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Art. 58-quater

Divieto di concessione di benefici

1. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall’articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell’articolo 385 del codice penale.

2. La disposizione del comma 1 si applica anche al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa ai sensi dell’art. 47, comma 11, dell’art. 47-ter, comma 6, o dell’art. 51, primo comma. (1)

3. Il divieto di concessione dei benefici opera per un periodo di tre anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca indicato nel comma 2.

4. I condannati per i delitti di cui agli articoli 289-bis e 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis se non abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni. (3)

5. Oltre a quanto previsto dai commi 1 e 3, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI non possono essere concessi, o se già concessi sono revocati, ai condannati per taluni dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, nei cui confronti si procede o è pronunciata condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale ovvero durante il lavoro all’esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione.

6. Ai fini dell’applicazione della disposizione di cui al comma 5, l’autorità che procede per il nuovo delitto ne dà comunicazione al magistrato di sorveglianza del luogo di ultima detenzione dell’imputato.

7. Il divieto di concessione dei benefici di cui al comma 5 opera per un periodo di cinque anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca della misura.

7-bis. L’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, del codice penale. (2)

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 436/1999, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui si riferisce ai minorenni.

(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 79/2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non prevede che i benefici in esso indicati possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati che, prima della entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti.

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 149/2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato e, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 289-bis del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato.

Rassegna di giurisprudenza

Divieto di concessione: non consegue alla revoca dell'affidamento in prova in casi particolari di cui all'art. 94 DPR 309/1990

Il divieto triennale ex art. 58-quater di concessione di benefici penitenziari al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una misura alternativa alla detenzione, non opera nell'ipotesi di revoca dell'affidamento in prova in casi particolari di cui all'art. 94 DPR 309/1990, in quanto il fallimento di quest'ultimo, oltre a non essere espressamente contemplato fra le misure “pregiudicanti” di cui al comma 2 dell'art. 58-quater citato, in considerazione della peculiare situazione dei soggetti che ne fruiscono, non può determinare alcuna presunzione assoluta di incapacità del condannato di conformarsi ai benefici che hanno finalità di rieducazione comune. (Nel caso di specie, la Corte ha stabilito che l’esclusione di qualsiasi automatismo preclusivo tra la revoca della misura dell'affidamento terapeutico, conseguente alla violazione delle relative prescrizioni, e la possibilità di ammissione a una delle misure alternative cd. comuni previste dagli artt. 47 e ss. - sia pure nel limitato ambito temporale di un triennio - non consentiva la declaratoria di inammissibilità de plano delle istanze di affidamento in prova al servizio sociale o di detenzione domiciliare formulate dal ricorrente, ma imponeva al TDS di procedere a una concreta valutazione di idoneità delle misure richieste a contemperare le esigenze di rieducazione sociale del condannato con quelle di tutela della collettività, tenendo conto anche - in chiave prognostica - della natura e gravità delle violazioni delle prescrizioni della precedente misura commesse dall’istante, da compiersi all'esito di un giudizio che desse spazio al contraddittorio delle parti) (Sez. 1, 13764/2022).

Divieto di concessione conseguente alla commissione del reato di evasione

Il presidente del TDS che, procedendo ai sensi dell’art. 666 comma 2 c.p.p., dichiari l’inammissibilità della richiesta di ammissione a misure alternative alla detenzione, ritenendo ostativo, ai sensi dell’art. 58-quater, il mancato decorso di un triennio dall’evasione, incorre in una violazione di legge posto che la norma citata, laddove preclude l’applicazione di misure alternative a chi, nel triennio precedente, abbia commesso una evasione di cui sia stato riconosciuto colpevole, non ha introdotto una causa ostativa, ma onera il giudice, in presenza di una condanna per questo titolo di reato, di un’analisi particolarmente approfondita sulla personalità del condannato e sulla sua effettiva e perdurante pericolosità sociale alla luce delle condotte rilevanti ai sensi dell’art. 385 cod. pen. (La Corte, nel motivare la sentenza de qua, ha ricordato anche l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma offerta dalla Consulta con sentenza n. 189 del 2010). (Sez. 1, 553/2022).

Il divieto enunciato dall’art. 58-quater in relazione alla concessione dei benefici penitenziari al condannato che sia stato ritenuto colpevole del reato previsto dall’art. 385 c.p., presuppone che l’affermazione di responsabilità per tale reato sia intervenuta con sentenza irrevocabile (Sez. 1, 22865/2011) e dà corpo a una preclusione che può operare solo per i fatti riguardanti l’esecuzione della pena e sempre in modo non assoluto (Sez. 1, 3768/2020).

Va riconosciuta l’equiparabilità alla detenzione domiciliare, di cui all’art. 47-ter, del regime detentivo che si instaura, ai sensi dell’art. 656, comma 10, c.p.p., nei confronti del detenuto già agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, con i conseguenti effetti: così, l’eventuale, successiva revoca degli arresti domiciliari, quando non sia ancora intervenuta la decisione del TDS circa l’applicazione di una delle previste misure alternative, comporta l’operatività del divieto di concessione di tali misure, stabilito dall’art. 58-quater, comma 2 ((Sez. 1, 17408/2019).

Divieto di concessione conseguente alla revoca di una misura alternativa

Secondo il combinato disposto dei primi tre commi dell’art. 58-quater, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi, per la durata di tre anni decorrenti dall’adozione del provvedimento di rigore, al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una misura alternativa secondo le previsioni dei precedenti articoli 47, comma 11, 47-ter, comma 6, e 51, comma 1. Per quel che riguarda l’instaurazione dei regimi alternativi alla detenzione in senso proprio, balza subito evidente la corrispondenza biunivoca, che tali disposizioni istituiscono, a partire da un’intervenuta antecedente revoca, tra le misure temporaneamente precluse per effetto di quest’ultima e le misure idonee a determinare l’effetto preclusivo. Poiché, rispetto alla misura “pregiudicata”, è testuale il riferimento al solo affidamento in prova ordinario, regolato dall’art. 47. - tanto che è pacifico, ormai, come già sottolineato, che l’ostatività non si riferisca al caso in cui si decida della concessione dell’affidamento terapeutico, che rinviene fonte autonoma di disciplina (il Testo unico sugli stupefacenti, e segnatamente il suo art. 94) - il dato esegetico letterale lascia in realtà propendere proprio per la tesi che analoga limitazione valga anche ai fini dell’individuazione della misura “pregiudicante”. E, del resto, se il legislatore avesse voluto stabilire altrimenti al riguardo, sarebbe stato ragionevolmente più esplicito, ovverosia avrebbe fatto diretto riferimento, nella situazione inversa, alla revoca dell’affidamento in prova in quanto concesso anche nelle particolari forme previste dalla legge speciale. 5.2. Si obietta, in proposito (da ultimo, Sez. 1, 31053/2017), che l’art. 94, comma 6, opera un generico rinvio, «per quanto non diversamente stabilito», alla disciplina di ordinamento penitenziario. Sarebbe dunque in forza di tale rinvio che l’art. 47, comma 11, si renderebbe immediatamente applicabile all’affidamento terapeutico, privo di una diversa e autonoma disciplina in tema di revoca, sicché il riferimento normativo operato dall’art. 58-quater, comma 2, verrebbe ad individuare entrambe le misure nel segno della comune ostatività. Tale ragionamento non può essere condiviso. Esso segna, anzitutto, un ampliamento della latitudine operativa di una disposizione penale in malam partem, che urta con la sua natura di norma di stretta interpretazione, insuscettibile come tale di applicazione al di fuori delle ipotesi espressamente previste (Sez. 1, 38040/2019). Siffatta estensione interpretativa deve ritenersi non ammessa anche perché distonica rispetto al canone esegetico per cui, in caso di disposizione precettiva, che richiami altra disposizione, il richiamo non può essere ipso iure, e senza adeguati elementi sistematici di supporto- diretto a ricomprendere le discipline ulteriori, che alla disposizione richiamata facciano parimenti riferimento. Non si può, in secondo luogo, dimenticare che il rinvio, operato dalla legge speciale ai casi ordinari di revoca dell’affidamento, incontra il limite della compatibilità delle due regolamentazioni, come risulta dall’inciso testuale sopra menzionato («per quanto non diversamente stabilito») e dalla logica formale dell’integrazione tra disciplina ordinaria e disciplina speciale. In questa prospettiva - se è vero che la revoca dell’affidamento in casi particolari mutua dallo schema ordinario le forme procedimentali e i presupposti sostanziali, tra i quali ultimi rileva (ai sensi, appunto, dell’art. 47, comma 11) la contrarietà della condotta dell’affidato «alla legge e alle prescrizioni dettate», tale che la condotta stessa «appaia incompatibile con la prosecuzione della prova» - è lo speciale contenuto di quelle prescrizioni che rende peculiare l’istituto della revoca nelle ipotesi previste dall’art. 94 DPR 309/1990. Si è detto che tali prescrizioni rivestono specifica valenza riabilitativa e terapeutica, perseguendo la finalità precipua di recuperare il condannato liberandolo dalla dipendenza dalle sostanze di abuso. Il fallimento, o anche solo il mancato efficace perseguimento di un tale obiettivo, in rapporto anche alla compliance dimostrata dall’affidato rispetto al trattamento e sempre fuori di ogni automatismo (Sez. 1, 27711/2013), è dunque principalmente alla base di una decisione di revoca della misura di cui all’art. 94, anche indipendentemente da comportamenti del condannato di segno propriamente trasgressivo. Ecco allora che l’istituto della revoca assume, nel caso in esame, valenza sanzionatoria solo eventuale. Il che rende l’istituto stesso, anche sotto questo aspetto, non propriamente ragguagliabile al modello ordinario di riferimento e ne impedisce l’integrale assimilazione in punto di disciplina degli effetti. Non solo, dunque, mancano elementi idonei di contesto a sostegno dell’interpretazione estensiva del richiamo che l’art. 58-quater opera all’undicesimo comma del precedente art. 47, ma dall’analisi logico-sistematica l’interprete agevolmente ne ricava di contrari, in grado di validare in via definitiva l’opzione ermeneutica di tipo testuale. In conclusione, deve ritenersi che la preclusione stabilita dall’art. 58- quater, comma 2, - secondo cui le misure alternative di cui al primo comma non possono essere concesse, per la durata di cui al terzo comma, al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una misura alternativa - non operi ove la revoca abbia riguardato l’affidamento in prova in casi particolari ai sensi dell’art. 94 DPR 309/1990 (Sez. 1, 75/2020).

Se la ragione del divieto di cui all’art. 58-quater, comma 2, poggia «oltre che in una generica efficacia deterrente della sanzione con riguardo alla possibile violazione delle prescrizioni, essenzialmente nella presunzione legislativa che chi abbia violato le prescrizioni di un regime totalmente o parzialmente extracarcerario si dimostri inidoneo ad un trattamento alternativo che ha un contenuto in qualche modo analogo, e suppone l’adesione del soggetto all’iter di risocializzazione propostogli» - detta ragione «non può assistere l’estensione del divieto, conseguente alla revoca di una misura alternativa ordinaria, all’affidamento terapeutico, perché in questo caso il programma, appunto terapeutico, di recupero è essenziale alla misura e il preminente intento di cura dello stato di tossicodipendenza non potrebbe ritenersi ragionevolmente paralizzato dall’esito negativo di una ’prova di tutt’altro genere, in nulla mirata sul medesimo stato di dipendenza» (Sez. 1, 75/20).

L’art. 58-quater, comma 2, stabilisce il divieto di applicazione di altra misura, ossia testualmente dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47), della detenzione domiciliare (art. 47-ter), della semilibertà (art. 51), quando il condannato abbia subito la revoca di quella precedentemente applicatagli: in tale situazione versava certamente il ricorrente, il quale aveva subito la revoca dell’affidamento in prova terapeutico. Il principio di diritto, richiamato da costui, alla cui stregua il divieto di nuova concessione di benefici penitenziari al condannato, nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una misura alternativa, previsto dall’art. 58-quater, non opera per l’affidamento in prova in casi particolari di cui al DPR 309/1990, art. 94, non vale nella situazione inversa, nel senso che la revoca disposta per la misura di affidamento terapeutico preclude, nel triennio decorrente dalla data di ripristino della custodia o dell’esecuzione o dalla data di revoca della misura, la concessione di altra misura alternativa di tipo ordinario. Tanto perché, se l’esito negativo di altra misura, non modulata, a differenza dell’affidamento terapeutico, sullo stato di tossicodipendenza, non può paralizzare ragionevolmente le finalità perseguite da misura mirata proprio su detto stato, deve ritenersi consequenziale il rilievo della inoperatività di tale ratio ove, come nella specie, venga in considerazione la situazione inversa di richiesta di concessione di misura alternativa ordinaria (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà) a seguito di revoca disposta, nei confronti del richiedente, della misura dell’affidamento terapeutico. Ed infatti, sotto il profilo sistematico, nessuna ratio desumibile dal sistema giustifica, una volta fallito l’affidamento in casi particolari, la concessione di un affidamento ordinario o di una misura aspecifica prima del decorso del triennio (Sez. 7, 41478/2019).

Se è vero che l’art. 58-quater impedisce, in caso di revoca di una misura alternativa alla detenzione, la nuova concessione di taluno dei benefici penitenziari ivi indicati per il periodo di tre anni dalla revoca, deve, nondimeno, escludersi che la citata disposizione possa essere applicata in conseguenza di un provvedimento di espulsione. Anche a prescindere dal fatto che l’espulsione come sanzione alternativa alla detenzione non si configura, propriamente, come un “beneficio”, trattandosi di una misura amministrativa atipica, finalizzata a evitare il sovraffollamento penitenziario, significativamente incidente sulla libertà personale (Sez. 1, 44143/2016), appare assorbente il rilievo secondo cui la disciplina dettata dall’art. 58-quater, avendo ad oggetto dei limiti alla ordinaria fruizione di taluni benefici penitenziari, deve ritenersi di stretta interpretazione, come tale non suscettibile di essere applicata al di fuori delle ipotesi da essa espressamente previste (individuabili nell’assegnazione al lavoro all’esterno, nei permessi premio, nell’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47, nella detenzione domiciliare e nella semilibertà) (Sez. 1, 38040/2019).

Si ritiene che il mancato riferimento espresso al caso dell’affidamento terapeutico nell’art. 58-quater, comma 2, (disposizione che prevede le ipotesi di revoca delle misure alternative in chiave di divieto di concessione di benefici) renda inapplicabile tale norma limitativa, non potendosi ammettere un’interpretazione analogica in malam partem, lasciando libero il tribunale di sorveglianza di valutare la meritevolezza o meno, in concreto, del beneficio richiesto (Sez. 1, 32286/2018).

La pronuncia dell’ordinanza di revoca di una delle misure alternative individuate dall’art. 58 -quater, comma 2, ancor prima che il provvedimento divenga definitivo, è ostativa alla concessione dell’ulteriore misura alternativa fra quelle indicate nel comma 1, dal momento che il comma 3 individua il dies a quo nel momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca indicato nel comma 2 (Sez. 1, 15548/2019).

Divieto di concessione per i condannati cui sia stata applicata la recidiva reiterata

Il comma 7-bis, inserito nel testo dell’art. 58-quater, preclude l’ammissibilità alle misure alternative alla detenzione ai condannati, cui sia stata applicata la recidiva reiterata, che ne abbiano già beneficiato ( “L’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, del codice penale"). È stato precisato che, trattandosi di norma non penale sostanziale, si applica secondo il principio tempus regit actum, e quindi la preclusione introdotta dalla norma si applica anche con riferimento all’esecuzione di pene inflitte con sentenze divenute irrevocabili prima dell’entrata in vigore della norma di cui trattasi (Sez. 1, 10.6.2008). La Corte costituzionale, riconoscendo l’operatività del principio sopra indicato, ha dichiarato la illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede la concedibilità dei benefici penitenziari “ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della legge n. 251/2005 abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti” (Corte costituzionale, sentenza 79/2007; Sez. 1, 55465/2017). Successivamente, è stata ritenuta la conformità ai principi costituzionali della norma in esame ove interpretata nel senso che “l’esclusione dal beneficio operi in modo assoluto solo quando il reato espressivo della recidiva reiterata sia stato commesso dopo la sperimentazione della misura alternativa, avvenuta in sede di esecuzione di una pena, a sua volta irrogata con applicazione della medesima aggravante” (Corte costituzionale, sentenza 291/2010; Sez. 1, 29.11.2011). Dunque, il contenuto precettivo della norma è nel senso, quanto ai soggetti applicabili, che la preclusione introdotta non opera nei confronti dei condannati che alla data di entrata in vigore della norma avessero positivamente concluso la misura alternativa, così conseguendo la rieducazione che costituiva l’obiettivo della misura concessa; inoltre, quanto ai requisiti costitutivi dell’effetto preclusivo, è richiesto, in via cumulativa, che la prima misura alternativa fosse stata concessa con riferimento ad una condanna rispetto alla quale era stata applicata la recidiva reiterata e che dopo la conclusione della prima misura alternativa il soggetto abbia commesso nuovo reato rispetto al quale sia stata applicata la recidiva reiterata. Si deve aggiungere, con riferimento alla nozione di “applicazione” della recidiva reiterata, che è consolidata la giurisprudenza che ritiene applicata dalla sentenza di condanna la menzionata circostanza aggravante nel caso in cui sia stata riconosciuta e considerata nel trattamento sanzionatorio (SU, 23.6.2016, Sez. 7, 13.12.2016). In particolare, con la riforma della disciplina della prescrizione, introdotta con L. 251/2005, ai fini della determinazione del termine ordinario e massimo della prescrizione non si tiene conto del giudizio di comparazione tra circostanze, e che la recidiva reiterata, una volta ritenuta in sentenza, va considerata, e quindi applicata, ai fini del calcolo dei termini prescrizionali, a prescindere dal giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti e dunque anche in caso di giudizio di sub-valenza della recidiva rispetto a circostanze attenuanti (Sez. 1, 17627/2019).