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Art. 58-ter

Persone che collaborano con la giustizia

1. I limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 1 dell’art. 21, del comma 4 dell’art. 30-ter e del comma 2 dell’art. 50, concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, non si applicano a coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati. (1)

2. Le condotte indicate nel comma 1 sono accertate dal tribunale di sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione.

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 253/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi  avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo  ovvero  al  fine  di agevolare l’attività delle associazioni in  esso  previste,  possano essere concessi permessi premio anche in  assenza  di  collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Ha inoltre dichiarato in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art.  58-ter, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Rassegna di giurisprudenza

Competenza per le istanze presentate da collaboratori di giustizia

Dispone l’art. 16-noníes, comma 8, DL 8/1991: «Quando i provvedimenti di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono adottati nei confronti di persona sottoposta a speciali misure di protezione, la competenza appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona medesima ha eletto il domicilio a norma dell’articolo 12, comma 3-bis, del presente decreto». In questa cornice, deve rilevarsi che l’indicato art. 16-nonies, nel richiamare espressamente l’applicazione delle «misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni [...]», ai fini dell’individuazione della competenza della magistratura di sorveglianza, non consente alcuna distinzione fondata sulla natura trattamentale del beneficio penitenziario invocato, introducendo una deroga alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. dalla quale deriva la competenza funzionale della magistratura di sorveglianza di Roma. 3 Sulla base di queste considerazioni, la competenza generale della magistratura di sorveglianza di Roma per i collaboratori di giustizia deve considerarsi come la conseguenza di un’attribuzione di natura funzionale, che costituisce un’eccezione alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. e non è derogabile (Sez. 1, 4930/2020).

Utile collaborazione

Con la sentenza 253/2019 la Corte costituzionale ha concluso che non è irragionevole presumere che il condannato che non collabora con la giustizia mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria: infatti, una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, mentre non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. La menzionata e recente sentenza ha sottolineato che, nella fase di esecuzione della pena, assume ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere: da qui la necessità di riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso-premio. È certo possibile - scrive la Corte costituzionale - che il vincolo associativo permanga inalterato anche a distanza di tempo, per le peculiari caratteristiche del sodalizio criminale mafioso, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale quella che è espressa dalla collaborazione con la giustizia. Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento. Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione. Dunque, venuta meno, per come detto, la presunzione assoluta di persistenza dei legami con la criminalità organizzata, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata - da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza - dovrà rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo. Ciò significa - per utilizzare la parole della medesima Corte costituzionale - che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sarà superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, svolgendo d’ufficio una seria verifica non soltanto sulla condotta carceraria del condannato nel corso dell’espiazione della pena, ma altresì sul contesto sociale esterno in cui il detenuto sarebbe autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente ed episodicamente. Resta comunque ferma l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza ed il regime probatorio rafforzato dovrà altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non soltanto la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali: ed incomberà sullo stesso detenuto un onere di allegazione di elementi a favore o di veri e propri elementi di prova a sostegno della sua richiesta (Sez. 1, 3314/2020).

L’art. 4-bis reca una disciplina speciale, a carattere restrittivo, per la concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o di internati, che si presumono socialmente pericolosi in ragione del tipo di reato commesso; disciplina, la cui genesi risale alla stagione di emergenza in tema di lotta alla criminalità organizzata apertasi al principio degli anni ’90 dello scorso secolo, e il cui contenuto è stato, innumerevoli volte, modificato nel tempo. Già nella versione di origine - introdotta dall’art. 1 DL 152/1991, convertito dalla L. 203/1991 - l’art. 4-bis distingueva le figure criminose di riferimento in due “fasce”. Per i reati di “prima fascia” - comprendente, in allora, i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale - l’accesso alle misure era subordinato all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; per i reati di “seconda fascia” si richiedeva, in termini inversi dal punto di vista probatorio, la mancata emersione di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti. Erano parallelamente disposti aggravamenti istruttori, di natura obbligatoria, ancorché dall’esito non vincolante per la magistratura di sorveglianza. A seguito della riforma operata dal DL 306/1992, convertito dalla L. 356/1992, assunse un ruolo dirimente, nell’economia dell’istituto, la collaborazione con la giustizia. L’utile collaborazione, nei sensi indicati dall’art. 58- ter, divenne infatti, in rapporto ai delitti di “prima fascia”, condicio sine qua non per l’accesso ai benefici (salva la possibilità di ritenere sufficiente una collaborazione «oggettivamente irrilevante», ove al condannato fossero state concesse talune attenuanti, sintomatiche di una minore pericolosità). Senonché, nella contestuale riformulazione del catalogo dei delitti di “prima fascia”, il legislatore eliminò da esso i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, che entrarono a far parte della “seconda fascia”, il cui assetto non aveva subito modificazioni. Il nuovo ripensamento legislativo intervenne, su quest’ultimo punto, ad oltre dieci anni di distanza. Il 24 dicembre 2002 entrò infatti in vigore la L. 279/2002, che, operando la totale riscrittura dell’art. 4-bis, riportò in “prima fascia” i delitti in questione, con la conseguenza che - per la prima volta rispetto ad essi - la previa collaborazione utile con la giustizia divenne (e tuttora rappresenta, salvi i contemperamenti in seguito apportati dalla giurisprudenza costituzionale) condizione indispensabile per l’accesso ai benefici penitenziari. Senonché, l’art. 4 della citata L. 279/2002 introdusse, in correlazione, una disposizione di natura transitoria, prevedendo la non applicabilità della nuova condizione restrittiva alle «persone detenute», per i delitti di terrorismo ed eversione (e per le altre figure di reato, inserite ex novo in “prima fascia” dalla stessa legge), «commessi precedentemente alla data di entrata in vigore» della legge stessa. Tale clausola legislativa sancisce l’irretroattività della disciplina di maggior rigore, prendendo a discrimine la data del commesso reato, e ciò indipendentemente dal fatto che l’esecuzione fosse già iniziata alla stessa data. Né la giurisprudenza costituzionale (v., in particolare, sentenza 108/2004), né quella di legittimità (da ultimo, Sez. 1, 31853/2019), hanno mai dubitato che la menzionata disposizione transitoria, in bonam partem, tendesse a procrastinare l’applicazione del nuovo regime in modo da ricondurla ai fatti di reato posteriori alla sua vigenza, ed esclusivamente ad essi. Tale interpretazione è coerente con il significato testuale del precetto. Il fulcro di esso è nel riferimento, che fa da spartiacque, al commesso reato e alla data di quest’ultimo (sul punto, v. anche Sez. 1, 18022/2007). Come correttamente osservato da parte ricorrente, se, per l’ultrattività della disciplina previgente rispetto al 24 dicembre 2002, fosse altresì richiesta la preventiva instaurazione del regime detentivo, la norma transitoria si sarebbe limitata a prendere in considerazione tale elemento, destinato ad assorbire quello, logicamente antecedente, rappresentato dalla data del commesso reato. Lo stato di privazione della libertà personale, che la norma transitoria evoca, è da riferire non già all’entrata in vigore della novella legislativa, ma piuttosto alla data di presentazione dell’istanza volta alla concessione del beneficio penitenziario, sul normale presupposto che l’aspirante al beneficio medesimo - vietando l’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., per questa categoria di condannati, la sospensione dell’ordine di esecuzione - si trovi in condizione di detenzione, o almeno di internamento; ipotesi, quest’ultima, che l’art. 4, comma 1, L. 279/2002 evidentemente sottende. Porre allora in correlazione tale condizione, e la disciplina applicabile in sede intertemporale, sarebbe operazione esegetica errata. La conclusione si impone anche sotto il profilo sistematico, in quanto l’operatività del regime restrittivo disegnato dall’art. 4-bis, rispetto ai reati che vi ricadono, non dipende - in rapporto alla particolare soggettiva pericolosità di cui sono indice i reati stessi, in sé riguardati - dal previo assoggettamento del condannato alla pena o alla misura di sicurezza, che in certi casi potrebbe anche legalmente difettare. Nessuna reale ragione ordinamentale deponeva, dunque, perché la disciplina transitoria fosse modellata su tale, non determinante, né ineludibile, presupposto. Una tesi del genere striderebbe, infine, con il canone della ragionevolezza, che deve sempre guidare l’interprete. In materia di ordinamento penitenziario, le disposizioni legislative che individuano i delitti ostativi ai benefici, siccome relative alle sole modalità di espiazione della pena, sono di immediata applicazione anche ai fatti e alle condanne pregresse (SU, 24561/2006), ma il legislatore può derogare al principio mediante apposita regolamentazione transitoria (Sez. 1, 11580/2013), che moduli nel tempo gli effetti dell’inasprimento di disciplina, come avvenuto in occasione dell’emanazione della L. 279/2002. La soluzione di diritto intertemporale, da quest’ultima adottata, deve essere intesa in modo da risultare coerente con l’opzione di fondo prescelta, che rimanda al tempo del commesso reato; opzione, rispetto alla quale il parametro della concomitante detenzione, avulso dal raggiungimento di un adeguato stadio di percorso rieducativo, risulterebbe irrazionale, casuale ed eccentrico, e dunque da ripudiare in sede ermeneutica (Sez. 1, 3477/2020).

Ai fini della concessione dei benefici penitenziari per taluno dei delitti elencati nell’art. 4-bis, il presupposto dell’utile collaborazione previsto dall’art. 58-ter non deve necessariamente riguardare apporti informativi in ordine ai delitti per i quali è in esecuzione la pena. Il contributo richiesto si realizza quando la persona condannata abbia «aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». Viene in questo modo rappresentato un apporto avente carattere risolutivo rispetto a concreti esiti degli accertamenti sui fatti. La definizione normativa non esclude che, in presenza di indicazioni riguardanti la responsabilità di altri, ci si possa trovare ancora nella fase delle indagini preliminari. Anzi, vengono menzionati apporti ricostruttivi recepiti e valorizzati in relazione ad una prima attività svolta dalla sola polizia giudiziaria. Tuttavia, in ragione dei riferimenti alla decisività e concretezza del contributo rimane pur sempre necessario potere già contare su preganti verifiche e valutazioni di attendibilità, ovviamente secondo le modalità della fase. In questo modo potrà formularsi una ragionevole prognosi in ordine alla realizzazione - all’esito di un prevedibile vaglio giurisdizionale - di prove idonee a dimostrare i fatti oggetto delle accuse. In presenza di tali condizioni non è dunque necessario, ai fini dell’avverarsi dell’utile collaborazione di cui al citato art. 58-ter, che le iniziative derivanti dall’apporto fornito, secondo i tempi di volta in volta richiesti dalle caratteristiche dei fatti e dal genere di approfondimenti indispensabili, abbiano condotto già all’esercizio dell’azione penale o addirittura al giudizio di condanna (Sez. 1, 6764/2019).

Impossibilità o irrilevanza della collaborazione

In tema di concessione di benefici penitenziari (nella specie, permesso premio) a soggetti condannati per delitti ostativi di cui all’art. 4-bis, l’accertamento incidentale della collaborazione impossibile, devoluto al TDS non investe la valutazione sull’assenza di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, che spetta, invece, al giudice di sorveglianza che sarà investito della richiesta del beneficio (Sez. 1, 17599/2019).

L’ art. 4-bis, comma 1-bis, stabilisce che: «I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purchè siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonchè nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale». L’art. 58-ter, comma 1, stabilisce, altresì che, ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 4-bis, occorre tenere in considerazione pure coloro che: «anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». La giurisprudenza di legittimità ha, dal canto suo, stabilito che, ai fini del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di benefici penitenziari stabilite dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter e 2 della L. 203/1991, non sussiste un obbligo dell’autorità inquirente di sollecitare il condannato a collaborare con la giustizia e di indicare al medesimo i temi del suo possibile apporto informativo: non può, pertanto, configurarsi, in assenza di tali iniziative, un caso di impossibilità o irrilevanza della collaborazione (Sez. 5, 4773/2020).

La Corte costituzionale, con la sentenza 253/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, anche in via consequenziale, dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, oltre che per i delitti diversi ivi contemplati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Oggetto della censura di incostituzionalità è la presunzione assoluta della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata che si fa discendere dalla mancata collaborazione. Alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., infatti, l’assenza di collaborazione non può risolversi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena come conseguenza della mancata partecipazione a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato. In questo modo l’art. 4-bis realizza una “deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare...”. Ed è parimenti contrario all’art. 27, comma 3, Cost. il fatto che la richiesta di permesso premio debba essere dichiarata inammissibile in limine, senza che il magistrato di sorveglianza possa operare una valutazione in concreto della condizione del detenuto, perché un siffatto meccanismo può arrestare sul nascere il percorso risocializzante. La Corte costituzionale ha così sottratto all’applicazione del meccanismo ostativo di cui all’art. 4-bis la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio di cui all’art. 30-ter (Sez. 1, 52139/2019).

Accertamenti istruttori

L’art. 58-ter, comma 2, nel prevedere che le condotte indicate nel comma 1 sono accertate dal TDS, assunte le necessarie informazioni e sentito il PM presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione, rimette al tribunale di accertare sulla base degli atti acquisiti la sussistenza del requisito dell’impossibilità di qualsiasi attività collaborativa, al contempo però nulla disponendo sull’accertamento dell’ulteriore presupposto della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che, a sua volta, è condizione necessaria sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale. Anzi, il riferimento alle “condotte” quale oggetto dell’accertamento e la mancanza, diversamente da quanto si rileva nel comma due dell’art. 4-bis, di uno specifico riferimento agli organi istituzionalmente preposti a questa verifica inducono a individuare in questa ultima norma la fonte che disciplina l’accertamento della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata. È per questa lineare ragione, al contempo processuale e logica, che il disposto dell’art. 4-bis, comma 1-bis - lì dove stabilisce che i benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui [....] l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia - deve essere letto nel senso (già espresso) che compete all’organo investito della richiesta del beneficio penitenziario (magistrato di sorveglianza o TDS) procedere all’accertamento sulla esclusione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, quale concorrente ma anche autonoma condizione per la concessione dei benefici, sicché sarà il giudice investito della richiesta del beneficio, che sia competente a decidere in merito ad esso, a svolgere la fase acquisitiva delle corrispondenti fonti di conoscenza per il tramite del comitato previsto dal comma 2 del medesimo art. 4-bis (Sez. 1, 43274/2019).

In relazione a determinate tipologie di reato, l’art. 4-bis condiziona l’accesso ai benefici penitenziari all’accertamento dell’avvenuta collaborazione con la giustizia, rimesso alla competenza del tribunale di sorveglianza secondo le modalità procedurali stabilite dall’art. 58-ter. A mente di quest’ultima disposizione, infatti, il TDS, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione, accerta se il richiedente, anche dopo la condanna, si sia adoperato “per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”. A seguito delle sentenze della Corte costituzionale 306/1993, 357/1994 e 68/1995 sulle cosiddette collaborazioni “irrilevanti”, “inesigibili” o “impossibili”, assimilate alle collaborazioni effettive quali condizioni di ammissibilità del condannato per delitti ostativi ai benefici penitenziari (SU, 14/1999), la legge 23/12/2002, n. 279 ha sostituito l’originario art. 4 bis, comma 1, con gli attuali commi da 1 a 1-quater. Pertanto, secondo l’attuale regime normativo, all’accertamento della effettiva collaborazione sono specificamente equiparati, sul piano giuridico, i casi in cui “la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”, nonché i casi in cui “la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante”, perché la posizione marginale rivestita dal condannato all’interno dell’organizzazione criminale “non consente di conoscere fatti e compartecipi pertinenti a livello superiore. La collaborazione utile, secondo il consolidato orientamento di legittimità, non deve essere circoscritta ai soli reati compresi nel catalogo dell’art. 4-bis Ord. pen., ma deve ritenersi estesa a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati in quanto riconducibili a una “medesima risoluzione criminosa”, atteso che l’unicità del reato continuato postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e sul suo concreto ravvedimento, con riferimento a tutti i fatti e le responsabilità oggetto del processo sfociato nella sentenza definitiva (Sez. 1, 43391/2014). E tuttavia, per quanto di interesse in questa sede, deve ribadirsi, secondo l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza, che la collaborazione con la giustizia “non può essere generica, ma specificatamente riferita a fatti e reati oggetto della condanna in relazione alla quale si chiede il beneficio” (Sez. 1, 43659/2007), sicché “non può (...) essere pretesa la collaborazione, con conseguente rigetto dell’istanza di accertamento della sua impossibilità, per i delitti non compresi nelle condanne riportate dall’interessato, sia che si tratti di delitti per i quali il soggetto non è stato nemmeno indagato, sia per quelli per cui è stato assolto o prosciolto” (Sez. 1, 44163/2016). Invero, un’interpretazione dell’art. 4-bis, comma 1-bis, che volesse riferirsi al complesso delle situazioni e degli elementi di cui si presume che il condannato sia a conoscenza, in relazione alla propria posizione all’interno di gruppi di criminalità organizzata, potrebbe comportare l’assoluta indeterminatezza dei presupposti richiesti, con conseguente eccessiva discrezionalità per l’organo giudicante, conducendo a soluzioni in palese contrasto con il dettato costituzionale e con il diritto di difesa in particolare, in sostanza aprendosi la strada alla valorizzazione di fatti, circostanze, rapporti personali e collegamenti criminali, in relazione ai quali il condannato potrebbe non avere mai avuto la possibilità di difendersi in giudizio (Sez. 1, 40130/2011). E, in effetti, l’ordinanza impugnata ha del tutto genericamente fatto riferimento a fatti e episodi, non ulteriormente specificati, su cui il condannato sarebbe stato in grado di prestare un’utile collaborazione, impedendo all’interessato di svolgere compiutamente le proprie difese e, alla Corte di cassazione di verificare la logicità del percorso decisionale seguito dal provvedimento di diniego (Sez. 1, 7998/2019).

Ai fini della concessione dei benefici penitenziari per taluno dei delitti elencati nell’art. 4-bis, il presupposto dell’utile collaborazione previsto dall’art. 58-ter non deve necessariamente riguardare apporti informativi in ordine ai delitti per i quali è in esecuzione la pena. Il contributo richiesto si realizza quando la persona condannata abbia «aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’AG nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». Viene in questo modo rappresentato un apporto avente carattere risolutivo rispetto a concreti esiti degli accertamenti sui fatti. La definizione normativa non esclude che, in presenza di indicazioni riguardanti la responsabilità di altri, ci si possa trovare ancora nella fase delle indagini preliminari. Anzi, vengono menzionati apporti ricostruttivi recepiti e valorizzati in relazione ad una prima attività svolta dalla sola polizia giudiziaria. Tuttavia, in ragione dei riferimenti alla decisività e concretezza del contributo rimane pur sempre necessario potere già contare su preganti verifiche e valutazioni di attendibilità, ovviamente secondo le modalità della fase. In questo modo potrà formularsi una ragionevole prognosi in ordine alla realizzazione - all’esito di un prevedibile vaglio giurisdizionale - di prove idonee a dimostrare i fatti oggetto delle accuse. In presenza di tali condizioni non è dunque necessario, ai fini dell’avverarsi dell’utile collaborazione di cui al citato art. 58-ter, che le iniziative derivanti dall’apporto fornito, secondo i tempi di volta in volta richiesti dalle caratteristiche dei fatti e dal genere di approfondimenti indispensabili, abbiano condotto già all’esercizio dell’azione penale o addirittura al giudizio di condanna (Sez. 1, 6764/2019).

Al fine del superamento delle condizioni ostative alla fruizione dei benefici penitenziari stabilite dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter, gli elementi che qualificano tale collaborazione devono essere accertati dal giudice anche d’ufficio, ma la parte ha l’onere di allegare e di prospettare, almeno nelle linee generali, le circostanze idonee a dimostrare l’impossibilità della utile collaborazione, così da consentire l’esame delle relative richieste nel merito (Sez. 1, 50900/2018).

La qualità di collaboratore a norma dell’art. 58-ter non può formare oggetto di una pronuncia dichiarativa di preventivo riconoscimento di una condizione assimilabile ad uno status, ma deve essere accertata nell’ambito di un procedimento di merito attivato dalla richiesta di ottenimento di un beneficio in relazione al quale l’accertamento della condotta collaborativa costituisce presupposto per superare il divieto altrimenti posto dall’art. 4-bis. Il provvedimento del TDS che accerta preventivamente l’eventuale collaborazione con la giustizia del detenuto, anche in riferimento alla richiesta di benefici di competenza del magistrato di sorveglianza, sia autonomamente impugnabile con ricorso per cassazione. Orienta questa conclusione l’inestricabile situazione che si verrebbe a creare nel caso in cui la Corte di cassazione, adita dal condannato che si è visto rigettare dal magistrato di sorveglianza la richiesta di un provvedimento rientrante nella sua competenza (permesso premio, assegnazione al lavoro esterno) per aver il TDS escluso l’impossibilità della collaborazione, dovesse in accoglimento del ricorso ritenere viziata questa verifica. In questo caso il giudice di legittimità non potrebbe che annullare il provvedimento di rigetto e restituire gli atti al magistrato di sorveglianza per un nuovo esame dell’istanza, senza però poter incidere sul provvedimento negativo del Tribunale (non oggetto dell’impugnazione). Esame questo che il magistrato di sorveglianza non potrebbe che compiere sulla base dello stesso accertamento ritenuto dalla Cassazione viziato. L’art. 58-ter, secondo comma, nel prevedere che «Le condotte indicate nel comma 1 sono accertate dal tribunale di sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione», rimette al giudicante di verificare sulla base degli atti a disposizione la sussistenza del requisito della impossibilità di qualsiasi attività collaborativa (Sez. 1, 50457/2018).

A una coerente interpretazione sistematica delle norme che demandano al magistrato di sorveglianza di provvedere in materia di permessi premio (art. 30-ter, comma 1) e al TDS di provvedere sul reclamo avverso il provvedimento relativo ai permessi premio (art. 30-ter, comma 7) e all’accertamento delle condotte di collaborazione con la giustizia (art. 58-ter, comma 2), consegue che tale accertamento, nel caso di permesso premio, deve essere ritenuto spettante al magistrato di sorveglianza ’in prima battuta’ e, in sede di reclamo, al tribunale di sorveglianza chiamato a valutare il corretto esercizio del suo potere delibativo da parte del primo giudice», e ha osservato che, posta la delibazione preliminare da parte del magistrato di sorveglianza delle condizioni di ammissibilità del chiesto beneficio, «in ogni caso la valutazione delle condotte di collaborazione con la giustizia, come indicate nel comma 1 dell’art. 58-ter, è riassorbita dall’esame condotto dal TDS, investito del reclamo, delle questioni con lo stesso prospettate (Sez. 1, 37006/2018).

Il provvedimento del TDS che accerta preventivamente l’eventuale collaborazione con la giustizia del detenuto, anche in riferimento alla richiesta di benefici di competenza del magistrato di sorveglianza, sia autonomamente impugnabile con ricorso per cassazione. Orienta questa conclusione l’inestricabile situazione che si verrebbe a creare nel caso in cui la Corte di cassazione, adita dal condannato che si è visto rigettare dal magistrato di sorveglianza la richiesta di un provvedimento rientrante nella sua competenza, ad esempio un permesso premio o l’assegnazione al lavoro esterno, per avere il tribunale di sorveglianza escluso l’impossibilità della collaborazione, dovesse in accoglimento del ricorso ritenere viziata questa verifica. In questo caso il giudice di legittimità non potrebbe che annullare il provvedimento di rigetto e restituire gli atti al magistrato di sorveglianza per un nuovo esame dell’istanza, senza però poter incidere sul provvedimento negativo del tribunale, in quanto non investito dall’impugnazione. Esame questo che il magistrato di sorveglianza non potrebbe che compiere sulla base dello stesso accertamento ritenuto dalla Corte di cassazione viziato. Sotto altro aspetto, l’art. 58-ter, comma 2, nel prevedere che “Le condotte indicate nel comma 1 sono accertate dal tribunale di sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione”, rimette al giudicante di verificare sulla base degli atti a disposizione la sussistenza del requisito della impossibilità di qualsiasi attività collaborativa. La norma, invece, nulla dice sull’accertamento da parte del tribunale dell’ulteriore presupposto della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che, a sua volta, “è condizione necessaria sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale”. Ed anzi, il riferimento alle “condotte” quale oggetto dell’accertamento e la mancanza, diversamente da quanto figura nell’art. 4-bis, comma 2, di uno specifico riferimento agli organi istituzionalmente preposti a questa verifica, induce a individuare in questa ultima norma la fonte che disciplina l’accertamento della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata. In questo senso, l’art. 4, comma 1-bis nel prevedere che “I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purchè siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui (....) l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”, va letto nel senso che spetta all’organo investito della richiesta di un beneficio penitenziario, magistrato di sorveglianza o TDS, procedere all’accertamento sulla esclusione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. E la previsione del medesimo art. 4-bis, comma 2, secondo cui “il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato” convalida tale interpretazione, espressamente individuando la competenza del giudice di sorveglianza investito della richiesta del detenuto ad attivare l’interpello - obbligatorio seppur non vincolante - del CPOSP, al fine - appunto - dell’accertamento di tali collegamenti (Sez. 1, 19163/2018).