza, o il presidente della corte d’appello, non fa parte del collegio che decide sul reclamo avverso il provvedimento da lui emesso.

6. Quando per effetto della disposizione contenuta nel precedente comma non è possibile comporre la sezione di sorveglianza con i magistrati di sorveglianza del distretto, si procede all’integrazione della sezione ai sensi dell’art. 68, terzo e quarto comma.

7. L’esecuzione del permesso è sospesa sino alla scadenza del termine stabilito dal terzo comma e durante il procedimento previsto dal quarto comma, sino alla scadenza del termine ivi previsto.

8. Le disposizioni del comma precedente non si applicano ai permessi concessi ai sensi del primo comma dell’art. 30. In tale caso è obbligatoria la scorta.

9. Il procuratore generale presso la corte d’appello è informato dei permessi concessi e del relativo esito con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati e, nel caso, di permessi concessi a detenuti per delitti previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater , del codice di procedura penale o a detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis , ne dà comunicazione, rispettivamente, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. (3)

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 53/1993, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, nella parte in cui non consente l’applicazione degli artt. 666 e 678 del codice di procedura penale, nel procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso premio.

(2) I quattro periodi successivi al primo di questo comma sono stati introdotti dall'art. 2, comma, 1 lettera a), n. 1, del DL 28/2020.

(3) Questo comma è stato integralmente sostituito dall'art. 2, comma 1, lettera a), n. 2, del DL 28/2020.

Rassegna di giurisprudenza

Questioni di legittimità costituzionale

Il ricorrente denuncia l’illegittimità costituzionale della norma che assegna un termine particolarmente breve, di ventiquattro ore, per la proposizione del reclamo contro i provvedimenti emessi in materia di permessi premio di cui all’art. 30-ter. Viene in gioco la disposizione di cui all’art. 30-ter, comma 7, secondo cui “il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto al reclamo al Tribunale di sorveglianza, secondo le procedure di cui all’art. 30-bis”, ove si prevede appunto, in riferimento diretto ai cd. permessi di necessità, che il provvedimento è comunicato senza formalità al pubblico ministero e all’interessato, “i quali, entro ventiquattro ore dalla comunicazione, possono proporre reclamo...”. In tal modo il ricorrente indica un vizio di violazione di legge del provvedimento impugnato che, facendo applicazione della norma della cui costituzionalità dubita, ha conculcato i suoi diritti di intervento difensivo. La questione, oltre che, come si dirà in seguito, non manifestamente infondata, è rilevante perché, ove la norma fosse dichiarata incostituzionale, si determinerebbe una situazione di indubbio vantaggio per il ricorrente, il cui reclamo dovrebbe essere esaminato nel merito invece che essere dichiarato, come è stato, inammissibile. Ancora in riferimento al profilo di rilevanza della questione si osserva che, in applicazione della norma della cui costituzionalità si dubita, il reclamo è stato correttamente dichiarato inammissibile. Il ricorrente ebbe comunicazione del provvedimento di diniego del permesso premio alle ore 8,16 del 13 novembre 2018 e presentò reclamo il giorno successivo, alle ore 8,44, pertanto oltre il termine di scadenza. Secondo quanto stabilito dall’art. 172 c.p.p., che esclude dal computo l’ora - nel caso di specie le ore 8,16 - in cui ha avuto inizio la decorrenza, il termine è andato a scadere alle ore 8,16 del giorno successivo. Il computo ad ore, sì come regolato dalla disposizione appena richiamata, non impone di considerare soltanto l’ora piena e di trascurare le sue frazioni, come invece sembra sostenere il ricorrente. Se la comunicazione del provvedimento è stata fatta alle ore 8,16, il computo del termine di ventiquattro ore non può ignorare la frazione aggiuntiva rispetto alle ore 8,00 e deve pertanto commisurare le ore successive, al fine di calcolare il decorso del termine di reclamo, muovendo da quel termine iniziale nella sua compiuta specificazione, sia dell’ora che dell’aggiuntiva frazione, ma senza tener conto, come già ricordato, dell’ora in cui ha avuto inizio la decorrenza. È quindi corretta l’affermazione che, nel caso in esame, occorre effettuare il computo dalle ore 9,16 del 13 novembre 2018; ma è proprio in tal modo che si apprezza che il termine di ventiquattro ore andò a scadere alle ore 8,16 del giorno successivo, contrariamente a quanto invece sostenuto nella menzionata requisitoria, ove invece si legge che, se l’ora di decorrenza è fissata alle ore 9,16 del 13 dicembre, allora il reclamo è da ritenersi tempestivo. Per questa ragione non è errata la decisione impugnata, che ha decretato l’inammissibilità del reclamo per tardiva proposizione. Il ricorrente, in particolare con il secondo motivo, ha lamentato che il TDS, ai fini del corretto computo del termine, avrebbe dovuto in concreto verificare se sarebbe stato possibile, in ragione dell’assetto organizzativo dell’Istituto di restrizione, presentarsi presso l’Ufficio matricola entro le ore 8,16 per la presentazione del reclamo. Ha poi dedotto che, nell’istituto ove è detenuto, le celle, per regolamento interno, vengono aperte non prima delle ore 9,00, in tal modo attestando che non avrebbe potuto in ogni caso essere tempestivo nella proposizione del reclamo. Si osserva a tal proposito che, a parte l’incongruità dell’ultimo rilievo a fronte del dato che il reclamo venne effettivamente proposto alle ore 8,44 e quindi prima dell’orario di apertura delle celle - e che dunque sembra smentire l’assunto di ricorso circa l’impossibilità di uscire dalle celle prima delle ore 9,00 -, l’accertamento di cui si lamenta la mancanza non avrebbe potuto sortire un utile effetto. Il termine di ventiquattro ore, infatti, seppur computato al netto dei possibili tempi morti conseguenti alla organizzazione interna dell’Istituto di detenzione, appare in ogni caso del tutto inadeguato a consentire un pieno ed efficace esercizio del diritto al reclamo. Per la stessa ragione la rilevanza della questione di legittimità costituzionale non viene meno sulla base della considerazione che il ricorrente avrebbe potuto richiedere, e ciò non ha fatto, la restituzione nel termine, adducendo proprio l’impossibilità di rispettare il ristretto termine di proposizione del reclamo in conseguenza di fatti e circostanze a lui non imputabili. La concessione di un nuovo termine, di pari durata e quindi spiccatamente breve, non avrebbe potuto comunque assicurare un pieno esercizio del diritto al reclamo perché l’eccessiva ristrettezza del tempo dato per il reclamo non viene meno neanche provando idealmente a sommare il termine in cui si potrebbe essere restituiti a quello iniziale. Emerge anzi, interrogandosi sui concreti effetti che la richiesta di restituzione nel termine avrebbe potuto avere nella vicenda in esame, un profilo ulteriore di irragionevolezza della disciplina. Per la proposizione della richiesta di restituzione è infatti dato un termine di dieci giorni a decorrere dalla cessazione del fatto costituente forza maggiore (o caso fortuito), di gran lunga più ampio di quello per il quale la richiesta, nella vicenda ora in esame, avrebbe potuto essere avanzata. La questione, come accennato, non è manifestamente infondata. La Corte costituzionale, già con la sentenza 235/1996, osservò che la previsione di un identico, e particolarmente breve, termine di reclamo in tema di permessi di necessità e di permessi premio non è ragionevole. Se, per un verso, i brevissimi termini di impugnazione possono essere giustificati in relazione ai permessi di necessità, per “i rigorosi presupposti cui la ... norma subordina la concessione” degli stessi, non altrettanto può dirsi, secondo l’impostazione data dalla Corte costituzionale, per i permessi premio che sono, a differenza dei primi, “parte integrante del trattamento e da cui possono discendere conseguenze dirette anche al fine dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione”. Nella giurisprudenza costituzionale, come è noto, si è più volte affermato che il permesso premio ha “natura di misura premiale di incentivo alla collaborazione del detenuto con l’istituzione carceraria, e di strumento esso stesso di rieducazione, in quanto consente un iniziale inserimento del condannato nella società” (sentenze 188/1990, 227 e 504/1995, 235/1996, 296/1997, 450/1998). Altre sono, invece, la natura e la funzione del permesso di necessità, misura eccezionale che risponde esclusivamente a finalità di umanizzazione della pena, consentendo al detenuto di stare vicino ai congiunti e di adoperarsi per loro in occasione di particolare avverse vicende della vita familiare (Sez. 1, 15953/2016). L’identità del termine per la proposizione del reclamo avverso i provvedimenti che attengono all’una e all’altra tipologia di permessi esalta esclusivamente un dato di natura meramente nominalistica, posto che il legislatore menziona entrambe le misure come permessi, che però restano segnati da una strutturale eterogeneità. L’irragionevolezza della previsione si risolve pertanto in una violazione dell’art. 3 Cost., perché la norma equipara, quanto al termine concesso per il reclamo, situazioni profondamente diverse. Essa, peraltro, si pone in violazione dell’art. 27 Cost., specificamente del principio rieducativo della pena, perché ostacola un effettivo e serio controllo sul provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza relativo ad “uno strumento cruciale ai fini del trattamento”, momento iniziale della progressività premiale in esplicazione di una importante funzione “pedagogico-propulsiva” che dà modo di saggiare, quale primo esperimento, “la risocializzazione in ambito extramurario. Altri sono ancora i parametri di costituzionalità rilevanti. È orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio costituisca un mezzo di impugnazione e quindi debba essere corredato, pena l’inammissibilità, da specifici motivi (Sez. 1, 15982/2014). Si è a tal proposito affermato che, compiuta la piena giurisdizionalizzazione dell’istituto - a seguito della pronuncia 53/1993 con cui la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità delle norme che non consentivano l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p. al procedimento di reclamo avverso il decreto di esclusione dal computo della detenzione del periodo trascorso in permesso premio -, l’obbligo di presentazione di motivi contestualmente al reclamo discende inevitabilmente dal carattere giurisdizionale, e non amministrativo, del procedimento in cui esso si innesta e delle decisioni che sono assunte in materia. Si è pure chiarito come non possa affermarsi l’esclusione dell’obbligo di presentazione dei motivi facendo leva sull’osservazione che il procedimento è modellato su quello relativo alle questioni di esecuzione, per la ragione che, mentre la domanda con cui si prospettano questioni relative all’esecuzione non ha natura di impugnazione, lo stesso non può essere detto per il reclamo avverso il provvedimento in materia di permesso premio, che all’evidenza ha natura di impugnazione, dando luogo ad un giudizio di controllo che non può che svolgersi sulla base di doglianze e censure specificamente prospettate. È appena ora il caso di evidenziare che, sotto la vigenza del precedente codice di rito, la disposizione su un termine così breve per la proposizione del reclamo aveva, in ragione di quel sistema di impugnazioni, una incidenza negativa meno rilevante sulla posizione del soggetto che intendeva dolersi del provvedimento. In quel sistema, come è noto, l’impugnazione si proponeva con dichiarazione, nella quale si dovevano indicare soltanto il provvedimento impugnato, la data del medesimo, il giudice che lo aveva emesso e il procedimento al quale si riferiva - art. 197 -; i termini di impugnazione, posti a pena di decadenza, erano calibrati sulla dichiarazione di impugnazione - art. 199 - , mentre i motivi di impugnazione, pur potendo essere enunciati nello stesso atto della dichiarazione, dovevano essere presentati per iscritto, a pena di decadenza, in un termine diverso e ampio di giorni venti a far data dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento - art. 201 -. È agevole rilevare che la previsione del termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo consentiva, in misura maggiore rispetto all’attuale, un utile esercizio del diritto al reclamo, coordinandosi con un modello di impugnazione incentrato sulla diversificazione, anche e soprattutto d’ordine temporale, tra dichiarazione e motivi di impugnazione. Il vigente codice di rito, non soltanto ha eliminato la distinzione tra dichiarazione e motivi, imponendo, a pena di inammissibilità, che entro l’unico termine di impugnazione siano proposti entrambi, ma da ultimo, in forza ella recente novella di cui alla L. 103/2017, ha aggravato gli oneri di specificità, che ora attengono oltre che all’articolazione dei motivi, alle richieste, anche istruttorie, alle indicazione delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione, all’indicazione dei capi o punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione - art. 581. Non può dunque essere condivisa la posizione reiteratamente espressa nella giurisprudenza di legittimità circa la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che ora si prospetta, in forza dell’assunto che il “tribunale adito deve comunque decidere, atteso il carattere giurisdizionale della procedura, nelle forme dell’udienza camerale nel cui ambito nulla impedisce il dispiegarsi di una difesa personale ovvero affidata ad un difensore di fiducia” (Sez. 1, 13395/2013) e che, siccome il procedimento “è regolato, per la particolarità della materia stessa, in modo da assicurare la massima speditezza con comunicazioni senza formalità e cadenze temporali ristrette”, allora un termine di reclamo così ristretto è giustificabile, anche alla luce della considerazione che “il carattere giurisdizionale della procedura non impone di per sè la pienezza del contraddittorio, conoscendo il sistema provvedimenti giurisdizionali emessi de plano” (Sez. 1, 244 /2000). Queste precedenti posizioni hanno trascurato dati di importanza centrale, e cioè che la semplificazione delle forme, per esigenze di speditezza, non può in ogni caso andare a detrimento del diritto delle parti di rappresentare compiutamente le proprie ragioni al giudice del controllo e che la possibilità di esplicarle nella fase del contraddittorio camerale è subordinata alla preliminare verifica di ammissibilità del reclamo. Se questo viene infatti dichiarato inammissibile per una affrettata articolazione dei motivi, le possibilità di recupero nel contraddittorio camerale restano del tutto vanificate. 6.5. Occorre poi considerare lo squilibrio che si realizza tra le opportunità di impugnazione riservate alla parte pubblica e al detenuto, rispetto al quale un termine di reclamo così ristretto comprime in misura irragionevolmente maggiore il diritto di difesa. Questi, per evitare il rischio di una pronuncia di inammissibilità, necessita dell’assistenza di un difensore, pur non imposta per legge, e però l’effettività dell’assistenza è fortemente compromessa dalla spiccata brevità del termine concesso per il reclamo. Da un lato il sistema consente all’interessato di richiedere l’intervento e l’assistenza della difesa tecnica, e dall’altro non pone le condizioni affinché questa facoltà possa pienamente esplicarsi. Per quanto sino ad ora argomentato il termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo si rivela incapace di assicurare alla parte, che intenda dolersi della decisione, di un tempo utile per articolare i rilievi critici da sottoporre al Tribunale di sorveglianza. La norma non si sottrae così ad un fondato dubbio di incostituzionalità per violazione degli artt. 24, compromettendo le concrete ed effettive possibilità di difesa, e 111 Cost., per eccentricità rispetto al modello di giusto processo costituzionale, che impone tra l’altro condizioni di parità tra le parti di fronte al giudice. Con la sentenza 235 /1996 la Corte costituzionale dichiarò inammissibile la questione - che ora si ripropone - soprattutto perché rilevò l’impossibilità di “rintracciare nell’ordinamento una conclusione costituzionalmente obbligata”, tale da consentire alla stessa Corte di porre rimedio alla brevità del termine “rideterminandolo essa stessa”; e per tale ragione auspicò un rapido intervento legislativo per la fissazione di un nuovo termine capace di contemperare “la tutela del diritto di difesa con le ragioni di speditezza della procedura”. Il monito della Corte costituzionale non ha avuto effetto e nel frattempo, però, il sistema di tutela si è evoluto con la piena giurisdizionalizzazione del reclamo avverso gli atti dell’Amministrazione penitenziaria asseritamente lesivi di diritti - art. 35-bis ord. pen. introdotto dal DL 146/2013, convertito con modifiche nella L. 10/2014 - e specificamente con la previsione di un termine di quindici giorni per la proposizione del reclamo contro la decisione del Magistrato di sorveglianza. La disposizione da ultimo citata può ora costituire un ben preciso punto di riferimento idoneo, nella prospettiva di una pronuncia additiva, ad evitare un vuoto di previsione colmabile soltanto attraverso un esercizio della discrezionalità legislativa (si veda, da ultimo, Corte costituzionale,  222/2018, secondo cui non è necessario “che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata”, potendo bastare che il sistema offra “precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” per consentire alla Corte costituzionale di porre rimedio al deficit di tutela. Le considerazioni esposte impongono di dichiarare rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis, comma 3, in relazione all’art. 30-ter, comma 7, nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio è pari a 24 ore (Sez. 1, 45976/2019).

Natura e requisiti del reclamo

Nella materia relativa ai permessi premio, ai sensi dell’art. 30-ter, è ammessa impugnazione in sede giurisdizionale, con reclamo al magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 30-bis, e, quindi, con ricorso per cassazione, per tutti i motivi previsti dall’art. 606 c.p.p. (SU, 27 giugno 2006).

Il reclamo avverso il provvedimento di rigetto in materia di permessi ha natura di mezzo di impugnazione. Ne consegue che esso deve essere corredato da specifici motivi, rivolti a confutare le argomentazioni del provvedimento gravato, cioè correlati in chiave di confutazione colla ratio decidendi del provvedimento gravato, senza possibilità di ampliare o modificare la causa petendi (Sez. 1, 19640/2017).

Il reclamo previsto in materia di permessi ha natura di mezzo di impugnazione e, come tale, ad esso è applicabile il principio di cui dall’art. 597 c.p.p., ossia l’effetto devolutivo per il quale il giudizio di impugnazione è circoscritto dalla stessa attività auto-limitatrice delle parti ai soli punti della decisione gravata che siano stati oggetto di rituale specifica doglianza. Così che, le determinazioni del primo giudice per ciò che riguarda i punti della decisione che non siano stati oggetto di specifico reclamo non sono suscettibili di modificazione (Sez. 1, 43766/2015).

Impugnazione della decisione

A norma degli artt. 30-bis, comma 3, e 30-ter, comma 7, avverso la decisione la decisione del magistrato di sorveglianza in materia di permessi - correttamente assunta senza formalità di procedura - è ammesso reclamo al TDS, nel termine di ventiquattro ore dalla comunicazione del provvedimento; in sede di reclamo si segue il procedimento regolato dall’art. 666 del codice di rito ed è assicurato il contraddittorio camerale. Non è invece possibile, avverso l’iniziale decisione de plano, il ricorso diretto per cassazione, ammesso solo avverso l’ordinanza che definisce il giudizio di reclamo (Sez. 1, 1636/2020).

Ulteriori profili

Il normale regime di sospensione dei termini in periodo feriale non può trovare applicazione in relazione al termine stabilito per la proposizione del reclamo avverso la concessione o il diniego dei permessi richiesti dal detenuto, a norma dell’art. 30 (ossia per il caso di imminente pericolo di vita di un suo familiare o convivente, o per altro evento familiare di particolare gravità), ovvero a norma del successivo art. 30-ter (quale beneficio premiale, previsto in caso di regolare condotta del condannato e di assenza di pericolosità sociale); termine di reclamo che la legge penitenziaria, nei medesimi articoli, fissa in 24 ore, decorrenti - per il PM, per l’interessato e, se nominato, per il suo difensore - dalla comunicazione» della decisione soggetta a gravame. Tale negativa conclusione - non correlata dunque alla fenomenologia del procedimento di sorveglianza, che resta di per sé assoggettato alla disciplina della sospensione dei termini - si impone, per un verso, in ragione della peculiare fisionomia dell’istituto in esame (il permesso, accordato al detenuto, di allontanarsi temporaneamente dalla struttura penitenziaria), e del relativo mezzo d’impugnazione, nonché, sotto altro aspetto, in considerazione della speciale natura del relativo termine. Occorre allora considerare, con riferimento all’istituto del permesso riguardante soggetto detenuto, che il relativo procedimento è connotato da snellezza ed essenzialità. La valutazione è rimessa senz’altro ad organo monocratico, da individuarsi nel magistrato di sorveglianza (art. 30-ter, comma 1), ovvero, per l’imputato e in relazione al permesso di necessità, al giudice procedente, e, in caso di collegio, al solo suo presidente (artt. 11, comma 4, e 30, comma 1). La conseguente decisione è assunta senza formalità, sulla base di istruttoria officiosa, meramente eventuale in rapporto al permesso di necessità (art. 30-bis, comma 4) da compiersi celermente secondo le puntuali indicazioni di cui agli artt. 64 e 65 del regolamento di esecuzione. Sono previsti rimedi impugnatori, a disposizione tanto del PM che dell’interessato, da attivare entro il termine di 24 ore già menzionato - e da definire, secondo quanto dispone l’art. 30-bis, comma 4, entro il decimo giorno successivo (termine ora da coordinare con quelli più ampi, implicati dagli artt. 666 e 678 c.p.p., posto che il contraddittorio camerale deve essere assicurato anche in tale procedura (da ultimo, Sez. 1, 5186/2016). I benefici in parola rispondono a fondamentali esigenze, umanitarie o trattamentali, tutelate dagli artt. 2 e 27, comma 3, Cost., le quali ampiamente giustificano l’interesse del detenuto al rapido svolgimento dell’intera sequela procedimentale, inclusa l’eventuale fase di gravame. La facoltà d’impugnare, d’altra parte, strettamente condiziona, in caso di concessione della provvidenza, la fruizione effettiva di quest’ultima. A norma dell’art. 30-bis, comma 7, richiamato dal successivo art. 30-ter, comma 6, né il permesso premio né quello di necessità, benché deliberati, sono suscettibili di esecuzione in pendenza del termine concesso al pubblico ministero per avanzare reclamo, ovvero in pendenza del relativo giudizio (fa eccezione, ai sensi dell’ottavo comma dello stesso art. 30-bis, il permesso rilasciato per visitare il congiunto in imminente pericolo di vita, rendendosi comunque in tal caso obbligatoria la scorta della polizia penitenziaria). È chiaro, a questo punto, che il citato interesse del soggetto ristretto, costituzionalmente protetto, sarebbe irrimediabilmente frustrato se il termine delle 24 ore dovesse essere assoggettato a sospensione feriale (Sez. 1, 45736/2019).