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Art. 47

Affidamento in prova al servizio sociale (4)

1. Se la pena detentiva inflitta non supera tre anni, il condannato può essere affidato al servizio sociale fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare. (1) (2)

2. Il provvedimento è adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, se il soggetto è recluso, e mediante l’intervento dell’ufficio di esecuzione penale esterna, se l’istanza è proposta da soggetto in libertà, nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento stesso, anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. (5)

3. L’affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto senza procedere all’osservazione in istituto quando il condannato, dopo la commissione del reato, ha serbato comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2.

3-bis. L’affidamento in prova può, altresì, essere concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2.

4. L’istanza di affidamento in prova al servizio sociale è proposta, dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo dell’esecuzione. Quando sussiste un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, l’istanza può essere proposta al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di detenzione. Il magistrato di sorveglianza, quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga, dispone la liberazione del condannato e l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova con ordinanza. L’ordinanza conserva efficacia fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il magistrato trasmette immediatamente gli atti, che decide entro sessanta giorni.

5. All’atto dell’affidamento è redatto verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed al lavoro.

6. Con lo stesso provvedimento può essere disposto che durante tutto o parte del periodo di affidamento in prova il condannato non soggiorni in uno o più comuni, o soggiorni in un comune determinato; in particolare sono stabilite prescrizioni che impediscano al soggetto di svolgere attività o di avere rapporti personali che possono portare al compimento di altri reati.

7. Nel verbale deve anche stabilirsi che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato ed adempia puntualmente agli obblighi di assistenza familiare.

8. Nel corso dell’affidamento le prescrizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza. Le deroghe temporanee alle prescrizioni sono autorizzate, nei casi di urgenza, dal direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna, che ne dà immediata comunicazione al magistrato di sorveglianza e ne riferisce nella relazione di cui al comma 10.

9. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita.

10. Il servizio sociale riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto. (3)

11. L’affidamento è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova.

12. L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue. Il tribunale di sorveglianza, qualora l’interessato si trovi in disagiate condizioni economiche, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa. (6)

12-bis. All’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova nel periodo di affidamento di un suo concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità, può essere concessa la detrazione di pena di cui all’articolo 54. Si applicano gli articoli 69, comma 8, e 69-bis nonché l’articolo 54, comma 3.

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 386/1989, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non prevede che nel computo delle pene, ai fini della determinazione del limite dei tre anni, non si debba tener conto anche della pena espiata.

(2) Comma interpretato autenticamente dall’art. 14-bis, DL 306/1992, nel senso che la disposizione ivi contenuta nella parte in cui indica i limiti che la pena inflitta non deve superare perché il condannato possa beneficiare dell’affidamento in prova al servizio sociale, va interpretata nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive.

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 343/1987, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui - in caso di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova - non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova.

(4) La Corte Costituzionale, con sentenza 78/2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, ove interpretato nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da esso previste.

(5) Comma così modificato dall’art. 7, comma 1, lett. a), D.Lgs. 123/2018.

(6) Comma così modificato dall’art. 1, comma 7, L. 3/2019.

Rassegna di giurisprudenza

Principi generali

Le misure alternative alla detenzione non presuppongono una completa emenda e una totale esclusione della pericolosità che, invece, costituiscono l’obiettivo del processo di rieducazione, ma postulano, più limitatamente, l’esistenza di elementi positivi dai quali si possa desumere l’attivazione del percorso rieducativo e una ragionevole prognosi di reinserimento sociale del condannato (la Corte ha verificato che tali elementi, sulla base dei riferimenti contenuti nello stesso provvedimento impugnato, fossero sussistenti e avvalorati, oltre che dalla lontananza nel tempo dei pregiudizi, dalla relazione di sintesi che esprimeva un giudizio positivo sul percorso trattamentale intrapreso dal condannato durante l’esecuzione della pena) (Sez. 1, 4655/2022).

Rispetto alle istanze tese all’ottenimento di benefici penitenziari, non vi è alcun obbligo di introdurre domande distinte, ferma restando la necessità di indicare in modo chiaro il petitum (Sez. 1, 43323/2021).

Gli aggravamenti di disciplina, in punto di accesso alle misure alternative alla detenzione, resi via via più stringenti da leggi che si sono succedute nel tempo, nonché estesi ad un numero crescente di fattispecie di reato, integrano un assetto punitivo peggiorativo, che impegna le garanzie di cui all’art. 25, comma 2, Cost., in quanto, a seconda dei casi, tale assetto preclude in modo assoluto, ovvero rende significativamente meno probabile, o più lontana nel tempo, la concessione delle misure stesse. Tanto basta per riconoscere alla disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), DL 11/2009, convertito dalla L. 38/2009 un effetto di trasformazione, in parte qua, della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto di reato suindicato con conseguente inapplicabilità della disposizione stessa, ai sensi della norma costituzionale citata, alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa, che ne ha indirettamente modificato in senso restrittivo l’ambito applicativo (Sez. 1, 12845/2020).

L’accertamento della collaborazione deve essere esteso a tutti i delitti che siano finalisticamente collegati a quelli ostativi, in quanto l'unicità del reato continuato postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e del suo concreto ravvedimento in relazione ai fatti oggetto del processo (la Corte, sulla scorta di quanto evidenziato nel provvedimento emesso dal tribunale di sorveglianza - dal quale emergeva che il detenuto era stato condannato per il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell'art. 7, DL 152/1991 e, dunque, per un reato ostativo alla concessione delle misure alternative richieste - considerato che non era stata accertata l'avvenuta collaborazione con la giustizia e non era stata dedotta la sua impossibilità o inesigibilità, ha statuito che tale situazione processuale permaneva certamente anche in relazione alla nuova domanda di affidamento, non potendo accogliersi la conclusione difensiva secondo la quale la pena inflitta per il reato ostativo sarebbe stata integralmente espiata) (Sez. 1, 35350/2021).

Regime normativo applicabile

Il condannato che propone istanza di misura alternativa al carcere ha il diritto di ottenere la valutazione della domanda nel merito secondo il regime vigente al momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione della pena, giacché questo segna l’inizio della fattispecie complessa integrante il rapporto esecutivo, fissando, quindi, lo statuto normativo applicabile (La Corte ha annullato l’ordinanza di inammissibilità della istanza emessa dal presidente del tribunale di sorveglianza, tradendo le premesse indicate nello stesso decreto nelle quali aveva espresso adesione ai molteplici interventi della Corte costituzionale, trascurando di verificare l’epoca di commissione dei fatti di concussione per i quali era in corso l’esecuzione, ed affermando l’ostatività del titolo di reato alla concessione dell’invocata misura alternativa, senza considerare l’intervenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 1, comma 6, lettera b), della Legge 9 gennaio 2019, n. 3) (Sez. 1, 29010/2021).

La custodia cautelare in carcere non preclude l'ammissione alle misure alternative alla detenzione

Lo stato di custodia cautelare in carcere per causa diversa da quella relativa al titolo in esecuzione non è di per sé preclusivo della valutazione nel merito e, qualora ne ricorrano i presupposti, dell'ammissione a una misura alternativa alla detenzione, incidendo la detenzione solo sulla pratica possibilità di esecuzione della misura, che va postergata alla cessazione della misura custodiale (Sez. 1, 2562/2022).

Competenza per territorio

La competenza per territorio del magistrato o del tribunale di sorveglianza, una volta radicatasi con riferimento alla situazione esistente “all’atto della richiesta” (secondo la testuale indicazione dell’art. 677 c.p.p.) di una misura alternativa alla detenzione, rimane insensibile agli eventuali mutamenti che tale situazione può subire in virtù di successivi provvedimenti: e, ciò, anche nelle ipotesi in cui subentri, dopo la presentazione della richiesta iniziale, la rimessione in libertà del soggetto. Tale principio non muta, naturalmente, anche nell’ipotesi in cui, essendo libero il condannato, sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione, con evenienza, ex art. 656 c.p.p., della competenza del TDS del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha promosso la sospensione (Sez. 1, 53177/2014). L’esito di questo rilievo non muta, per gli effetti che la notazione determina in questa sede, per il fatto che, dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso a una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte a incidere sulla medesima misura o comunque siano alla stessa connesse o collegate, giacché anche in tal caso la competenza resta ferma, in virtù del richiamato principio della perpetuatio iurisdictionis, che esige di annettere rilevanza al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 4098/2020).

La competenza in materia di concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova, in ipotesi di condannato per il quale è stata disposta sospensione dell’esecuzione, appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha promosso la sospensione e, in applicazione del principio della perpetuatio jurisdictionis, resta insensibile agli eventuali mutamenti che tale situazione può subire in virtù di altri successivi provvedimenti (Sez. 1, 21967/2020).

La competenza di tipo funzionale del magistrato di sorveglianza si appunta in capo all’organo che ha giurisdizione sull’istituto in cui il detenuto “si trova”. Si deve, tuttavia, chiarire che, ai sensi dell’art. 677, detto luogo e il relativo riferimento normativo si legano alla località in cui il detenuto è assegnato in via definitiva, salvo che costui non sia ancora destinatario di provvedimento siffatto, caso in cui di converso, indubbiamente avrebbe facoltà di adire e rivolgersi al magistrato di sorveglianza del luogo stesso. Per i casi, tuttavia, in cui il detenuto sia in transito e risulti solo temporaneamente ristretto, la competenza in generale resta attribuita al magistrato del locus custodiae definitivo e non sussistono le condizioni per provvedimenti legati a criterio di competenza itinerante nel senso che per il semplice accesso - anche di poche ore - all’istituto di pena si realizza una modifica della competenza dal magistrato di sorveglianza del luogo di assegnazione e detenzione definitiva a quella del magistrato di sorveglianza del luogo di transito (Sez. 7, 35405/2018).

Ricordato che, in caso di concorso di residenza anagrafica e di domicilio di fatto in Italia, la competenza territoriale va, comunque, radicata in base al criterio della residenza anagrafica, operando il criterio del domicilio solo in via residuale, va chiarito che, ai fini di cui all’art. 677, comma 2, la nozione di domicilio deve essere definita, ai sensi dell’art. 43 Cod. civ., come il luogo dove il soggetto ha il centro dei propri interessi, e tale non può, all’evidenza, essere considerato il luogo dove, solo ai fini del procedimento relativo alla istanza presentata, l’interessato ha eletto domicilio presso il quale ricevere comunicazioni e notificazioni del procedimento stesso. Siffatta nozione di domicilio si lascia preferire sia per ragioni di coerenza sistematica sia perché capace di assicurare la necessaria oggettività del criterio attributivo della competenza per territorio (funzionale al rispetto del principio costituzionale del giudice naturale), mentre il rilievo, a detti fini, dell’atto di elezione renderebbe la determinazione del giudice competente dipendente da una libera ed insindacabile scelta del soggetto che propone l’istanza (Sez. 1, 31346/2018).

In tema di procedimento di sorveglianza, qualora dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso ad una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte ad incidere sulla medesima misura o comunque siano ad essa connesse o collegate, rimane ferma, in virtù del principio della “perpetuatio iurisdictionis”, la competenza per territorio del tribunale di sorveglianza radicatasi con riferimento alla situazione esistente al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 51083/2013).

Il ricorrente, al momento di presentazione dell’istanza ex art. 35-ter Ord. pen., era detenuto; ed era detenuto anche al momento della decisione del magistrato di Sorveglianza così come era detenuto al momento di proposizione del reclamo al tribunale di Sorveglianza. Nelle more del procedimento di impugnazione è stato scarcerato per termine della pena. Questa circostanza ha indotto il tribunale di sorveglianza a ritenere inammissibile il reclamo poiché la richiesta iniziale di riduzione della pena era stata trasformata in richiesta di liquidazione del ristoro economico previsto dalla norma citata: ha ritenuto il giudice che fosse stato irritualmente trasformato il petitum e che la competenza a provvedere fosse ormai del tribunale civile. Tuttavia, questa Corte ha più volte espresso il principio secondo il quale presupposto necessario per radicare la competenza della magistratura di sorveglianza è lo stato di restrizione del richiedente al momento della proposizione del reclamo ex art. 35-ter Ord. pen., a nulla rilevando l’eventuale scarcerazione nelle more della decisione, trattandosi di competenza di natura funzionale (Sez. 1, 41211/2018).

La richiesta di misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 656, comma 6, deve essere corredata, a pena di inammissibilità, anche se presentata dal difensore, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio effettuata dal condannato non detenuto. Né l’inosservanza delle formalità di cui all’art. 677, comma 2-bis, può essere superata dalla mera indicazione di residenza, che, non comportando l’inequivocabile volontà di riconoscere il proprio domicilio con la residenza dichiarata, non risulta rispettosa dei parametri di cui all’art. 677, comma 2-bis (SU, 18775/2010).

In relazione alla peculiare finalità dell'affidamento in prova, per formulare il giudizio prognostico favorevole, condizione per l'ammissione al beneficio richiesto, la natura e la gravità dei reati per i quali è stata irrogata la pena in espiazione deve costituire, unitamente ai precedenti, alle pendenze e alle informazioni di P.S., il punto di partenza dell'analisi della personalità del soggetto. A tal fine, è richiesto un contatto diretto fra il servizio sociale e la persona del sottoposto, sia prima dell'applicazione del beneficio per consentire la raccolta delle informazioni indispensabili, sia nel corso della sua esecuzione, atteso che soltanto in presenza di detta condizione può essere valutato il comportamento e, segnatamente, l'osservanza delle prescrizioni concernenti i rapporti con il servizio sociale, la dimora, la libertà di locomozione, il divieto di certe frequentazioni, il lavoro da svolgere tanto che l'irreperibilità del condannato al momento della decisione sulla sua richiesta di misura alternativa alla detenzione può, dunque, essere considerata circostanza atta a precludere l’accoglimento dell'istanza, nella misura in cui si riveli, in concreto, sintomatica di disinteresse per la procedura e impedisca in modo assoluto la verifica della sussistenza dei presupposti per la concessione del beneficio invocato (Sez. 1, 23236/2021).

L’esistenza di un domicilio eletto, pur consentendo la regolare notifica degli atti, non comporta necessariamente l’effettiva reperibilità del domiciliato. Questa è, invece, indispensabile ai fini dell’applicazione della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, poiché l’istituto postula un contatto diretto fra la persona fisica dell’interessato e il servizio sociale (precisa la Corte che l’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 677 co. 2 bis c.p.p. non possiede una valenza esclusivamente formale, ma si collega alla necessità di una verifica sulla condizione anagrafica del condannato non detenuto, che non può essere meramente cartolare, essendo funzionale alla valutazione dell’idoneità del percorso trattamentale imposta dalla stessa norma) (Sez. 1, 21573/2020).

La competenza in materia di concessione di misure alternative alla detenzione, in ipotesi di condannato per il quale è stata disposta la sospensione dell’esecuzione, appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha decretato la sospensione, a norma dell’art. 656, commi 5 e 6, norme che debbono ritenersi speciali e prevalenti rispetto al disposto dell’art. 677, comma 2 (Sez. 1, 2182/2018).

Nell’escludere l’applicabilità delle regole derogatorie di competenza, stabilite dall’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, alla liberazione anticipata - pur formalmente rientrante tra le misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI Ord. pen. - richiesta dal detenuto collaboratore di giustizia, assoggettato a speciali misure di protezione, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 43798/2015) ha da ultimo sottolineato la natura di stretta interpretazione delle regole derogatorie anzidette, correlata al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 comma 2 Cost.). Nelle materie attribuite alla magistratura di sorveglianza, la competenza a conoscere delle istanze presentate da soggetto ristretto in istituto penitenziario appartiene in via ordinaria al tribunale o al magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto medesimo (art. 677, comma 1). La deroga che a tale disposizione apporta, per i collaboratori di giustizia assoggettati a speciali misure di protezione, il citato art. 16-nonies - il quale riserva, al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui il collaboratore stesso ha eletto domicilio ai sensi dell’art. 12, comma 3-bis, del decreto legge (ossia del luogo sede della Commissione centrale prevista dal precedente art. 10, comma 2, che è Roma), la cognizione in tema «di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, L. 354/1975, e successive modificazioni» - trova la sua ratio giustificativa nell’esigenza funzionale di assicurare uno stretto coordinamento tra l’operato della magistratura di sorveglianza, che decide sulla concessione delle misure alternative, prevista in misura più ampia rispetto alle generalità dei detenuti, e quello degli organi amministrativi centrali preposti all’attuazione delle misure predette nei confronti del collaboratore protetto (Sez. 1, 45282/2013) e capaci altresì di recare un preventivo contributo ai fini di una più pregnante valutazione sull’attualità e sulla serietà del percorso seguito dal collaboratore (Sez. 1, 43798/2015), che costituisce il presupposto per il più ampio accesso ai benefici (la riassunzione si deve a Sez. 1, 8131/2018).

I provvedimenti in materia di rinvio dell’esecuzione della pena non sono testualmente compresi nell’ambito dell’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, e non partecipano della ratio ad esso sottesa; né sul piano funzionale, posto che, dopo la liberazione e per il tempo del differimento, nessuno specifico raccordo, di natura istituzionale ed organizzativo, è necessario mantenere tra organi della giurisdizione ed organi esecutivi; né sul piano logico-sistematico, perché i provvedimenti ex artt. 146 e 147 c.p. postulano il riscontro di condizioni legittimanti (la presentazione della domanda di grazia, lo stato di gravidanza, di maternità, di salute) già in possesso dell’AG o ricavabili essenzialmente dalle relazioni degli operatori a diretto contatto con il detenuto in istituto, o dei sanitari di quest’ultimo; condizioni che comunque - così come affermato per la liberazione anticipata - non implicano previe valutazioni sul regime di collaborazione con la giustizia, e sulla sua valenza ed importanza, così da non giustificare lo spostamento di competenza ad un organo giudiziario diverso da quello altrimenti “naturale”. Né a diversa conclusione può indurre la circostanza che, nei casi di accoglimento dell’istanza di rinvio, il giudice competente possa disporre in sua vece la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter. La misura in tal caso disposta, pur annoverabile tra le misure alternative in senso lato, ha una finalità eminentemente assistenziale, potendo essa essere applicata, anche d’ufficio, al fine di contemperare le necessità del condannato, in relazione alla tutela della salute (o delle altre esigenze contemplate dagli artt. 146 e 147 c.p.) i e quelle della collettività, in relazione ai profili di sicurezza pubblica (Sez. 1, 12565//2015). Essa non richiede alcun apprezzamento, né in ordine all’importanza della collaborazione, né in ordine al ravvedimento (ed al riflesso presupposto dell’assenza di mantenuti collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva), che sono i requisiti cui, nel sistema delineato dall’art. 16-nonies citato, è ancorata la concessione delle misure, marcatamente premiali, viceversa prese in considerazione ai fini della deroga di competenza; requisiti, al tempo stesso, in rapporto ai quali riveste importanza decisiva l’apporto di conoscenza degli organi centrali di protezione, e in questo quadro, trova senso l’istituito stretto collegamento tra la sede di tali organi e la competenza giudiziaria. Deve essere pertanto conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: “In tema di rinvio, necessario o facoltativo dell’esecuzione della pena, la competenza a provvedere sull’istanza del soggetto detenuto, collaboratore di giustizia, appartiene al magistrato o al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta, quand’anche l’interessato richieda, o il giudice ritenga comunque di applicare, la detenzione domiciliare in luogo del differimento, non operando la regola di cui all’art. 16-nonies, comma 8, DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, che prevede la competenza territoriale esclusiva del giudice di sorveglianza di Roma” (Sez. 1, 8131/2018).

Collaboratori di giustizia

Dispone l’art. 16-noníes, comma 8, DL 8/1991: «Quando i provvedimenti di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono adottati nei confronti di persona sottoposta a speciali misure di protezione, la competenza appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona medesima ha eletto il domicilio a norma dell’articolo 12, comma 3-bis, del presente decreto». In questa cornice, deve rilevarsi che l’indicato art. 16-nonies, nel richiamare espressamente l’applicazione delle «misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni [...]», ai fini dell’individuazione della competenza della magistratura di sorveglianza, non consente alcuna distinzione fondata sulla natura trattamentale del beneficio penitenziario invocato, introducendo una deroga alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. dalla quale deriva la competenza funzionale della magistratura di sorveglianza di Roma. 3 Sulla base di queste considerazioni, la competenza generale della magistratura di sorveglianza di Roma per i collaboratori di giustizia deve considerarsi come la conseguenza di un’attribuzione di natura funzionale, che costituisce un’eccezione alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. e non è derogabile (Sez. 1, 4930/2020).

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la normativa che prevede la concessione dei benefici penitenziari ai collaboratori di giustizia non può essere intesa nel senso che il legislatore abbia voluto eliminare tutti i requisiti richiesti dalla legge penitenziaria, obbligando il giudice ad accordarli solo in funzione di una collaborazione che ne abbia messo a repentaglio la sicurezza personale (tanto da rendere necessario uno speciale programma di protezione); piuttosto che limitare o addirittura escludere la discrezionalità della magistratura di sorveglianza, la disciplina ne amplia la portata concedendole, in presenza di un contributo di rilevante spessore dato alla giustizia, di superare i requisiti, formali e sostanziali, richiesti nei casi ordinari. In un giudizio di tale delicatezza, la condotta collaborativa, anche se indicativa di una revisione critica, non deve essere tenuta presente da sola, ma va posta in 34 relazione ad altri determinanti parametri, come la gravità dei reati in espiazione, il percorso di ravvedimento compiuto e la fruizione di margini di libertà da cui possa desumersi un effettivo seppure iniziale reinserimento sociale (Sez. 1, 21985/2020).

Ragioni di inammissibilità dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale

È inammissibile per manifesta infondatezza la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale ove la stessa sia priva della indicazione della residenza e dell’ambiente di inserimento, lavorativo o meno, impedendo tale carenza, infatti, la valutazione delle prospettive di rieducazione e di prevenzione, cui è subordinata l’ammissione al beneficio, e non consentendo neppure di acquisire le necessarie notizie attraverso informativa dei competenti servizi sociali, a norma dell’art. 666, comma 5, c.p.p. (Sez. 1, 6584/1999: nell’enunciare il principio di cui in massima, è stata ritenuta legittima la declaratoria di inammissibilità della istanza adottata “de plano” a norma dell’art. 666, comma 2, c.p.p.). Nella stessa pronuncia si evidenzia come d’altra parte, la mancanza di una stabile residenza non consenta neppure il necessario supporto ed il costante controllo del servizio sociale e del magistrato di sorveglianza del luogo, competente ad adeguare le prescrizioni alle concrete esigenze trattamentali. Su detto orientamento si inserisce, in particolare, SU, 18775/2010, che ha affermato trattarsi di un principio generale che si applica alla richiesta di misure alternative alla detenzione, ai sensi dell’art. 656, comma 6, c.p.p., la quale deve essere corredata, a pena di inammissibilità, anche se presentata dal difensore, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio effettuata dal condannato non detenuto, ad eccezione dell’ipotesi di condannato latitante o irreperibile. Sottolineano le Sezioni unite come la disposizione in esame sia «tassativa (come, peraltro, si evince dal dettato legislativo che prescrive la indicazione “a pena di inammissibilità") e che debba, di conseguenza, escludersi che l’obbligo incombente sul condannato non detenuto possa essere assolto attraverso il “recupero” di indicazioni equipollenti pur desumibili dagli atti processuali (quali le mere indicazioni circa il domicilio o la residenza dell’istante), o che possano considerarsi valide precedenti dichiarazioni o elezioni domicilio che valide, ai sensi dell’art. 164 c.p.p., per ogni stato e grado del giudizio di cognizione, perdono efficacia in relazione al procedimento di esecuzione e di sorveglianza. Questi procedimenti, non costituiscono, infatti, una fase o un grado del procedimento di cognizione, ma sono del tutto autonomi, con la conseguenza che la dichiarazione o la elezione di domicilio effettuata nel giudizio di cognizione non è suscettibile di “trasmigrazione” nel procedimento esecutivo ed in quello di sorveglianza (Sez. I, 46265/2007). Unica eccezione a tale principio è quella prevista dall’ art. 656, comma 5, c.p.p., per la notificazione al condannato ed al difensore dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione della esecuzione della pena emessa dal PM; ma tale eccezione trova la sua logica giustificazione proprio nella necessità di pervenire in tempi brevi alla esecuzione della condanna, sia disponendo la carcerazione, momentanea sospesa, sia rendendo possibile l’applicazione di una delle misure alternative, per cui si presume, proprio per la quasi contemporaneità della irrevocabilità della sentenza con la sua esecuzione, che la notificazione presso i luoghi indicati nel procedimento di cognizione possa accelerare la complessa procedura di esecuzione delle pene “brevi"». Inoltre, la dichiarazione di domicilio richiesta, in alternativa all’elezione di domicilio, a pena d’inammissibilità della domanda del condannato, non detenuto, di una misura alternativa alla detenzione deve esprimere con chiarezza, sia pur senza necessità di particolari formule, la volontà che il luogo indicato venga considerato come quello nel quale effettuare le comunicazioni o notificazioni, con conseguente assunzione dell’obbligo, discendente dalla legge, di comunicare nelle forme prescritte ogni successiva variazione. (Sez. 1, 25123/2010). L’unica eccezione al principio che pretende un’espressa dichiarazione o elezione di domicilio per il procedimento di sorveglianza è riconosciuta per il caso cui il condannato risulti irreperibile o latitante, situazione che è usualmente ostativa al mantenimento di contatti col suo legale e che giustifica la presunzione di interruzione del “collegamento personale”, sottostante il rapporto di rappresentanza tecnica, a fronte della quale devono operare i principi generali, posti a fondamento del sistema processuale penale e del giusto processo, dell’inviolabilità del diritto di difesa, di garanzia di effettivo esercizio della difesa tecnica, dell’estensione al difensore di diritti e facoltà dell’imputato, dell’esigibilità di ogni obbligo imposto dalla legge (Sez. 7, 20093/2019).

Ammissibilità dell’istanza anche quando sia presentata da condannato sottoposto a detenzione per fatto diverso da quello oggetto del titolo esecutivo

È ammissibile la richiesta di misure alternative alla detenzione presentata da condannato sottoposto a detenzione cautelare per fatto diverso da quello cui si riferisce il titolo esecutivo, in quanto la condizione di custodia non preclude una valutazione di merito della domanda, e può incidere solo sulla pratica esecuzione dell’eventuale provvedimento di accoglimento, che dovrà essere rinviata alla cessazione della misura cautelare in corso di applicazione (Sez. 7, 7119/2020).

Istruttoria del procedimento

Eventuali carenze probatorie vanno riempite ad opera del TDS e la sola assenza, in atti, della relazione sulla osservazione del detenuto non può mai essere utilizzata a fondamento del rigetto della domanda di misura alternativa (Sez. 1, 51290/2019).

Parità delle armi

La parità delle armi non comporta che non possano essere utilizzati fatti non noti al diretto interessato, ma solo che lo stesso abbia accesso all'istruttoria svolta dal Tribunale e possa controllarla e valutarla, e perché anche procedimenti pendenti in indagini preliminari, e quindi suscettibili di essere archiviati, possono essere usati per la decisione (la Corte in motivazione ha censurato il motivo di ricorso attraverso il quale la difesa ha dedotto che il Tribunale avrebbe ricavato la pericolosità del ricorrente anche da una denuncia per truffa ricevuta dal proprietario di un immobile con cui aveva stipulato un contratto di locazione a fini commerciali della quale il ricorrente non era a conoscenza, e che sarebbe suscettibile anche di essere archiviata) (Sez. 1, 29134/2022).

Valutazione della condotta dell’interessato, osservazione della personalità e influenza delle relazioni degli UEPE

Nel giudizio prescritto dall'art. 47 è indispensabile l'esame dei comportamenti attuali del condannato perché non è sufficiente verificare l'assenza di indicazioni negative, ricavabili senz'altro dal passato (si pensi ai precedenti penali), ma è necessario accertare in positivo la presenza di elementi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva; ciò non significa acquisire dai risultati dell'osservazione della personalità la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo, al contrario, sufficiente l'avvio di tale processo critico rispetto al quale sono indicatori utilmente apprezzabili l'assenza di nuove denunzie, il ripudio delle pregresse condotte devianti, l'adesione a valori socialmente condivisi, la condotta di vita attuale, la congruità della condanna, l'attaccamento al contesto familiare e l'eventuale buona prospettiva di risocializzazione non configurando, invece, una ragione ostativa la mancata ammissione degli addebiti (afferma il Supremo collegio che, nella vicenda in esame, il Tribunale di sorveglianza non si è confrontato esaustivamente con le reali valutazioni espresse nelle relazioni di sintesi che avevano concluso per la concessione della misura più ampia, ritenendo, a prescindere dalla proclamazione di innocenza, comunque avviato il processo di rivisitazione critica del passato deviante alla luce della dimostrata comprensione da parte del detenuto delle sofferenze patite della vittima) (Sez. 1, 26845/2022).

Per formulare il giudizio prognostico favorevole è richiesto un contatto diretto fra il servizio sociale e la persona del sottoposto, sia prima dell'applicazione del beneficio, per consentire la raccolta delle informazioni indispensabili, sia nel corso della sua esecuzione. Soltanto in presenza di detta condizione può essere valutato il comportamento dell'interessato e, segnatamente, l'osservanza delle prescrizioni concernenti i rapporti con il servizio sociale, la dimora, la libertà di locomozione, il divieto di certe frequentazioni, il lavoro da svolgere ed è per tali motivi che l'irreperibilità del condannato al momento della decisione sulla sua richiesta di misura alternativa alla detenzione può rilevare in quanto circostanza atta a precludere l'accoglimento dell'istanza, nella misura in cui si riveli, in concreto, sintomatica di disinteresse per la procedura e impedisca in modo assoluto la verifica della sussistenza dei presupposti per la concessione del beneficio invocato (Nel caso specifico il tribunale di sorveglianza aveva correttamente preso in considerazione, a parere della Corte, la situazione di mancato reperimento del condannato nel luogo indicato quale proprio domicilio nella richiesta di applicazione delle misure alternative deducendone l'impossibilità di condurre una qualunque valutazione sui presupposti applicativi degli istituti cui si era chiesto di avere accesso anche per la mancata acquisizione di ulteriori notizie fornite dall'interessato, che, senza avere preso contatti con i servizi sociali, né avere presenziato all'udienza, non aveva mostrato effettivo interesse per la procedura in corso) (Sez. 1, 18384/2022).

In tema di affidamento in prova al servizio sociale le valutazioni che normativamente il tribunale di sorveglianza deve effettuare nel decidere sull'affidamento in prova sono due: che non esista un pericolo di recidiva ("assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati") e che l'affidamento sia utile per il reinserimento sociale del condannato ("contribuisca alla rieducazione del reo"). Le prognosi non sono alternative, ma cumulative, in quanto devono essere entrambe positive perché il condannato venga ammesso a questo tipo di espiazione della pena (Nel caso in esame, il TDS aveva ritenuto non possibile formulare la doppia prognosi favorevole all'esito di una valutazione complessiva, in cui era valorizzato sia il pericolo di recidiva - rilevando il percorso criminale del condannato sviluppatosi nell'ambito dei reati economici, espressione di una devianza non occasionale, e che la tipologia di reati per cui è condannato o indagato sono incompatibili con spazi di libertà - sia la mancanza di elementi che depongano a favore dell'opportunità dell'affidamento per il reinserimento sociale - l'attività lavorativa non documentata) (Sez. 1, 15866/2022).

Ai fini della concessione del beneficio dell’affidamento in prova e del sotteso giudizio prognostico favorevole, la natura e la gravità dei reati per i quali è stata irrogata la pena in espiazione deve costituire, unitamente ai precedenti, alle pendenze e alle informazioni di P.S. il punto di partenza dell'analisi della personalità del soggetto, la cui compiuta ed esauriente valutazione non può mai prescindere, tuttavia, dalla condotta tenuta successivamente dal condannato e dai suoi comportamenti attuali, risultando questi essenziali ai fini della ponderazione dell'esistenza di un effettivo processo di recupero sociale e della prevenzione del pericolo di recidiva. In tal senso, fra gli indicatori utilmente apprezzabili in tale ottica, ben possono essere annoverati l'assenza di nuove denunzie, il ripudio delle pregresse condotte devianti, l'adesione a valori socialmente condivisi, la condotta di vita attuale, la congruità della condanna, l'attaccamento al contesto familiare e l'eventuale buona prospettiva di risocializzazione; sicché, a rigore, il fatto che si gestisca attività imprenditoriale analoga a quella su cui si fonda la condanna non può costituire motivo di sospetto ex se assumendo piuttosto rilievo le modalità con cui viene svolta tale nuova attività (Sez. 1, 4306/2022).

Ai fini della concessione della misura alternativa al carcere dell’affidamento in prova al servizio sociale, il TDS è tenuto a considerare la collaborazione processuale resa dal condannato nel processo di cognizione e riconosciuta da quel giudice, oltre ad ogni atteggiamento rivelatore di resipiscenza verso il delitto commesso quale, ad esempio, il versamento di una somma rilevante alla Croce Rossa Italiana, tanto più valorizzabile quando corrisposta da una persona in condizioni economiche non floride, trattandosi di elementi favorevoli che devono essere tenuti tutti in adeguata considerazione in quanto passibili di incidere sul giudizio di meritevolezza dell'invocata misura alternativa (Sez. 1, 41817/2021).

Qualora il condannato chieda di accedere ai benefici penitenziari documentando l’avvio di un processo di riesame critico delle pregresse condotte antisociali, riconoscendo la propria responsabilità nella vicenda per cui è in corso l'esecuzione e provvedendo all'integrale risarcimento del danno cagionato alla parte civile, tali elementi (anche se sopravvenuti) meritano un vaglio specifico da parte dei giudici della sorveglianza, tanto più a fronte di elementi ritenuti ostativi, come i precedenti penali e le pendenze giudiziarie, consistenti in un unico titolo (quello in esecuzione) e in una unica pendenza (Sez. 1, 41818/2021).

Ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, non può essere trascurata la tipologia e la gravità dei reati commessi, ma si deve avere soprattutto riguardo al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti per i quali è stata irrogata la condanna in esecuzione, per verificare concretamente se sussistano, o no, sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che ne rendano possibile il reinserimento sociale attraverso la richiesta misura alternativa (Nel valutare la posizione della condannata il tribunale di sorveglianza non teneva conto di una pluralità di elementi informativi, tra cui un rilievo decisivo assumeva la relazione trasmessa dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità sulla quale il giudice a quo si soffermava superficialmente senza considerare la condizione di genitrice di due figli minori e disattendendo la conclusione dell’indagine psicosociale e familiare secondo la quale, avendo a suo carico solamente questo reato, la condannata appariva idonea all’eventuale affidamento in prova al servizio sociale) (Sez. 1, 29598/2021).

Il giudizio sull’insussistenza delle condizioni per la proficua fruizione della misura dell’affidamento in prova si basa non già sulla sola considerazione dei reati commessi, ma sulla ritenuta insufficienza di elementi positivi in grado di attestare la consapevolezza del disvalore di quanto compiuto e di rivedere criticamente e controllare le pulsioni all’aggressività e le spinte a delinquere. Da tali premesse è consequenziale argomentare il giudizio di non completa affidabilità del soggetto condannato circa il rispetto delle prescrizioni connesse alla più ampia misura richiesta, in applicazione delle varie disposizioni contenute nell’art. 47 che impone una valutazione della richiesta di affidamento in prova la quale, pur partendo dalla considerazione della natura e della gravità dei reati per i quali è stata irrogata la pena in espiazione, non possa mai prescindere dalla condotta tenuta dal condannato dopo la commissione degli illeciti e dai suoi comportamenti attuali, risultando questi essenziali ai fini dell’apprezzamento dell’esistenza di un effettivo processo di recupero sociale e della prevenzione del pericolo di recidiva (Sez. 1, 36105/2020).

Ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, pur non potendosi prescindere dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, è tuttavia necessaria la valutazione della condotta serbata dal condannato in epoca successiva non essendo sufficiente verificare l’assenza di indicazioni negative, ricavabili senz’altro dal passato (si pensi ai precedenti penali), ma è necessario accertare in positivo la presenza di elementi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva, avendo riguardo al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti per i quali è stata inflitta la condanna in esecuzione, per verificare concretamente se sussistano, o no, sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che ne rendano possibile il reinserimento sociale attraverso la richiesta misura alternativa (La Corte precisa che ciò non significa acquisire dai risultati dell’osservazione della personalità la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato essendo, al contrario, sufficiente l’avvio di tale processo critico annoverando, tra gli indicatori utilmente apprezzabili in tale ottica, l’assenza di nuove denunzie, il ripudio delle pregresse condotte devianti, l’adesione a valori socialmente condivisi, la condotta di vita attuale, la congruità della condanna, l’attaccamento al contesto familiare e l’eventuale buona prospettiva di risocializzazione, non essendo, invece, necessaria la sussistenza di un lavoro già disponibile, potendo tale requisito essere surrogato da un’attività socialmente utile anche di tipo volontaristico) (Sez. 1, 17208/2020).

L’affidamento in prova al servizio sociale produce, a mente dell’art. 47, l’effetto estintivo della pena solo in caso di esito positivo della prova, che va inteso come integrale emenda del condannato. Non è, dunque, sufficiente il mero decorso del periodo di prova, senza che sia intervenuta la revoca della misura, ma occorre l’accertamento, da parte del tribunale di sorveglianza, di elementi positivi che dimostrino l’avvenuta risocializzazione del condannato, la quale viene a costituire il parametro di valutazione e, al tempo stesso, la causa giustificatrice dell’estinguersi del rapporto punitivo, essendo questo giunto al completo soddisfacimento della funzione assegnata alla pena dall’art. 27 comma 3 Cost. A tal fine, il tribunale di sorveglianza, al termine dell’esperimento e allo scopo di valutare l’esito della prova può tenere conto di qualsiasi elemento fattuale sintomatico del mancato raggiungimento delle finalità cui è destinata la misura e fondare il suo giudizio su fatti e comportamenti che, pur non riconducibili storicamente nel perimetro temporale della prova, si palesino tuttavia, avuto riguardo alla loro qualità e gravità, significativi e in grado di illuminare retrospettivamente il processo rieducativo del condannato ai fini del reinserimento sociale e della auspicata prognosi di non recidivanza a condizione che lo stesso tribunale motivi specificamente sulle ragioni per le quali tali comportamenti presentino, in concreto, caratteristiche tali - per la loro gravità, per la distanza cronologica dalla scadenza dell’affidamento, per il collegamento di essi con le modalità di espletamento dell’esperimento - da saldarsi alla condotta serbata e all’esperienza maturata nel corso della prova (la Corte ha precisato che, nel caso di esito negativo della prova, il Tribunale di sorveglianza non può limitarsi a dichiarare non estinta la pena, ma deve altresì determinare la durata della residua pena detentiva da espiare, prendendo in considerazione, in maniera puntuale, l’entità delle specifiche circostanze poste a fondamento del giudizio di negatività della prova, in quanto l’irrogazione di sanzioni che si aggiungono a quelle ritenute originariamente proporzionate al grado di responsabilità del soggetto non può avvenire senza una valutazione della qualità, gravità, estensione temporale e relazione di proporzionalità con l’aggravamento sanzionatorio delle condotte violatrici poste a giustificazione dell’accertamento di detto risultato negativo) (Sez. 1, 16941/2020).

In sede di ammissione del collaboratore di giustizia ai benefici penitenziari, e alle misure alternative, il giudice di sorveglianza conserva la sua autonomia valutativa, incentrata sul riscontro del requisito del ravvedimento (ex art. 16-nonies, comma 3, DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991) il quale, lungi dal formare oggetto di una sorta di presunzione, richiede la presenza di specifici elementi di qualsivoglia natura che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza (in motivazione la Corte ha precisato che il parere dei Procuratore Nazionale Antimafia assolve, in tale contesto, alla funzione di fornire al giudice elementi di conoscenza su aspetti - quali appunto lo spessore della fornita collaborazione, e la sua incidenza ai fini della recisione dei rapporti con l’ambiente criminale di riferimento - che concorrono alla valutazione del conseguito ravvedimento, ma esso non riveste carattere vincolante per il giudice stesso, né evidentemente lo priva della sua libertà di apprezzamento (Sez. 1, 13087/2020).

Ai  fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, pur non potendosi prescindere, dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, è tuttavia necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l’esame anche dei comportamenti attuali del medesimo, attesa l’esigenza di accertare non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva (Sez. 7, 7152/2020).

Attraverso la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, l’ordinamento ha inteso attuare una forma dell’esecuzione della pena esterna al carcere nei confronti di condannati per i quali, alla luce dell’osservazione della personalità e di altre acquisizioni ed elementi di conoscenza, sia possibile formulare una ragionevole prognosi di completo reinserimento sociale all’esito della misura alternativa. (Corte costituzionale, 377/1997). In relazione alla peculiare finalità dell’affidamento, la giurisprudenza di legittimità è uniformemente orientata nel senso che, ai fini della concessione della misura, non possono, di per sé soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna e i precedenti penali, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che dai risultati dell’osservazione della personalità emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato (Sez. 1, 773/2013). In particolare, è stato chiarito che, per il giudizio prognostico favorevole, la natura e la gravità dei reati per i quali è stata irrogata la pena in espiazione deve costituire, unitamente ai precedenti (Sez. 1, 1812/1999), alle pendenze e alle informazioni di pubblica sicurezza (Sez. 1, 1970/1997), il punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, la cui compiuta ed esauriente valutazione non può mai prescindere, tuttavia, dalla condotta tenuta successivamente dal condannato e dai suoi comportamenti attuali, risultando questi essenziali ai fini della ponderazione dell’esistenza di un effettivo processo di recupero sociale e della prevenzione del pericolo di recidiva (Sez. 1, 31420/2015); si è di recente precisato che, fra gli indicatori utilmente apprezzabili in tale ottica, possono essere annoverati l’assenza di nuove denunzie, il ripudio delle pregresse condotte devianti, l’adesione a valori socialmente condivisi, la condotta di vita attuale, la congruità della condanna, l’attaccamento al contesto familiare e l’eventuale buona prospettiva di risocializzazione (Sez. 1, 44992/2018) (Sez. 1, 4686/2020).

Secondo un principio di diritto da ritenersi consolidato e meritevole di essere ribadito, quando debba valutarsi se fare luogo o meno alla concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, pur non potendo prescindersi dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, la considerazione di tale gravità, al pari di quella relativa ai precedenti penali, non è sufficiente, poiché è sempre necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile anche l’esame dei comportamenti successivi e attuali del medesimo, in ragione dell’esigenza, connaturata alla ratio dell’istituto, di accertare non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi, tali da consentire un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva. D’altro canto, non va obliterato che per la favorevole delibazione dell’istanza non può esigersi, in positivo, la dimostrazione che il soggetto abbia già compiuto una completa revisione critica del proprio passato, bensì è sufficiente che - dai risultati dell’osservazione della personalità - emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato, nella prospettiva di un suo ottimale reinserimento sociale (Sez. 1, 31420/2015): la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale non postula come presupposto indispensabile al suo riconoscimento la verifica di una già conseguita, radicale emenda da parte del condannato, che costituisce invece l’obiettivo da raggiungere con il completamento del processo di rieducazione, esigendo piuttosto il riscontro dell’esistenza di elementi dai quali possa desumersi l’avvenuto, sicuro inizio di questo processo; inizio del percorso di emenda che si richiede in modo concettualmente ineludibile per qualsiasi condannato, quale che sia la natura del reato commesso. Nel solco così tracciato, per effettuare una congrua valutazione ai fini dell’ammissione alla misura disciplinata dall’art. 47 e, quindi, per accertare se essa possa concretamente contribuire alla rieducazione del reo e assicurare la prevenzione del pericolo che questi commetta nuovi reati, rileva la dimostrazione che egli si sia determinato a introiettare la consapevolezza della necessità di rispettare le leggi penali e ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale sanciti dall’ordinamento medesimo. Si considera, quindi, essenziale un’esauriente disamina degli elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria, dovendo il giudice, in particolare, esaminare le relazioni provenienti dagli organi deputati all’osservazione del condannato, pur senza essere in alcun modo vincolato dai giudizi di idoneità ivi espressi, ma essendo tenuto a considerare le riferite informazioni sulla personalità e sullo stile di vita dell’interessato, parametrandone la rilevanza alle istanze rieducative e ai profili di pericolosità dell’interessato, secondo la gradualità che governa l’ammissione ai benefici penitenziari (Sez. 1, 23343/2017; sull’importanza della delibazione relativa ai risultati dell’osservazione del comportamento del condannato si veda Sez. 1, 5981/2017). Non potendo prescindersi, dunque, dalla condotta tenuta dal condannato dopo la commissione del reato e dai suoi comportamenti attuali, essendo - questi elementi - essenziali ai fini della verifica inerente all’esistenza di un effettivo processo di recupero sociale e della prevenzione del pericolo di recidiva e all’idoneità della misura alternativa, il giudice deve spiegare, anche sul versante della verifica del comportamento successivo alla commissione del reato, le ragioni della prognosi conclusiva. Quel che rileva, nell’indicata prospettiva, è l’analisi della personalità individuale e della sua evoluzione psicologica, che dal fatto di reato si deve estendere, da un lato, ai precedenti e alle pendenze penali e, dall’altro, agli eventuali progressi compiuti dal condannato nel periodo successivo, nonché alla condotta di vita precedente e susseguente alla condanna, da effettuare sulla scorta dei dati conoscitivi forniti dall’osservazione e dalle valutazioni offerte dal servizio sociale, allo scopo di accertare l’idoneità dell’affidamento in prova a contribuire al reinserimento sociale del condannato e al certo contenimento del residuo di pericolosità sociale in principio eventualmente esistente (Sez. 1, 4098/2020).

Come dimostra la lettura dell’art. 47, l’osservazione e la valutazione della personalità e del comportamento del detenuto è il punto di riferimento principale per la decisione sull’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale; analoga valutazione è richiesta per la semilibertà dall’art. 50, comma 4, che fa riferimento ai progressi compiuti nel corso del trattamento; implicitamente, anche la norma dell’art. 47-ter sulla detenzione domiciliare richiede tale valutazione. L’importanza di tale osservazione e valutazione è ovvia: se la pena detentiva è finalizzata alla rieducazione del condannato, il giudizio di pericolosità attuale del soggetto e di utilità di una misura alternativa non può essere espresso soltanto sulla base delle informazioni relative al periodo anteriore alla detenzione (salvi i limiti disposti dal legislatore nella concessione delle misure alternative con riferimento a determinati reati), ma deve tenere conto degli esiti del trattamento penitenziario fino al momento della richiesta (Sez. 1, 831/2020).

In tema di misure alternative alla detenzione, il giudice - nell’esaminare le relazioni provenienti dagli organi deputati all’osservazione del condannato (in particolare, l’UEPE) - non è, in alcun modo, vincolato dai giudizi di idoneità ivi espressi. Il giudice è, invece, tenuto soltanto a considerare le riferite informazioni sulla personalità e lo stile di vita dell’interessato, parametrandone la rilevanza ai fini della decisione alle istanze rieducative e ai profili di pericolosità dell’interessato, secondo la gradualità che governa l’ammissione ai benefici penitenziari (Sez. 1, 38219/2019). In questa direzione, di conseguenza, il TDS, anche quando siano emersi elementi positivi nel comportamento del detenuto, può legittimamente ritenere necessario un ulteriore periodo di osservazione e lo svolgimento di altri esperimenti premiali, al fine di verificare l’attitudine del soggetto ad adeguarsi alle prescrizioni da imporre, specie se il reato commesso sia sintomatico di una non irrilevante capacità a delinquere (in questa prospettiva, sia pure in un contesto di verosimile contiguità con ambienti delinquenziali di elevato livello (Sez. 1, 5213/2020).

Gravita dei reati commessi e precedenti penali e giudiziari

Ai fini dell’affidamento in prova al servizio sociale, i riferimenti alla gravità del reato commesso o ai precedenti penali e giudiziari del condannato o al comportamento da lui tenuto prima o dopo la custodia cautelare ben possono essere utilizzati come elementi che concorrono alla formazione del convincimento circa la praticabilità della misura alternativa. Ne consegue che il mantenimento di una condotta positiva, anche in ambiente libero, non è di per sé determinante, soprattutto ove la condanna in espiazione sia stata inflitta per reati di obiettiva gravità e sia inadeguato il periodo di carcerazione sofferto, ma deve essere valutato nell’ambito di un giudizio globale di tutti gli elementi emersi dalle indagini esperite e dalle informazioni assunte, che tenga anche conto della progressività e gradualità dei risultati del trattamento e, conseguentemente, dell’eventuale previa esperienza di permessi – premio (Sez. 1, 893/2020).

Sanzioni disciplinari

Nel valutare la sussistenza dei presupposti per la concessione di una misura alternativa alla detenzione si devono utilizzare tutti gli elementi da cui desumere l’assenza di partecipazione all’opera di rieducazione del condannato, nel cui contesto i comportamenti intramurari oggetto di sanzioni disciplinari assumono un rilievo altamente sintomatico del percorso rieducativo intrapreso dal detenuto durante l’esecuzione della pena. Non v’è dubbio, infatti, che le trasgressioni comportamentali del detenuto - soprattutto se ripetute nel tempo, assumono una valenza negativa, risultando espressive della scarsa partecipazione all’opera di rieducazione del carcerato, in quanto sintomatiche dell’assenza di effetti positivi sul percorso intrapreso (Sez. 1, 4387/2019).

Indisponibilità del condannato al risarcimento del danno provocato alla vittima

Ai fini del diniego della concessione del beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale, il tribunale può legittimamente valutare l’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima, non ostando a ciò la mancata previsione del risarcimento dei danni quale condizione per la concessione del beneficio suddetto (Sez. 1, 39266/2017).

In contrario avviso: in tema di affidamento in prova al servizio sociale, la volontà della legge non è quella di subordinare la concessione delle misure alternative al risarcimento del danno (Sez. 1, 12324/2020).

Svolgimento di un’attività lavorativa

Lo svolgimento di un’attività lavorativa è soltanto uno degli elementi idonei a concorrere alla formazione del giudizio prognostico favorevole al reinserimento sociale del condannato e, quindi, la mancanza di un’occupazione stabile va sempre valutata nel contesto degli altri elementi riguardanti la personalità dell’interessato (Sez. 1, 1023/2019).

Sono i risultati del trattamento individualizzato a costituire il dato di riferimento per l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale ed al giudice di merito spetta verificare se dagli elementi valutativi disponibili possa trarsi il giudizio prognostico favorevole al reinserimento del condannato nella società. Lo svolgimento di un’attività lavorativa non costituisce requisito indefettibile per l’accesso alla misura: esso assume rilevanza ma quale uno degli aspetti idonei a concorrere alla formazione del giudizio prognostico, sicché la sua indisponibilità o inidoneità non opera effetti ostativi all’ammissione alla misura quando il suo svolgimento non sia consentito per ragioni di età o per le condizioni di salute (Sez. 1, 21825/2020).

Computo della pena espiata in presenza di reati ostativi

Costituisce ius receptum che, nel computo del periodo minimo di pena espiata, previsto come condizione per la concessione di misure alternative alla detenzione, il dies a quo decorra, nel caso di cumulo materiale comprensivo anche di pene inflitte per reati ostativi, dal momento in cui si è esaurita l’espiazione delle pene relative a tali reati, e non da quello di inizio della detenzione (Sez. 1, 48714/2019).

Esecuzione dell'affidamento in prova in un altro Stato dell'Unione europea

L'esecuzione dell'affidamento in prova al servizio sociale può avere luogo in altro Stato dell'Unione europea che abbia dato attuazione alla decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, sull'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza, delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive, recepita in Italia con d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 38, in quanto l'affidamento è assimilabile ad una "sanzione sostitutiva" ai sensi dell'art. 2, lett. e), di tale decreto, quale sanzione che "impone obblighi ed impartisce prescrizioni", compatibili con quelli elencati nel successivo art. 4 e che costituiscono il contenuto del trattamento alternativo al carcere. (Sez. 1, n. 20977 del 15/06/2020, Arrighi, Rv. 279338; Sez. 1, n. 16942 del 25/05/2020, Mancinelli, Rv. 279144; Sez. 1, n. 15091 del 16/05/2018 dep. 2019, Leonardi, Rv. 275807). Come pure precisato da questa Corte, la possibilità che, nella fase istruttoria, l'Ufficio esecuzione penale esterna compia in maniera adeguata gli accertamenti funzionali alle determinazioni del Tribunale di sorveglianza non è preclusa dalla prospettiva che, in caso di ammissione, la misura alternativa alla detenzione venga eseguita non in Italia, ma in altro Stato dell'Unione europea. Le richieste e le informazioni provenienti dall'interessato potranno consentire di riscontrare quel collegamento effettivo e quelle condizioni di sperimentazione trattamentale nello Stato estero che debbono essere scrutinati in sede di ammissione dell'affidamento in prova conformemente alle sue finalità. In questa prospettiva è stata posta in evidenza la necessità, nella fase istruttoria - e pertanto delle verifiche in fatto, sempre indispensabili ai fini dell'individuazione dei presupposti per l'accoglimento della richiesta - di un particolare comportamento collaborativo dell'interessato. Esso si può tradursi in un onere informativo caratterizzato da particolare diligenza, che però rimane estraneo all'ambito dell'individuazione delle condizioni, in sede di esecuzione, dei controlli e delle relative competenze. Le attività successive alla decisione in ordine all'esecuzione dell'affidamento in prova all'estero sono regolate, come per le altre misure, dal quadro delle previsioni contenute dal d.lgs. n. 38 del 2016 e non riguardano la pronunzia da adottare secondo le disposizioni di legge (Sez. 1, 14799/2022).

Revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale

In caso di revoca della misura alternativa al carcere, ai fini della determinazione del residuo periodo di pena da espiare, il tribunale di sorveglianza deve espressamente motivare, prendendo in esame non solo la gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato ad essa luogo, ma anche la condotta complessivamente tenuta dal condannato durante il periodo di prova trascorso e la concreta incidenza delle prescrizioni imposte a suo carico (ribadendo il principio di diritto stabilito dopo la sentenza della Consulta n. 343/1987, la Corte, nel caso in esame, ha ritenuto corretto il provvedimento di revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale in quanto il tribunale è pervenuto ad un giudizio del tutto fallimentare della prova accordata al condannato sulla scorta della "gravissima" condotta illecita, tenuta in costanza di applicazione dell'affidamento in prova, tesa alla sottrazione di una ingente somma in denaro e di preziosi per un valore superiore ai 400.00,00 euro) (Sez. 1, 26847/2022).

I requisiti cui è subordinata la revoca dell’affidamento in prova sono due: una violazione commessa dal condannato, e l'incompatibilità di tale violazione con la prosecuzione della prova. La valutazione circa la compatibilità della violazione con la prosecuzione dell'affidamento è connotata da profili di discrezionalità non potendo conseguire automaticamente al mero riscontro di violazioni della legge penale o delle prescrizioni dettate dalla disciplina della misura stessa, in quanto spetta al giudice valutare, fornendo adeguata motivazione, se tali violazioni costituiscano, in concreto, un fatto incompatibile con la prosecuzione della prova. A sua volta, il controllo dell'esercizio della discrezionalità avviene attraverso il giudizio sulla logicità ed adeguatezza della motivazione della ordinanza di revoca (nel caso in esame, il TDS aveva evidenziato in motivazione le numerose violazioni al programma che il condannato avrebbe dovuto seguire e le ricadute nel consumo di stupefacenti in cui è incorso, ed aveva concluso nel senso che la misura alternativa aveva fallito il suo scopo non limitandosi a constatare la esistenza della violazione, ma effettuando proprio quel giudizio complessivo sul comportamento del condannato durante il periodo di prova che rimane insindacabile in sede di legittimità poiché il compito della Suprema Corte non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma soltanto di verificare che gli stessi abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre) (Sez. 1, 15864/2022).

L'affidamento in prova al servizio sociale, al pari di altre misure alternative alla detenzione intramuraria, può essere revocato per il caso in cui sopravvenga l'emissione di una misura cautelare per fatti commessi prima della concessione del beneficio penitenziario, a condizione che attraverso la valutazione del provvedimento cautelare siano introdotti nuovi elementi rispetto a quelli presi in esame al momento in cui l'affidamento è stato disposto ma, a fronte di siffatta evenienza, il giudice della sorveglianza deve verificare, con un adeguato esame della sopravvenienza cautelare e delle sue ragioni, se rilevino elementi di novità capaci di modificare il quadro delle conoscenze utilizzate al momento in cui fu formulata la prognosi favorevole con l'applicazione del beneficio (Nel caso di specie, il Tribunale di sorveglianza ha provveduto, a parere della Corte, ad effettuare quella necessaria verifica, perché ha considerato i fatti contestati e la loro oggettiva gravità in quanto riguardanti la partecipazione dell’affidato ad associazione finalizzata al traffico di stupefacenti di varia natura, che annoverava circa quaranta partecipi e si era avvalsa di plurimi canali di rifornimento mediante contatti anche internazionali, in tal modo fornendo congrua giustificazione al giudizio di gravità dei fatti ed all'osservazione, secondo cui, se gli stessi fossero stati già noti, il suo livello di pericolosità sociale non avrebbe consentito l'ammissione alla misura alternativa) (Sez. 1, 15863/2022).

La competenza a decidere circa la revoca della misura alternativa spetta al TDS del luogo in cui è in corso di esecuzione la misura alternativa, sul presupposto che vi sia stata sottoposizione effettiva alla misura, mentre, nell'ipotesi in cui tale sottoposizione non sia mai avvenuta, la condotta tenuta dal destinatario del provvedimento che si assume rimproverabile deve essere valutata dal tribunale che lo ha emesso (Sez. 1, 9907/2021).

Qualora si determini alla revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, il tribunale di sorveglianza deve procedere alla determinazione della pena residua da espiare sulla scorta di una valutazione discrezionale, da condurre, caso per caso, considerando il periodo di prova trascorso dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni imposte e il concreto carico di queste, nonché la gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca (nel caso di specie, la Corte, dopo aver richiamato il contenuto della norma di cui all'art. 47 comma 11, e le pronunce della Consulta che hanno determinato l'illegittimità costituzionale della menzionata disposizione nella parte in cui essa non consentiva al TDS di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova, ha accolto il ricorso evidenziando che il Tribunale aveva omesso di valutare le condotte tenute dall'affidato in costanza di misura alternativa, senza compiere alcun riferimento ulteriore rispetto alla mera sottolineatura della gravità del fatto che ha determinato la revoca e senza nemmeno svolgere alcuna attività istruttoria sul pregresso andamento della misura, protrattasi per oltre un anno) (Sez. 1, 8884/2021).

In tema di revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, ai fini della determinazione del residuo periodo di pena da espiare, il giudice deve motivare in ordine alla decorrenza della revoca prendendo in esame non solo la gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla stessa, ma anche la condotta complessivamente tenuta dal condannato durante il periodo di prova trascorso, in particolare considerando la durata del periodo trascorso nell'osservanza delle prescrizioni imposte e la concreta incidenza di queste (Nel caso di specie, il TDS si era limitato a dare atto che la revoca era stata determinata dall'arresto in flagranza del ricorrente per il reato di cessione di cocaina, traendo da ciò la conclusione che la condotta del soggetto non aveva corrisposto alle aspettative sottese alla concessione della misura alternativa senza, però, spiegare le ragioni della ritenuta inaffidabilità ab origine del comportamento tenuto in costanza della misura alternativa, così che la retroazione della revoca risultava sostanzialmente immotivata e formulata in termini essenzialmente assertivi). (Sez. 1, 45449/2021).

In tema di affidamento in prova al servizio sociale, qualora il comportamento del condannato sia stato così negativo da rivelare l'inesistenza sin dall'inizio la mancata adesione al programma di risocializzazione, legittimamente - alla luce dei principi di proporzionalità ed adeguatezza della pena indicati dalla Corte costituzionale con la sentenza 343/1987 - il tribunale di sorveglianza può disporre la revoca della misura con effetto ex tunc e, conseguentemente, determinare la pena ancora da espiare in misura corrispondente a quella originariamente inflitta (nella motivazione del presente provvedimento, la Corte ha inteso precisare che, per il tribunale di sorveglianza, resta fermo l'obbligo di motivare specificamente tale gravosa determinazione, pena la nullità della ordinanza di revoca della misura in ossequio al principio espresso, dopo la sentenza della Consulta sopra richiamata, ora enunciato dall'art. 98, comma 7, DPR 230/2000, il quale precisa che il TDS, nel revocare l'affidamento in prova al servizio sociale, determina anche «la pena detentiva residua da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il periodo trascorso in affidamento in prova») (Sez. 1, 28709/2020).

La revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale non è dalla legge rapportata alla pura e semplice violazione della legge penale o delle prescrizioni dettate dalla disciplina della misura stessa, ma all’ipotesi che il giudice, nel suo insindacabile apprezzamento di merito, ritenga che le predette violazioni costituiscano in concreto un fatto incompatibile con la prosecuzione dell’esperimento. Il relativo giudizio, pur se è rimesso alla discrezionalità del tribunale di sorveglianza, deve essere giustificato in modo esauriente. Ciò tanto più a seguito della novellazione dell’art. 51-ter, operata dall’art. 5, comma 1, lettera b), D.Lgs. 123/2018. Mediante tale intervento legislativo, la disciplina previgente è stata innovata, non solo nel senso di prevedere che il magistrato di sorveglianza possa dare impulso al procedimento destinato a valutare la revoca della misura alternativa in atto, senza necessariamente disporne la previa sospensione cautelativa, conformemente ad una prassi già seguita in molti uffici di sorveglianza; ma, ancor più incisivamente, nel senso di ampliare la gamma degli interventi consentiti in tale sede al tribunale di sorveglianza, espressamente abilitato a deliberare, se del caso, in luogo della revoca, la concessione di una diversa e più contenitiva misura alternativa, cui in precedenza l’attuale formulazione dell’art. 58-quater sarebbe potuta ostare (Sez. 1, 50386/2019).

Ai sensi dell’art. art. 47, comma 11, la misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova è revocata qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova. È la stessa conformazione normativa dell’istituto a richiedere, dunque, la costante verifica della effettività del percorso di risocializzazione, in rapporto al quale le condotte illecite o violatrici delle prescrizioni - compiute dal soggetto ammesso - possono comportare la revoca della misura, essenzialmente in rapporto alla rivalutazione della prognosi favorevole originariamente formulata. Va, infatti, ricordato che l’affidamento in prova al servizio sociale implica la formulazione di una prognosi favorevole in tema di prevenzione dal pericolo di commissione di ulteriori reati e di esito positivo del percorso di risocializzazione. In rapporto a tale costruzione normativa è del tutto evidente che anche una singola condotta - ove ne sia apprezzata la gravità - possa far emergere, con valutazione in fatto ed autonoma, non essendo necessario attendere il giudicato, la sopravvenuta carenza dei presupposti per la prosecuzione della prova. Una volta disposta la revoca della misura alternativa alla detenzione, il giudice, ai fini della determinazione del residuo periodo di pena da espiare, deve motivare in ordine alla decorrenza della revoca prendendo in esame non solo la gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla stessa, ma anche la condotta complessivamente tenuta dal condannato durante il periodo di prova trascorso e la concreta incidenza delle prescrizioni imposte a suo  carico, atteso che la sentenza 343/1987 della Corte costituzionale ha attribuito al TDS un potere discrezionale ampio, purché adeguatamente assistito da motivazione, anche nella determinazione della residua pena detentiva da espiare. In tal senso, il giudice può anche disporre la revoca della misura con effetto ex tunc, quando il comportamento del condannato sia stato così negativo da rivelare l’inesistenza ab initio di un’adesione al processo rieducativo (Sez. 7, 45789/2019).

Differenze tra affidamento in prova e altre misure alternative

In tema di misure alternative alla detenzione, deve escludersi che sul piano strutturale vi sia coincidenza o interdipendenza tra affidamento in prova e semilibertà. Per la concessione della semilibertà, infatti, occorre accertare che esista un andamento positivo del trattamento rieducativo in misura tale da aprire alla prospettiva di una prognosi che il lavoro esterno possa portare al reinserimento effettivo nel tessuto sociale. Per l’affidamento in prova, invece, occorre un quid pluris rappresentato dalla prova che la partecipazione all’attività educativa in carcere abbia raggiunto una soglia di ripensamento così elevata da far ritenere definitivamente cessato il collegamento con i modelli culturali che avevano determinato le manifestazioni concrete di devianza. Il fondamento di tale differenza va ravvisato nel fatto che l’affidamento, rompendo il contatto quotidiano con le strutture intramurarie, deve avere alla sua base una garanzia maggiore in termini di affidabilità, mentre il lavoro esterno che è il nucleo della semilibertà si può accontentare di un margine di incertezza sull’affidabilità in considerazione del ritorno quotidiano del condannato nella struttura carceraria che consente di mantenere un controllo continuativo e penetrante sull’ulteriore corso verso un’emenda più completa (Sez. 7, 43324/2019).

L’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dall’art. 47 e la detenzione domiciliare, nella sua forma ordinaria regolata dall’art. 47-ter, comma 1-bis sono misure alternative alla detenzione carceraria che, a diverso titolo, attuano la finalità costituzionale rieducativa della pena. La prima misura può essere adottata, entro la generale cornice di ammissibilità prevista dalla legge, allorché, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, si ritenga che la medesima, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire alla menzionata rieducazione, prevenendo il pericolo di ricaduta nel reato. Ciò che assume rilievo, rispetto all’affidamento, è l’evoluzione della personalità registratasi successivamente al fatto-reato, nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale (Sez. 1, 33287/2013). Il processo di emenda deve essere significativamente avviato, ancorché non sia richiesto il già conseguito ravvedimento, che caratterizza il diverso istituto della liberazione condizionale, previsto dal codice penale (Sez. 1, 43687/2010). Se il presupposto dell’emenda non è riscontrato, o non lo è nella misura reputata adeguata, il condannato, se lo consentono il limite di pena e il titolo di reato, può essere comunque ammesso alla detenzione domiciliare «generica», alla sola condizione che sia scongiurato il pericolo di commissione di nuovi reati (Sez. 1, 14962/2009). Il fine rieducativo si attua, in tal caso, mediante una misura dal carattere più marcatamente contenitivo, saldandosi alla tendenziale sfiducia ordinamentale sull’efficacia del trattamento penitenziario instaurato rispetto a pene di assai contenuta durata. Per quel che concerne la semilibertà - che attua la decarcerazione solo parziale del condannato, ammesso a svolgere fuori dall’istituto, per parte del giorno, attività lavorativa, o altra attività risocializzante - l’ammissione al relativo regime presuppone, ove si tratti di pena infraquadriennale ma manchino i presupposti per disporre l’affidamento in prova, una prognosi favorevole, in relazione ai progressi purtuttavia compiuti, in ordine alla possibilità di un suo reinserimento, seppure graduale e parziale, nella società (cfr. art. 50, comma 4). Date queste condizioni, la semilibertà diviene essa stessa strumento del trattamento individualizzato, rispondendo alla finalità di emenda mediante la più avanzata prospettiva rieducativa che sono in grado di offrire, extra moenia, le attività di risocializzazione, anche appartenenti all’ambito del volontariato, che la sostanziano. Rientra nella discrezionalità del giudice di merito l’apprezzamento sull’idoneità o meno, ai fini della risocializzazione e della prevenzione della recidiva, delle diverse misure alternative in astratto concedibili (e l’eventuale scelta di quella ritenuta maggiormente congrua nel caso concreto). Le relative valutazioni non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazione adeguata e rispondente a canoni logici (Sez. 1, 652/1992) la quale non può prescindere da un’esaustiva, ancorché se del caso sintetica, ricognizione degli incidenti elementi di giudizio (Sez. 1, 48462/2019).

Esecuzione all'estero dell'affidamento

A seguito dell’entrata in vigore del DLGS n. 38/2016 il condannato può essere affidato in prova ai servizi sociali in uno degli Stati che ha dato attuazione alla decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008 in quanto l’affidamento in prova, quale misura alternativa alla detenzione, deve ritenersi assimilabile, al di là del dato letterale, a una "sanzione sostitutiva" come descritta dall’art. 2, lett. e) , DLGS 38/2016, ovvero a una sanzione (misura) che impone obblighi e impartisce prescrizioni compatibili con quelli elencati nel successivo art. 4 e che costituiscono di norma il contenuto del «trattamento alternativo al carcere (Sez. 1, 16942/2020).