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‘Compliance’ e diritto penale economico

dai “modelli 231” agli obblighi organizzativi per la prevenzione della crisi d’impresa nel d.lgs. N. 14/2019
La città muta - Luci (VI)
Ph. Anuar Arebi / La città muta - Luci (VI)

*Contributo sottoposto con esito positivo a referaggio secondo le regole della rivista

 

Abstract

Il lavoro analizza le prospettive della ‘compliance’ nel diritto penale dell’insolvenza: sia sul versante della politica criminale, sia sulle possibili ricadute dommatiche. La riforma delle procedure concorsuali, varata nel 2019 col nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, pone al centro della disciplina i modelli e le procedure organizzative di prevenzione della crisi d’impresa, finalizzate a cogliere i segnali d’allerta della crisi in vista di una sua tempestiva risoluzione. Il nuovo modello organizzativo e gestionale dell’impresa che è imposto agli organi societari appare, per molti versi, corrispondente ai modelli organizzativi di cui al d.lgs. n. 231/01. In questo saggio vengono analizzati, da un lato, i riflessi che questo nuovo modello di gestione del rischio-insolvenza promette di avere sui meccanismi di imputazione e di esclusione della responsabilità penale per i reati fallimentari. Dall’altro lato, in prospettiva critica, si evidenziano i possibili spunti per una più attenta e moderna rimodulazione dell’approccio sanzionatorio, fra premialità e riparazione dell’offesa. Prospettiva, questa, che ad oggi appare incompiuta e, fra l’altro, marca una significativa distanza rispetto al “sistema 231”.

 

Abstract

The essay analyzes the perspectives of compliance in insolvency criminal law: both on the side of criminal policy and on the possible effects on legal theory. The new reform of insolvency law launched on 2019 with the Code of company crisis and insolvency, places at the center of discipline the organizational models and procedures for the prevention of business crisis, aimed at capturing the warning signs of the default in view of its timely resolution. The new organizational and management models of the company that is imposed by law, appears, in many ways, to correspond to the organizational models referred to in d.lgs. n. 231/01. This paper shows, on the one hand, the effects that this new risk-insolvency management models promises to have on the rules of legal imputation and exclusion of criminal liability for bankruptcy offences. On the other hand, from a critical point of view, it shows possible ideas are highlighted for a more careful and modern remodeling of the sanctioning approach, between the rewarding and reparation of the offense. This last perspective, which to date appears incomplete and marks a significant distance from the “231 legal system”.

 

Sommario

1. Premessa

2. I principi di adeguatezza organizzativa, monitoring e alert nel codice della crisi d’impresa

2.1. Risk assesment e risk management nel codice della crisi d’impresa

3. I riflessi del codice della crisi d’impresa sulla posizione di garanzia degli amministratori

3.1. (Segue): agente modello e segnali d’allarme

4. I riflessi del codice della crisi d’impresa sulla posizione di garanzia dei sindaci e dei revisori contabili

5. I riflessi del Codice della crisi d’impresa sul perimetro della bancarotta semplice

6. I riflessi del codice della crisi d’impresa sulla bancarotta fraudolenta patrimoniale

7. Compliance: d.lgs. n. 231/01 e codice della crisi d’impresa a confronto

7.1. La premialità: incentivi penali nel codice della crisi d’impresa e nel d.lgs. n. 231/01

7.2. Il ruolo dell’autonomia privata

8. Compliance e riparazione dell’offesa: spunti per una politica criminale razionale ed efficiente in ambito economico.

 

 

1. Premessa

Il nuovo Codice della crisi d’impresa – approvato col d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, e poi sottoposto a interventi correttivi – rappresenta una importante cartina al tornasole per il penalista, non tanto per la (incomprensibile) scelta di non aver voluto riformare i reati concorsuali[1] quanto per i riflessi sistemici che proietta sul terreno della compliance: quivi si coglie l’ennesimo tassello di una nuova politica criminale sul versante dei reati economici, sino al punto da confermare – come acutamente colto in letteratura – la indifferibile doverosità di un più generale ripensamento di non poche categorie della dogmatica penale[2].

Completando un percorso già avviato, il codice della crisi d’impresa recide definitivamente il cordone ombelicale con il r.d. n. 267/42[3], e individua quale obiettivo primario la salvaguardia e la continuità dell’impresa, che pertanto diviene il polo gravitazionale della nuova disciplina concorsuale: l’epilogo liquidatorio non è la semplice e scontata extrema ratio ma, ben più in profondità, rappresenta il fallimento di un complesso sistema di strumenti preordinati alla tempestiva rilevazione dei primordi della crisi nell’ottica della sua neutralizzazione.

Detto diversamente, la consapevolezza del valore economico-sociale dell’impresa e dunque la necessità della salvaguardia della sua esistenza e della sua posizione sul mercato impongono una nuova vision al diritto dell’economia: il default è un rischio consustanziale all’iniziativa economica che, pertanto, deve essere affrontato e risolto prima ancora che esso degeneri nell’insolvenza conclamata. Di qui, la messa in campo di strumenti e procedure interamente calibrate in una prospettiva, di segno prevenzionale, di individuazione e gestione dei rischi nell’ottica del loro sradicamento: e fra questi, il principale strumento è individuato nel sistema, organizzativo e procedurale, di monitoraggio, rilevazione e neutralizzazione dei prodromi della crisi[4].

Ecco, allora, che il nuovo Codice della crisi d’impresa rivela la sua omogeneità culturale a un modello che è già, da tempo, penetrato nel nostro ordinamento giuridico con importanti effetti sul diritto penale dell’economia: la prevenzione dei rischi connessi alla gestione d’impresa.

Ovviamente, non si tratta di percorsi lineari, privi di contraddizioni e/o effetti collaterali indesiderati. In primo luogo, l’intrinseca peculiarità dei settori di volta in volta interessati si riflette sulle tecniche normative che ne delineano gli assi portanti e ne definiscono gli interessi su cui polarizzare la tutela. In secondo luogo, il ruolo necessariamente sussidiario del diritto penale economico fa si che esso assuma a obiettivi di tutela trame valoriali intessute da altri rami dell’ordinamento giuridico, le quali, pertanto, sono chiamate ad assumere delicate declinazioni e concretizzazioni nell’arena della giustizia penale[5]. In terzo luogo, le opzioni ermeneutiche coltivate dalla giurisprudenza penale e la sempre più decisa attenzione ad una sfera di criminalità, quella degli affari, che sino a qualche decennio addietro si segnalava per la sua invisibilità (sociale, ancor prima che giudiziaria).

Sicché è del tutto naturale che queste modellistiche presentino fisiognomiche complesse. Talvolta convivono tratti ‘ingiunzionali’ e ‘premi’: si pensi alle contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro, ove l’azione penale è sospesa in attesa che l’imprenditore adempia alle prescrizioni fornite dall’autorità amministrativa preposta al controllo; si pensi, ancora, ai progetti di bonifica ambientale che, ove puntualmente realizzati, assicurano la non punibilità all’imprenditore responsabile materiale dell’inquinamento (e financo a quello che non lo ha causato, ma si è trovato ad operare in un sito già contaminato). Tal altra, domina la prospettiva del premio per una ‘cooperazione’ post-factum: si pensi, ad esempio, alle cause di non punibilità e alle generose attenuanti per il pagamento dell’imposta evasa (a seconda del delitto tributario e del momento in cui avviene il pagamento) e per la riparazione dell’offesa; e altrettanto è a dirsi – con l’adesione della legge n. 3/2019 al carrot-stick model – in materia di corruzione, ove alle più robuste cornici sanzionatorie e all’irrigidimento dell’accesso alle misure alternative corrispondono la non punibilità e consistenti sconti di pena in caso di collaborazione processuale e restituzione del profitto[6].

Le peculiari sfaccettature – solo talune delle quali, qui esemplificate – sono accomunate dal fatto che la pena, ossia la risposta par excellence del diritto penale classico, ha perduto la sua esclusività: essa interviene con tutta la sua forza solo in via sussidiaria quando cioè non vi è stata la riparazione dell’offesa; ovvero interviene il suo simulacro – grazie alla sua riduzione, alla sua sospensione o alla sua sostituzione con altre misure – quando la riparazione è tardiva o parziale; e infine essa cede il suo posto quando, al contrario, la riparazione e la collaborazione del reo soddisfano appieno le aspettative del legislatore penale.

Ma tutto ciò rappresenta solo la superficie: al di sotto si agita qualcosa di più profondo e interessante. Da un lato, la progressiva compartecipazione del privato alla definizione di regole di comportamento che, eventualmente e successivamente, saranno oggetto di valutazione giudiziale in caso di imputazione del reato. Dall’altro lato, l’implementazione di una logica, pattizia ed economica, che vede la realizzazione del fatto-reato e la relativa punizione come un esito fallimentare e persino inefficiente del sistema giuridico (sostanziale e processuale), e che al contrario punta sulla creazione di quelle condizioni al contorno che riescano a prevenire la commissione dell’illecito così assicurando l’obiettivo di una tutela maggiormente efficiente dei valori economici e sociali (impresa, mercato, occupazione, ricchezza e benessere)[7].

Al centro di tale ‘filosofia’ si colloca una consapevolezza: la criminalità di impresa non è solo un problema di individui, quanto piuttosto – e principalmente – un problema di organizzazione. Una caratteristica, questa, che - come acutamente colto[8] – finisce col generare esternalità negative: o perché le armi del diritto penale classico, alla perenne ricerca dell’individuo responsabile delineato dalle fattispecie monosoggettive, si rivelano spuntate; o perché – e di rimando - innesca le ben note forzature giurisprudenziali in tema di dolo e posizione di garanzia. Esternalità tutte accomunate dal fatto che – come i cultori delle discipline aziendalistiche e gius-economiche ben sanno - l’impresa è una organizzazione di mezzi, uomini e risorse finalisticamente proiettata verso un obiettivo: e i processi produttivi, al pari di quelli decisionali, sono ormai multilivello (spesso delocalizzati geograficamente e dunque normativamente) e sempre più spersonalizzati. Di qui, la necessità anche per il penalista di rivolgersi non solo ai precetti legali ma soprattutto alle procedure, ai modelli, alla organizzazione che segnano il volto reale e dinamico di una impresa.

Il cerchio trova così la sua composizione. Al diritto penale il compito irrinunziabile di stabilire i precetti, le pene e le sue alternative. Al diritto dell’economia si chiede di definire, in chiave preventiva, le cornici e gli obiettivi di gestione e neutralizzazione dei rischi. All’autonomia privata si affida il compito, solo in apparenza ancillare, di definirne i contenuti e l’impegno (che a seconda dei casi assume la veste di obbligo: così, ad esempio, nel d.lgs. n. 81/08, e nel Codice della crisi d’impresa; oppure di onere: così nel d.lgs. n. 231/01) ad implementarli in concreto. Al giudice penale, quale ultima ed eventuale istanza, il difficilissimo compito di valutare le ragioni del fallimento del sistema di gestione e prevenzione del rischio. E qui si misura, in definitiva, l’efficienza e persino il futuro di questa nuova vision: la commissione del reato-presupposto costituisce la spia di un possibile default del sistema preventivo, e al giudice penale si chiede di resistere alle sirene (accattivanti perché gravide di semplificazioni probatorie) dell’accertamento ex-post.

 

2. I principi di adeguatezza organizzativa, monitoring e alert nel codice della crisi d’impresa

Lungo lo sfondo sommariamente evocato si inserisce il nuovo Codice della crisi che, ponendosi l’obiettivo primario della salvaguardia dell’impresa e del suo ruolo nel mercato, affida tutte le sue chances agli strumenti di adeguata organizzazione e alle procedure di tempestiva rilevazione, gestione e composizione della crisi.

La posta in gioco è alta: all’imprenditore pertanto si impongono dei veri e propri obblighi giuridici ad ampio spettro.

L’art. 2 del Codice stabilisce, fra i doveri del debitore, l’obbligo (di intensità modulare e corrispondente alla tipologia d’impresa, se individuale o collettiva, e alla complessità del tipo di società) di adottare misure idonee a rilevare tempestivamente la crisi onde assumere, senza indugi, le iniziative necessarie a farvi fronte. L’impresa collettiva deve plasmare la propria organizzazione secondo moduli e con procedure interne adeguate alla tempestiva rilevazione della crisi e all’adozione delle iniziative necessarie.

In perfetta simmetria, gli stessi principi sono stati trasfusi in talune disposizioni del codice civile così innovando e plasmando il diritto dell’impresa e delle società commerciali. L’intervento ricerca geometrica precisione: l’art. 2086 del codice civile (ora rubricato “Gestione dell’impresa”) è stato modificato con l’inserimento del secondo comma: “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di instituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Siffatto principio era già emerso nella letteratura aziendalistica quale profilo del più generale principio di corretta amministrazione dell’impresa, e i cultori del diritto societario avevano osservato come esso fosse divenuto appieno uno degli obblighi gravanti sugli amministratori della società per azioni: esso aveva già fatto capolino con la riforma societaria del 2003 (cfr. artt. 2381, co. 3 e 5, 2403 co 1, c.c.). Adesso è stato elevato a rango generale valido indipendentemente dal tipo sociale adottato. Pertanto, il principio che la gestione dell’impresa deve svolgersi nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 2086, comma 2, c.c. è stato analiticamente trasfuso: nel primo comma dell’art. 2257 c.c., nel primo comma dell’art. 2380-bis c.c., nel primo comma dell’art. 2409-novies c.c., nel primo comma dell’art. 2457 c.c. Di rimando, l’art. 2381 c.c. specifica che gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo e contabile sia adeguato alla natura e dimensioni dell’impresa (comma 5), e che il consiglio d’amministrazione, sulla base delle informazioni ricevute, valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. Sul versante degli organi di controllo, il collegio sindacale (art. 2403 comma 1 c.c.), il consiglio di sorveglianza (art. 2409-terdecies, comma 1 lett. c) c.c.), il comitato per il controllo sulla gestione (art. 2409-octiesdecies, comma 5 lett. b) c.c.) vigilano sull’adeguatezza dell’assetto, oltre che sul rispetto, da parte degli organi gestori, della legge e dello statuto[9].

Se, come da molti rilevato, tale principio generale di “adeguatezza organizzativa” era già desumibile per gli amministratori di società per azioni, il nucleo più innovativo della riforma risiede, da un lato e in via generale, nella previsione della funzionalizzazione degli obblighi alla tempestiva rilevazione della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale; dall’altro lato e con riferimento alle società a responsabilità limitata nell’aver concentrato la gestione esclusivamente in capo agli amministratori (cfr. l’art. 377 del Codice)[10].

Chiude il disegno l’art. 14 del Codice, con una disposizione che, al di là della sua collocazione topografica, si ritiene abbia valore generale: sono esonerati da responsabilità solidale gli organi preposti al controllo societario (e dunque: il collegio sindacale, il revisore contabile e la società di revisione) in caso di “tempestiva” segnalazione all’organo amministrativo del deficit sulla costante valutazione o assunzione delle iniziative necessarie a garantire l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, nonché dell’equilibrio economico-finanziario, del prevedibile andamento della gestione e, infine, a individuare gli indizi della crisi.

Il quadro che emerge dalla riforma è così sintetizzabile: (a) l’impresa deve (ri)calibrare il proprio assetto organizzativo, dotandosi degli appositi strumenti a contenuto differenziato, crescente in base alla complessità della stessa; (b) tale assetto deve essere adeguato (il che, all’evidenza, implica l’attribuzione di un ampio spazio al sindacato giudiziale) anche sul versante contabile per intercettare prontamente i segnali di pre-allerta; (c) complementare funzione di tale assetto è l’adempimento dell’obbligo di attivazione tempestiva per l’adozione di uno degli strumenti previsti dalla legge, al fine di superare la crisi (d1) e recuperare la continuità aziendale (d2).

La pregnanza e precettività di siffatta composita e complessa rete di obblighi giuridici sono spalmate su vari soggetti: anzi tutto sull’organo gestorio; di rimando sugli organi di controllo, all’interno dei doveri e poteri di vigilanza e controllo sull’operato dei primi.

 

2.1. Risk assesment e risk management nel codice della crisi d’impresa

La trama di obblighi tessuta dal legislatore del 2019, lascia subito intendere come all’imprenditore si richieda di perseguire, già durante l’esercizio dell’attività economica, l’obiettivo della preservazione e cura della continuità aziendale[11]. La razionalità di tale pretesa normativa è di tutta evidenza: perché nella prospettiva penal-fallimentare la tipicità – e ancor prima, la meritevolezza e il bisogno di pena – emergono allorquando la violazione delle regole di comportamento e dei vari obblighi sia accompagnata (recte: qualificata) dal dissesto dell’impresa. Ecco perché il Codice della crisi punta deciso su una stringente correlazione fra la gestione ordinaria e gli obblighi di adeguata organizzazione e tempestiva rilevazione degli alert e composizione della crisi finanziaria.

Vi è qui – come già altrove: si veda il documento di valutazione dei rischi di cui al d.lgs. n. 81/2008; si vedano i modelli di prevenzione del rischio-reato di cui al d.lgs. n. 231/2001 – l’implementazione nel lessico giuridico dei modelli di risk assessment (valutazione del rischio) e di risk management (gestione del rischio). Se la valutazione del rischio è demandata all’imprenditore, come una componente fisiologica dell’organizzazione dell’impresa - in termini tali da assicurare il non superamento dei limiti di cui all’art. 41, comma 3, Cost. (sicurezza, libertà, dignità umana) – la sua gestione è affidata ad un complesso di procedure che coinvolgono diverse figure: dal gestore agli organi di controllo, nonché gli organismi di composizione.

Non vi è dubbio che le aspettative più stringenti ricadano sull’organo di gestione. La funzione protettiva di tale complessa rete di obblighi organizzativi e procedure è il contenimento dei rischi: e ciò implica “conoscenza”. Queste pretese normative, cioè, affidano la effettività e capacità di gestione e neutralizzazione dei rischi ai veri detentori del potere: e il “potere” è, innanzi tutto, “conoscenza”. Di qui, anche ontologicamente, derivano le categorie della “possibilità” e della “prevedibilità”. Se l’essenza del potere è la capacità di sapere prevedere e intervenire per indirizzare alla bisogna, tutto ciò postula “conoscenza”: dell’organizzazione, dei processi produttivi, delle dinamiche decisionali e dei fattori impiegati, degli affari sociali, ivi compresi le aree di rischio.

Si tratta di fenomeni ben noti al diritto penale, categorizzati all’interno degli istituti archetipici dell’imputazione: posizione di garanzia e collante doloso o colposo fra condotta ed evento lesivo. Ma si ritrovano anche nella meccanica del reato di pericolo, ove talvolta il legislatore soccorre l’interprete offrendo dei parametri di orientamento e concretizzazione (si pensi alle concentrazioni di soglie di rischio e a quelle di contaminazione, presenti nel diritto penale ambientale)[12].

Ecco perché l’essenza dei contenuti di siffatti obblighi, organizzativi e procedimentali, si traduce in regole sostanzialmente cautelari a finalità precauzionale.

La dinamica che però qui ne discende è ben più complessa: perché la violazione di tali regole cautelari costituisce l’innesco dell’imputazione penale solo con la deflagrazione dell’insolvenza. Con effetti differenziati a seconda della natura dolosa o colposa della fattispecie penal-fallimentare che si assume consumata dall’imprenditore. Perché a monte possono esservi diverse situazioni: dal caso limite dell’imprenditore che decide di non adottare il modello di organizzazione richiesto dal Codice della crisi, ai casi più realistici in cui (a) il modello organizzativo è adottato ma è strutturalmente inadeguato, ovvero (b) il modello organizzativo è adeguato ma l’imprenditore per scelta lo disapplica o (c) per negligenza non recepisce e rileva i segnali di allarme pur evidenziati dal modello e dalle procedure.

Come è agevole constatare si è al cospetto di condotte dolose o colpose, in punto di adozione e implementazione dei modelli di prevenzione e gestione del rischio di crisi, le quali saranno poi chiamate ad operare all’interno delle fattispecie penal-fallimentari che, in larga parte, sono dolose.

La scelta del legislatore della riforma di non “adeguare” il gendarme penalistico al nuovo assetto di tutela concorsuale reca con sé, inevitabilmente, il germe di risultati asimmetrici e distonici, e dunque inefficienti, sul fronte dell’applicazione dei reati fallimentari. E soprattutto affida al giudice penale il ruolo di ricercare, in via ermeneutica, razionalità e composizione a un quadro così scollato. Non si tratta di un fenomeno nuovo: e l’esempio della ‘bancarotta riparata’ ne è il testimone più sincero. Ma quel che sino a ieri, tutto sommato, appariva un effetto collaterale circoscritto, adesso rischia di tramutarsi in una esternalità sistemica, giacché la nuova disciplina concorsuale proietterà inevitabili riflessi sul perimetro applicativo dei reati fallimentari: tal volta ampliandone la portata, tal altra circoscrivendola[13]. E non solo, ma tali effetti si intravedono anche sul contenuto della posizione di garanzia degli organi sociali: la cui funzione protettiva da fonti di rischio, sembra uscire arricchita da nuovi obblighi di controllo e vigilanza e da nuovi oggetti e ambiti su cui esplicare i primi.

 

3. I riflessi del codice della crisi d’impresa sulla posizione di garanzia degli amministratori

Prendendo le mosse da quest’ultimo profilo, è pacifico come sull’organo gestorio gravi una posizione di garanzia avente ad oggetto anche l’obbligo di preservazione dell’integrità del patrimonio sociale a tutela di shareholders e stakeholders (cfr. artt. 2392, 2394 comma primo, c.c.).

Uno dei tratti maggiormente salienti della riforma societaria di cui al d.lgs. n. 6/2003 era stato intravisto nella sostituzione del dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, con il più circoscritto dovere di agire informati (art. 2381 c.c.): riforma salutata con favore, soprattutto perché alleggeriva oneri e responsabilità degli amministratori non esecutivi[14]. Il legislatore, in sostanza, sembrava aver preso atto della irrealtà di un modello di vigilanza a tutto campo (prescritto dal testo originario dell’art. 2392 comma 2 c.c.) che, non solo era sideralmente distante dalla prassi endosocietaria, ma di fatto era persino inesigibile. Un modello, cioè, che nella interpretazione fornita dalla giurisprudenza penale – ma anche da quella civile – aveva condotto a risultati insoddisfacenti, soprattutto perché di fatto sconfessava le conquiste di civiltà e garanzia rimesse al principio di colpevolezza. E la migliore riprova si era avuta nella trasfigurazione dell’imputazione dolosa: con l’effetto di addebitare a titolo di dolo – sovente sfruttando la malleabilità del dolo eventuale – fatti tutt’al più di natura colposa. Perché la violazione dell’obbligo di attivazione veniva interamente esaurita sul piano della valutazione retrospettiva di anomalie o criticità gestionali che, in quanto tali, non potevano sfuggire alla percezione dell’agente modello di fatto ritagliato sui doveri di vigilanza e controllo riposti in capo a ciascun amministratore.

A poco erano valse le autorevoli e diffuse critiche tese a rimarcare i gravi errori prospettici insiti nelle semplicistiche equazioni, con cui il diritto giurisprudenziale puntellava le proprie decisioni: là dove, per l’appunto, un argomentare spesso involuto identificava la mera criticità nel reato, e ancor più a fondo degradava la effettiva conoscenza in semplice conoscibilità. Come se l’esistenza di anomalie e irregolarità nella gestione dovesse, sol per ciò, assumere agli occhi dell’amministratore inerte il (ben diverso) significato dell’altrui reato da impedire. E come se, ai fini dell’accertamento del dolo, fosse sufficiente allegare gli indicatori critici, dai quali desumere una generica percepibilità di un ancor più generico rischio illecito, e di qui concludere per la pretesa rappresentazione del fatto tipico: al dato oggettivo dell’inerzia – di agevole constatazione – il compito di esprimere il significato di una scelta deliberata[15].

Una dotta sentenza della Suprema Corte del 2007 (caso BiBop Carire), muovendo dalla riforma operata dal d.lgs. n. 6/2003, aveva provato seriamente a raddrizzare il ‘legno storto’ enunciando dei principi - una sorta di programma metodologico - che l’interprete avrebbe dovuto seguire sia sul piano del diritto penale sostanziale sia sul piano dell’accertamento probatorio[16]. Non senza resistenze, si era pertanto avviata una feconda stagione all’insegna della “teoria dei segnali di allarme”, così imponendo che l’imputazione muovesse anzitutto dalla percezione effettiva di segnali perspicui – la cui pregnanza fosse tale da rappresentare nello spettro mentale dell’agente il volto dell’altrui illecito penale -, e che l’inerzia e dunque l’omessa attivazione impeditiva fosse il frutto di una deliberata (e dunque voluta) scelta[17].

Per la verità non era mancato chi, autorevolmente, aveva manifestato con disincanto tutto il proprio scetticismo sulla reale portata della riforma del 2003, ribadendo la necessità che la bussola dell’interprete dovesse trovare il corretto orientamento nelle disposizioni penali e nel rispetto dei principi costituzionali[18]. E del pari, nonostante l’apprezzabile sforzo giurisprudenziale di ‘prendere sul serio’ il dolo, non tutti i rovi appaiono potati: perché a tutt’oggi difetta fra i giudici il coraggio di confrontarsi con la questione degli effettivi poteri impeditivi che la legge rimette ai garanti[19]. Presumibilmente, vi è forse la preoccupazione di sguarnire l’armamentario sanzionatorio di un efficace strumento repressivo: eppure, non può che sorprendere la superficialità con cui viene sistematicamente obliterata la verifica circa la sussistenza di poteri impeditivi - che sono tali solo se attivabili ex ante.[20]

 Orbene, se si pone lo sguardo alle novità introdotte dalla riforma e alla riscrittura di talune disposizioni del codice civile, appare evidente come esse, sul versante del diritto penale, si traducano in un grappolo di nuovi obblighi che amplieranno il perimetro della posizione di garanzia degli amministratori.

 

3.1. (Segue): agente modello e segnali d’allarme

Come accennato, il d.lgs. n. 14/2019 è intervenuto, con rigore geometrico – cedendo al canto, come icasticamente si è osservato, delle sirene della ‘burocratizzazione’ - lungo due piani.

Da un lato, ha delineato un sistema procedurale ed operativo teso a cogliere, con prontezza, i primi sintomi della crisi; un complesso sistema di filtri con corrispondenti warning, taluni indicizzati, i quali offrono all’imprenditore (che li sappia cogliere con prontezza) delle aree ove – anche con l’ausilio di nuovi attori – avviare un dialogo con i creditori nella prospettiva di giungere ad una composizione preventiva della crisi, attraverso una gestione indolore della stessa che sappia evitare epiloghi liquidatori, e così favorire il rilancio dell’impresa.

Dall’altro lato, ha simmetricamente proiettato tali procedure sul versante organizzativo: nel tentativo di modellare l’organizzazione d’impresa in termini coerenti. Il monitoraggio non è solo uno strumento procedurale: è esso stesso un modello organizzativo che deve prendere forma nell’impresa. Insomma: il nuovo software richiede che anche l’hardware sia appositamente progettato. Di qui, la riscrittura delle norme del codice civile. E pertanto, la riforma del 2019 concentra la gestione in capo all’organo amministrativo (a prescindere dal tipo sociale); inserisce fra gli obblighi di gestione quelli relativi all’adeguatezza dell’organizzazione d’impresa, alla tempestività della individuazione e segnalazione degli indizi della crisi e infine alla tempestività delle iniziative (tutte prefissate in moduli legali: le procedure di composizione della crisi) tese sia al superamento della crisi che alla preservazione della continuità aziendale.

Tutto ciò mi sembra che si traduca in due potenti ricadute sul fronte del diritto penal-fallimentare.

Per un verso, emerge una sorta di “agente modello”, giacché si è al cospetto di un reticolo di disposizioni che si muovono nella prospettiva prevenzionistica dell’insolvenza e dei suoi epiloghi liquidatori. Ed ecco allora che “il dovere di diligenza che concorre a definire il modello di un buon amministratore”[21] al vaglio del giudice penale si candida a costituire la cifra chiamata a individuare e selezionare le azioni impeditive: il cui scopo unificante, nella meccanica dell’art. 40 cpv c.p., è l’agire qualificato ossia in una determinata direzione.

Per altro e concomitante verso, esce irrobustita la piattaforma di doveri che innerva il ruolo di garante: oggi, più di ieri, tenuto non solo a plasmare il volto organizzativo dell’impresa ma a garantire, vigilando, che i nuovi moduli procedurali siano ben oliati onde assicurare lo scorrere dei flussi informativi nella prospettiva disegnata dal codice della crisi e dell’insolvenza.

Lungo queste due coordinate, la “teoria dei segnali di allarme” rappresenterà la bussola onde evitare pericolose derive sul piano dell’imputazione soggettiva. E quindi sarà rimesso al delicato lavoro dell’interprete lo sforzo di tenere saldo il timone lungo la rotta segnata da segnali luminosi perspicui, evitando di naufragare su segnali ambigui o meri sospetti[22].

Un’ultima chiosa sul versante degli amministratori non esecutivi.

A una prima lettura, la collaterale figura degli obblighi di garanzia che si era costruita in chiave delimitativa nel perimetro dell’agire informato[23], rischia oggi di subire un sensibile smottamento in senso espansivo. L’obbligo di agire informati sembra non esaurirsi nella mera valutazione dei soli report degli esecutivi sui singoli affari all’ordine del giorno o su materie comunque specifiche, ma appare flettersi a dismisura sull’intera organizzazione dell’impresa: quantomeno nella direzione della verifica sulla idoneità degli assetti e delle procedure per la tempestiva individuazione dei prodromi della crisi. Con una cadenza, peraltro, che potrebbe prescindere da quella delle sedute consiliari o da quella semestrale, nonché dal potere d’informativa rimesso all’iniziativa di ciascun consigliere: non foss’altro perché la pretesa normativa è verso un monitoraggio costante dell’adeguatezza organizzativa, del funzionamento dei sistemi di allerta, della tempestività delle segnalazioni e dell’adozione delle misure utili.

E’ vero che, a livello embrionale, tali doveri e le rispettive pretese di adempimento erano già penetrate nella esperienza giuridica e giurisprudenziale. Adesso però il tono e l’accento usati dalla riforma – in particolare sulla “centralità” dei flussi informativi e sulla “costanza” del monitoring (cfr., ad es., l’art. 13 del Codice) -, rischiano fornire nuova linfa ai tentativi di ‘alzare l’asticella’ anche nei confronti degli amministratori privi di deleghe: che altrimenti – agevole, l’ideale replica - l’obiettivo della tempestiva rilevazione dei prodromi della crisi, e il notevole investimento del legislativo su tale fronte, potrebbe essere frustrato.

 

4. I riflessi del codice della crisi d’impresa sulla posizione di garanzia dei sindaci e dei revisori contabili

Con riferimento agli organi di controllo la riforma sembra alternare elementi di chiarezza, quantomeno in chiave delimitativa della posizione di garanzia dei sindaci[24], e di ambiguità in relazione ai revisori contabili.

L’art. 14 del Codice anzitutto cesella il contenuto dell’obbligo di vigilanza: il collegio sindacale, il revisore contabile e la società di revisione, nell’ambito delle proprie competenze e funzioni sono tenuti a verificare che l’organo amministrativo valuti costantemente, assumendo se del caso le opportune iniziative, la costante adeguatezza dell’organizzazione, la permanenza dell’equilibrio economico-finanziario, il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare senza indugi l’esistenza di fondati indizi della crisi.

La formulazione della norma forse risente dell’estrema lunghezza del periodare. Ciò nondimeno la pretesa giuridica è qui indirizzata al controllo e alla vigilanza sull’operato degli amministratori, e l’obbligo di gestione comprende sia l’attuazione e implementazione dell’adeguato modello organizzativo con le caratteristiche e finalità sopra descritte, nonché le ulteriori materie richiamate dalla norma (equilibrio economico-finanziario, andamento della gestione, etc.). Palesemente, si è al cospetto di un obbligo di vigilanza di secondo grado[25]: la norma non richiede a tali soggetti un controllo e una vigilanza diretta, giacché – come evidenziato sopra – le materie coinvolte sono rimesse alla gestione d’impresa e dunque alla esclusiva competenza dell’organo amministrativo.

Dubito che la prassi, quantomeno in sede penale, arretrerà dalle proprie posizioni attualmente protese verso una vigilanza ‘attiva e diretta’ dei sindaci. Concettualmente usurato ma sempre vitale il ragionamento ipotetico cui il giudice penale ricorre, sulla scorta della causalità omissiva implementata nello schema dell’art. 40 cpv c.p.: ossia verificare se un controllo diretto (in concreto non effettuato) avrebbe impedito, con elevata probabilità, l’evento.

E in effetti, la peculiarità delle informazioni assunte, del know how posseduto e dei poteri connessi alla funzione possono, quantomeno in astratto, consentire agli organi di controllo una più agevole e immediata percezione di sintomi meritevoli di approfondimento su eventuali inadeguatezze organizzative o su eventuali anomalie economico-finanziarie. Non si dimentichi, infatti, come le aree del controllo e della vigilanza dei sindaci comprendano l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate, la sostenibilità degli oneri di indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in condizione di generare, l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi, i ritardi nei pagamenti specie se ricorrenti e di importo significativo, il trattamento dei debiti fiscali e previdenziali, etc.: ossia elementi sintomatici, questi, che effettivamente veicolano informazioni pregnanti sia sull’adeguatezza del modello organizzativo, ma soprattutto sull’equilibrio economico-finanziario e sulle prospettive della continuità aziendale. E non solo, ma l’art. 13 comma terzo del Codice, là dove consente all’impresa di modulare diversamente il rapporto con gli indicatori, richiede che in nota integrativa al bilancio d’esercizio (e quindi su un documento sottoposto al controllo e alle osservazioni, anche di legalità, del collegio sindacale) vengano esplicitate le ragioni della deroga e dell’adozione di differenti indici di rilevazione della crisi (che la legge richiede debbano essere determinate dalle specificità dell’impresa medesima).

All’obbligo di controllo e vigilanza consegue l’obbligo di segnalazione.

Infatti, tali organi hanno il dovere di segnalare agli amministratori – con le modalità e nei termini prescritti dal secondo comma dell’art. 14 del Codice – l’esistenza di fondati indizi di crisi (dei quali siano comunque venuti a conoscenza); e in caso di inerzia, o di inadeguatezza della risposta, gli organi di controllo devono allertare senza indugio i componenti dell’organismo di composizione della crisi d’impresa, anche in deroga all’art. 2407 c.c., fornendo tutte le informazioni utili in vista delle finalità prescritte dalla legge. La riforma, dunque, prefigura un doppio obbligo di segnalazione (l’uno interno, l’altro esterno): il primo all’organo amministrativo, il secondo all’organismo di composizione della crisi d’impresa (l’OCRI) onde ovviare all’inefficiente esito della prima segnalazione.

Non è del tutto chiara la ‘soglia’ di rilevanza che deve far scattare l’obbligo di segnalazione in capo agli organi di controllo: il Codice parla di “indizi” della crisi (artt. 12, comma 1, e 14, comma 1). Eppure si tratta di un tema centrale nella prospettiva penalistica, giacché sovente non è agevole distinguere quando una mancata percezione è consapevole, ossia quando vi è l’effettiva rappresentazione della sua esistenza[26]. Una questione che ha i suoi risvolti, sia in caso di imputazione dolosa sia in caso di imputazione a titolo di colpa[27]: dovendosi, in quest’ultimo caso, appurare se impiegandosi l’avveduta perizia dell’agente modello l’indizio della crisi avrebbe potuto e dunque dovuto essere colto dal controllore in carne ed ossa, e da qui segnalato.

Dubito che un valido ausilio possa trarsi dall’art. 14 che il Codice dedica agli “indicatori” della crisi[28]. E d’altra parte, la pretesa normativa de qua si rivolge a soggetti qualificati, quali sono coloro che possono essere chiamati a rivestire le funzioni di controllo e vigilanza. Certo è che, nella materia penale, il concetto qui impiegato – l’indizio – evoca materiali e ragionamenti da trattare con estrema cura.

Ad ogni modo, il terzo comma dell’art. 14 del Codice attribuisce al puntuale rispetto della sequenza con cui sono prefigurati gli obblighi di segnalazione, il valore di causa di esonero dalla responsabilità civile solidale per le conseguenze pregiudizievoli arrecate dalle omissioni o dalle azioni degli amministratori. Gli effetti liberatori si riverberano sul terreno della responsabilità penale: l’osservanza degli obblighi da parte dei sindaci impedisce di ravvisare il secondo requisito posto dall’art. 40 cpv c.p., ossia la violazione dell’obbligo giuridico impeditivo; e d’altra parte, sul versante della causalità, la commissione del reato da parte degli amministratori nonostante l’adempimento degli obblighi rimessi ai sindaci, sterilizza il controfattuale ipotetico che governa la meccanica della causalità omissiva[29].

Orbene, la fonte di responsabilità omissiva impropria dei sindaci è, dalla giurisprudenza, ravvisata nell’omesso esercizio dei doveri di controllo e vigilanza o nell’inerzia nell’avvio delle iniziative che la legge consente loro: ovviamente, sul presupposto della sussistenza dell’elemento psicologico e previa la verifica dell’incidenza causale dell’attività omessa sulla commissione del reato da parte degli amministratori[30].

La posizione di garanzia dei sindaci costituisce un campo solidamente arato da giurisprudenza e letteratura[31]: terreno fertile per far attecchire le novità del Codice.

La riforma oggi sembra aprire il dubbio sulla possibile emersione all’attenzione dell’art. 40 cpv c.p. di una nuova posizione: quella del revisore contabile.

Eppure, com’è noto, il d.lgs. n. 39/2010 ha disciplinato l’attività di tale organo esterno e, nell’abrogare gli artt. 2409 bis, ter, quater, quinquies e sexies del codice civile, ha operato una netta demarcazione rispetto all’attività del collegio sindacale[32]: solo quest’ultimo mantiene un potere-dovere che si estrinseca anche in forme di sindacato di legalità sugli atti dell’organo amministrativo. La revisione contabile, in base al d.lgs. n. 39/2010, ha per oggetto: (a) la verifica della regolare contabilità sociale e della corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili della società; (b) la verifica della corrispondenza del bilancio di esercizio alle risultanze delle scritture contabili[33]; infine, (c) esprime un giudizio sul bilancio, asseverandone la corrispondenza delle risultanze ai dati e alle informazioni trasfuse nelle scritture contabili, evidenziando, se del caso, eventuali significativi errori contabili.

Il sistema dei principi della revisione contabile ne articola l’attività in tre fasi – la “pianificazione”, la “verifica periodica” e il “giudizio sul bilancio” – avendo però cura di circoscrivere il controllo e le relative procedure nell’orizzonte della accountable opinion finale sul bilancio, ossia sul documento sociale contabile, patrimoniale e finanziario più significativo e rilevante della società e della gestione aziendale. I parametri esterni che governano l’attività del revisore sono individuati nella “ragionevole certezza” della propria opinion (positiva o negativa che sia) e nell’esclusione di “errori significativi” nel documento bilancistico asseverato[34]: e d’altra parte, gli amministratori ben possono – ovviamente assumendosene le responsabilità – richiedere l’approvazione (e l’assemblea sociale ben può deliberare in tal senso) di un bilancio d’esercizio nonostante il parere negativo dell’organo di revisione.

In buona sostanza, tale figura non possiede alcun potere impeditivo (neppure in senso lato), la sua funzione si svolge sempre ex post, è priva di alcun sindacato sulla legalità degli atti dell’organo amministrativo: tant’è che l’art. 14 d.lgs. n. 39/2010 ha deliberatamente estromesso il richiamo (dapprima previsto nella disciplina codicistica abrogata) alla verifica di conformità dei bilanci d’esercizio e consolidato alle norme di legge che li disciplinano.

In questo quadro normativo, nonostante le innovazioni operate dal Codice della crisi d’impresa, non vi sono solidi spazi per ipotizzarne una responsabilità penale per omesso impedimento ex art. 40 cpv c.p[35]: davvero esangue, in definitiva, appare la valutazione sull’adeguatezza contabile dell’organizzazione dell’impresa, soprattutto nella prospettiva causale e impeditiva polarizzata verso la rilevazione della crisi e la tutela della continuità aziendale.

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[1]  Sulla indifferibilità di una riforma, le ragioni sono note da tempo: cfr. A. CRESPI, I trent’anni della legge fallimentare: prospettive e riforma, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 123 ss., e C. PEDRAZZI, Introduzione, in C. PEDRAZZI, F. SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Roma-Bologna, 1995, p. 1 ss.; C. PEDRAZZI, Incostituzionali le fattispecie di bancarotta?, ora in ID., Diritto penale, IV, Milano, 2003, p. 1005 ss.; più da recente si v. M. ROMANO, Materia economica e intervento penale, in Jus, 2011, p. 109 ss.; da ultimo, la pregevole monografia di S. CAVALLINI, La bancarotta patrimoniale tra legge fallimentare e codice dell’insolvenza. Disvalore di contesto e soluzioni negoziali della crisi nel sistema penale concorsuale, Milano, 2019.

[2] Per tutti, M. DONINI, Compliance, negozialità e riparazione dell’offesa nei reati economici. Il delitto riparato oltre la restorative justice, in La pena, ancora fra attualità e tradizione. Studi in onore di E. Dolcini, a cura di C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta, Milano, 2018, II, p. 579 ss.; nella medesima direzione, FED. MAZZACUVA, L’ente riparato. Il diritto punitivo nell’era delle negoziazioni: l’esperienza angloamericana e le prospettive di riforma, Torino, 2020.

[3] Cordone che, a ben vedere, era stato solo allentato con la legge n. 80/2005, col d.lgs. n. 6/2006 e con la legge n. 3/2012. Per una panoramica, F. SANTANGELI (a cura di), Il nuovo fallimento, Milano, 2006. Anche tali interventi, in assenza di una riforma del complemento penalistico, avevano generato contraddizioni e aporie: al riguardo, v. A. ALESSANDRI, Profili penalistici delle innovazioni in tema di soluzioni concordate delle crisi di impresa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, spec. p. 115 ss.; A. FIORELLA, M. MASUCCI, Gestione dell’impresa e reati fallimentari, Torino, 2014, spec. p. 233 ss.; e volendo, A. MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma delle procedure concorsuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 981 ss.

[4] Sul d.lgs n. 14/2019, quantomeno cfr. GIORGETTI (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Pisa, 2019; G. FAUCEGLIA, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2019; DELLA ROCCA, GRIECO, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2019; F. LAMANNA, Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, 1-4 fasc. - Officina del diritto, Milano, 2019; M. SANDULLI (a cura di), La nuova disciplina delle procedure concorsuali, Torino, 2019.

[5] Sempre attuali le riflessioni di C. PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in A.M. STILE (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1986, p. 306 ss.; più da recente, A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, Bologna, 2010, p. 251 ss.

[6] Con riflessioni di più ampio respiro, S. SEMINARA, Riflessioni sulla “riparazione” come sanzione civile e come causa estintiva del reato, in La pena, ancora: fra attualità e tradizione, cit., II, p. 553 ss.

[7] Sulla necessità del ricorso al controllo penale, C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2002, p. 269 ss. Altresì, da una prospettiva aziendalistica tesa a rimarcare l’utilità dello sviluppo di piattaforme valoriali endogene all’impresa, v. G.M. GAREGNANI, Etica d’impresa e responsabilità da reato. Dall’esperienza statunitense ai “modelli organizzativi di gestione e controllo”, Milano, 2008.

[8] A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, cit., passim.

[9] Fra i tanti, cfr. P. MONTALENTI, Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, in Giur. comm., I, 2018, p. 62 ss.; GENNARI, Modelli organizzativi dell’impresa e responsabilità degli amministratori di s.p.a. nella riforma della legge fallimentare, ivi, I, 2018, p. 293 ss.; DI BERNARDO, Modifiche al codice civile (artt. 375-384), in GIORGETTI (a cura di), Codice della crisi d’impresa, cit., p. 341 ss.; FAUCEGLIA, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., p. 227 ss.; F. LAMANNA, Il nuovo Codice della crisi d’impresa, f. 1, p. 84 ss.; e più da recente, M. ARATO, G. D’ATTORRE, M. FABIANI, Le nuove regole societarie dopo il codice della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2020.

[10] Per tutti, G. FAUCEGLIA, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., p. 235 ss.; F. LAMANNA, Il nuovo Codice della crisi d’impresa, f. 1, p. 84 ss.

[11] C. SANTORIELLO, Il diritto penale fallimentare dopo il codice della crisi di impresa, Torino, 2021, p. 375 s.

[12] In generale, F. D’ALESSANDRO, Pericolo astratto e limiti-soglia. Le promesse non mantenute del diritto penale, Milano, 2012.

[13] Una panoramica è in, A. ALESSANDRI, Novità penalistiche nel codice della crisi di impresa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1815 ss.; A. ROSSI, I profili penalistici del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: luci ed ombre dei dati normativi, in un contesto programmatico. I ‘riflessi’ su alcune problematiche in campo societario, ivi, p. 1153 ss.; B. ROMANO, Dal diritto penale fallimentare al diritto penale della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Arch. pen. web, 1, 2019, p. 1 ss; R. BRICCHETTI, Codice della crisi d’impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quelle della legge fallimentare, in Dir. pen. cont., 7-8, 2019, p. 75 ss.

[14] Cfr. P. ABBADESSA, Profili topici della nuova disciplina della delega amministrativa, in P. ABBADESSA, G. PORTALE, (a cura di), Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, II, Torino, 2007, p. 505 ss.; altresì, F. BONELLI, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004; V. DI CATALDO, Problemi nuovi in tema di responsabilità di amministratori di società per azioni, dal possibile affievolimento della solidarietà all’incerto destino della minoranza, in Giur. comm., I, 2004, p. 647 s.; G. MERUZZI, I flussi informativi endosocietari nella società per azioni, Padova, 2012. Fra i penalisti, per tutti: F. CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009, p. 339 ss.

[15] Per tutti, A. CRESPI, La giustizia penale nei confronti dei membri degli organi sociali, ora in ID., Studi di diritto penale societario, cit., p. 31 ss.; C. PEDRAZZI, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1277 ss.

[16] Sez. V, 19.6.2007, n. 23838, est. Sandrelli, in Le Società, 2008, p. 899 ss., con nota di D. PULITANO’, Amministratori non operativi e omesso impedimento di delitti commessi da altri amministratori; e in Cass pen., 2008, p. 103 ss., con nota di F. CENTONZE, La Suprema Corte di Cassazione e la responsabilità omissiva degli amministratori non esecutivi dopo la riforma del diritto societario.

[17] Una puntuale analisi, anche dei percorsi giurisprudenziali, è in M. CAPUTO, Dalla teoria dei “segnali di allarme” alla realtà dell’imputazione dolosa nel concorso dell’amministratore non esecutivo ai reati di bancarotta, in Riv. soc., 2015, p. 905 ss.

[18] Così A. CRESPI, Note minime sulla posizione di garanzia dell’amministratore delegante nella riforma introdotta dal d.lgs. n. 6/2003, ora in ID., Studi di diritto penale societario, cit., p. 112 s.

[19] A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, cit., p. 148 ss., p. 160 ss.

[20] G. FLORA, Verso una “nuova stagione” del diritto penale fallimentare?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2012, p. 903; N. PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni. Posizioni di garanzia societarie e poteri giuridici di impedimento, Milano, 2003, spec. p. 36 ss.

[21] D. PULITANO’, Amministratori non operativi e omesso impedimento di delitti commessi da altri amministratori, cit., p. 903.

[22] Sulla ‘tassonomia’ dei segnali, cfr. A. CRESPI, La giustizia penale nei confronti degli organi collegiali, cit., p. 39 ss., p. 42 ss.; C. PEDRAZZI, Tramonto del dolo?, cit., p. 1276; F. CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, cit., p. 215 ss.; M. CAPUTO, Dalla teoria dei “segnali di allarme” alla realtà dell’imputazione dolosa, cit., p. 907 ss., p. 930 ss.

[23] A. CRESPI, Note minime sulla posizione di garanzia dell’amministratore delegante nella riforma introdotta dal d.lgs. n. 6/2003, cit., p. 107 ss.; F. CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, cit., p. 125 ss.

[24] Per quanto attiene gli obblighi impeditivi esigibili da sindaci e revisori, v. F. CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, cit., p. 227 ss.; N. PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, cit., p. 141 ss.

[25] Con chiarezza, F. LAMANNA, Il Codice della crisi d’impresa, cit., f. 1, p. 117.

[26] Al riguardo, si rinvia alle eleganti riflessioni di G. FORTI, Nuove prospettive sull’imputazione penale “per colpa”: una ricognizione interdisciplinare, in M. DONINI, R. ORLANDI (a cura di), Reato colposo e modelli di responsabilità, Bologna, 2013, p. 119 s. Con specifico riferimento al tema, v. F. CENTONZE, Per un diritto penale in movimento. Il problema dell’accertamento del “coefficiente minimo di partecipazione psichica del soggetto al fatto”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, spec. p. 1644 ss.; P. ASTORINA MARINO, L’accertamento del dolo. Determinatezza, normatività e individualizzazione, Torino, 2018, p. 229 ss.

[27] Si vedano le splendide pagine di A. CRESPI, La giustizia penale nei confronti degli organi collegiali, in ID., Studi di diritto penale societario, cit., p. 31 ss.

[28] Condivisibili, sul punto, le osservazioni di F. LAMANNA, Il nuovo Codice della crisi d’impresa, cit., fasc. 1, p. 117 ss., là dove pone l’attenzione sul fatto che gli indicatori di cui all’art. 14 siano in realtà dei misuratori degli indizi o indici della crisi. Cfr. altresì SOTTORIVA, CERRI, Gli indici di allerta rilevanti ai fini dell’attivazione degli obblighi segnaletici, in Il fallimentarista.it, 29.11.2019, ove l’illustrazione del documento elaborato dal Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili.

[29] Per una diversa ricostruzione, che ravvisa nell’art. 14 comma terzo del Codice una causa di giustificazione (ex art. 51 c.p.), v. P. CHIARAVIGLIO, Osservazioni penalistiche ‘a prima lettura’ sul progetto di codice della crisi e dell’insolvenza, in Dir. pen. cont., 5, 2018, p. 100.

[30] Cass., Sez. V, 11.5.2018, n. 44107, con nota di RAPELLA, In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale: la Cassazione precisa i confini del concorso omissivo dei sindaci nelle condotte distrattive degli amministratori, in Dir. pen. cont., 11.1.2019.

[31] F. CENTONZE, Il problema della responsabilità penale degli organi di controllo per omesso impedimento degli illeciti societari (Una lettura critica della recente giurisprudenza), in Riv. soc., 2012, p. 317 ss.; N. PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 444 ss.

[32] RIVA, DIFINO, Controllo societario e revisione nel Codice della crisi d’impresa, in Il fallimentarista.it., 3.7.2019.

[33] Quindi, il revisore è tenuto: ad acquisire e valutare, anche a campione, gli elementi a supporto dei saldi e dei dati contabili; a procedere all’esame dell’esistenza, completezza, regolarità e del tempestivo aggiornamento delle scritture e dei libri sociali; alla verifica infine che i dati contabili siano correttamente rilevati nelle scritture e nel bilancio della società.

[34] Per tutti, MATTEI, L’obbligo di informativa tra collegio sindacale e revisione legale dei conti, in Le Società, 2011, p. 1329 ss.

[35] Con autorevolezza, A. CRESPI, La pretesa “posizione di garanzia” del revisore contabile, in ID., Studi di diritto penale societario, cit., p. 389 ss., p. 400; in senso difforme, F. CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, cit., p. 314 ss.