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Contraffazione web e luxury goods: le sfide del commercio elettronico al sistema della moda

Relazione tenuta al Convegno "Fashion & the Ip Law", Università di Parma, 19 ottobre 2012
1. Il settore dei prodotti della moda e del lusso costituisce uno dei settori trainanti della nostra economia, ma anche uno dei più minacciati dalla contraffazione e dal parassitismo: ed è dunque uno dei settori nei quali i diritti di proprietà industriale possono giocare un ruolo decisivo nell’aiutare le nostre imprese a competere con successo sul mercato globale.Sin da quando, negli Anni Settanta del secolo scorso, la giurisprudenza milanese coniava l’efficace espressione “creatori del gusto e della moda”, cogliendo, forse non del tutto consapevolmente, un cambiamento epocale nell’uso e nella percezione da parte del pubblico dei segni distintivi, l’intreccio di comunicazione, estetica, arte e valore di mercato che caratterizza questo settore ha costituito una sfida anche per i giuristi IP, per l’importanza che il coordinamento e la scelta delle diverse forme di tutela di questi valori, diversi ma spesso compresenti, comporta per un diritto che voglia essere in grado di proteggere in modo effettivo ciò che i prodotti del fashion rappresentano concretamente nel mondo della vita, evitando gli opposti rischi di proteggere ciò che non merita tutela e non ne ha bisogno e di non proteggere ciò per cui invece questa tutela è indispensabile per fronteggiare i fenomeni del free riding: un’importanza che è cresciuta in modo esponenziale a partire dal momento in cui il decentramento produttivo e la globalizzazione dei mercati hanno moltiplicato le minacce, ma anche le opportunità, per le nostre imprese.

La contraffazione a mezzo della rete Internet, anche se non riguarda solo fashion e luxury goods – si pensi alla vendita attraverso questi canali di prodotti la cui commercializzazione è riservata a canali regolamentati (come i farmaci) –, produce in questo campo conseguenze particolarmente devastanti, con conseguenze pregiudizievoli di estrema gravità sia per i titolari dei diritti di proprietà industriale violati, sia per l’affidabilità delle transazioni e per la libertà di determinazione delle scelte dei consumatori, quando non per la loro sicurezza e la loro salute, che anche la contraffazione mette spesso in pericolo, poiché i falsi sono spesso anche pericolosi o sono realizzati in modo non conforme alle prescrizioni sulla sicurezza dei prodotti.

Questo problema ha assunto certamente un rilievo che non poteva essere previsto al momento dell’adozione della Direttiva n. 2000/31/C.E. e nemmeno in quello dell’attuazione di essa nel nostro Paese, operata con il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, emanato in forza della delega conferita al Governo dalla legge 1° marzo 2002, n. 39 (Legge comunitaria 2001), che non ha colto tutte le opportunità offerte dalla Direttiva per delineare una soluzione equilibrata al problema della responsabilità dei soggetti operanti su Internet, dai pure players agli Internet service providers, e più in generale dei fornitori di servizi via web.

Ciò nonostante la giurisprudenza – e in particolare quella comunitaria (ma anche alcune significative pronunce nazionali) – hanno delineato, se non ancora dei confini precisi, certamente delle linee guida, per delineare i limiti della responsabilità degli attori del commercio elettronico, coordinando le norme della citata Direttiva n. 2000/31/C.E. con quelle della Direttiva sui marchi (la Direttiva n. 89/104/C.E.E., ora divenuta nella versione codificata la Direttiva n. 2008/95/C.E.) e del Regolamento sul marchio comunitario (Regolamento C.E. n. 40/94, ora divenuto nella versione codificata Regolamento C.E. n. 207/2009)

In particolare la Corte di Giustizia europea è tornata quest’anno ad occuparsi altre due volte della contraffazione web, dopo la sua sentenza del 2010 nel caso Google AdWords (C. Giust. UE, 23.3.2010, cause riunite C-236/08 a 238/08), con la quale i Giudici comunitari avevano precisato che la possibilità per il gestore di servizi di vendita on line di avvalersi delle limitazioni alla responsabilità dell’intermediario previste dagli artt. 12-15, Dir. n. 31/2000/CE sul commercio elettronico dipende dal fatto che la sua attività «sia di ordine “meramente tecnico, automatico e passivo”, con la conseguenza che detto prestatore “non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”» (punto 113 della decisione, che richiama il considerando 42 della Direttiva sul commercio elettronico), escludendo che questo caso si verificasse ogni qual volta il prestatore svolge un ruolo «nella redazione del messaggio commerciale che accompagna il link pubblicitario o nella determinazione o selezione di tali parole chiave» (punto 118 della decisione).

IL PROFILO TERRITORIALE: BASTA LA DESTINAZIONE DELLE OFFERTE A CONFIGURARE L’ILLECITO IN UN PAESE

2. Questi principî sono stati confermati ed approfonditi dalla Corte europea nella sua successiva pronuncia nel caso L’Oréal v. Ebay (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09). In questa pronuncia la Corte ha anzitutto ritenuto, respingendo la tesi opposta di EBay, che «le norme della direttiva 89/104 e del regolamento n. 40/94 si applichino dal momento in cui appare evidente che l’offerta in vendita del prodotto contrassegnato da un marchio che si trova in uno Stato terzo è destinata a consumatori che si trovano nel territorio per il quale il marchio è stato registrato», in quanto «In caso contrario (…) gli operatori che fanno ricorso al commercio elettronico, proponendo in vendita, in un mercato online destinato a consumatori che si trovano nell’Unione, prodotti contrassegnati da un marchio che si trovano in uno Stato terzo, che possono essere visualizzati sullo schermo e ordinati mediante detto mercato online, non avrebbero, relativamente alle offerte in vendita di questo tipo, nessun obbligo di conformarsi alle norme dell’Unione in materia di proprietà intellettuale» e «Una situazione del genere vanificherebbe l’effetto utile di tali norme» (punti 61 e 62 della decisione), pur precisando correttamente che «la mera accessibilità di un sito Internet nel territorio per il quale il marchio è stato registrato non è sufficiente a concludere che le offerte in vendita che compaiono in esso sono destinate a consumatori che si trovano in tale territorio» e che quindi «è compito dei giudici nazionali valutare caso per caso se sussistano elementi pertinenti per concludere che un’offerta in vendita, che compare in un mercato online accessibile nel territorio per il quale il marchio è stato registrato, sia destinata a consumatori che si trovano in tale territorio, considerando che «Allorché l’offerta in vendita è accompagnata da precisazioni riguardo alle aree geografiche verso le quali il venditore è disposto a spedire il prodotto, tale tipo di precisazione riveste un’importanza particolare nell’ambito della suddetta valutazione» (punti 64 e 65 della decisione).

I RAPPORTI TRA INSERZIONISTA E GESTORE E IL NECESSARIO COORDINAMENTO TRA LA DIRETTIVA SUI MARCHI E QUELLA SUL COMMERCIO ELETTRONICO

3. La Corte ha poi confermato che «il titolare di un marchio può vietare al gestore di un mercato online di fare pubblicità – partendo da una parola chiave identica a tale marchio selezionata da tale gestore nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet – ai prodotti recanti detto marchio messi in vendita nel suddetto mercato, qualora siffatta pubblicità non consenta, o consenta soltanto difficilmente, all’utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento di sapere se tali prodotti o servizi provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo», sottolineando in particolare che «nei limiti in cui la eBay ha utilizzato parole chiave corrispondenti a marchi della L’Oréal per promuovere offerte in vendita di prodotti di marca provenienti dai suoi clienti venditori, essa ne ha fatto uso per prodotti o servizi identici a quelli per i quali tali marchi sono stati registrati», dal momento che nella Direttiva «l’espressione “per prodotti o servizi” non si riferisce esclusivamente ai prodotti o ai servizi del terzo che fa uso dei segni corrispondenti ai marchi, ma può riguardare anche i prodotti o i servizi di altre persone» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 91-97 della decisione).

La sentenza ha anche confermato che costituisce uso del marchio soltanto da parte dell’inserzionista, ma non anche da parte del provider «il fatto di far comparire, per i propri clienti venditori, offerte in vendita da essi provenienti», ribadendo però in pari tempo che «Nei limiti in cui consente ai propri clienti di fare tale uso, il ruolo del gestore del mercato online non può essere valutato alla luce delle disposizioni della direttiva 89/104 e del regolamento n. 40/94, ma deve essere esaminato nella prospettiva di altre norme di diritto, quali quelle enunciate nella direttiva 2000/31, in particolare alla sezione 4 del capo II della medesima, che riguarda la “responsabilità dei prestatori intermediari” nel commercio elettronico e che comprende gli artt. 12 15 della stessa direttiva» (punti 98-105 della decisione).

I LIMITI ALL’ESENZIONE DI RESPONSABILITÀ DEL GESTORE: LA SUA PARTECIPAZIONE ALL’OTTIMIZZAZIONE DELLE OFFERTE E LA CONOSCENZA “IN QUALUNQUE MODO” DELL’ILLICEITÀ DI ESSE

4. Proprio sotto questo profilo si devono registrare i più significativi sviluppi contenuti nella pronuncia della Corte. In primo luogo i Giudici europei hanno affermato che, qualora il gestore di un mercato on line «abbia prestato un’assistenza consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva 2000/31» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punto 116 della decisione).

In secondo luogo la Corte ha rilevato che, anche la di fuori di quest’ipotesi, l’operatività della deroga è comunque preclusa in «qualsiasi situazione nella quale il prestatore considerato viene ad essere, in qualunque modo, al corrente di … fatti o circostanze» che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, e quindi «segnatamente, (nel)la situazione in cui il gestore di un mercato online scopre l’esistenza di un’attività o di un’informazione illecite a seguito di un esame effettuato di propria iniziativa, nonché (nel)la situazione in cui gli sia notificata l’esistenza di un’attività o di un’informazione siffatte» (e quindi anche quando l’informazione non proviene da una pubblica autorità), con la precisazione che «In questo secondo caso, pur se, certamente, una notifica non può automaticamente far venire meno il beneficio dell’esonero dalla responsabilità previsto all’art. 14 della direttiva 2000/31 – stante il fatto che notifiche relative ad attività o informazioni che si asseriscono illecite possono rivelarsi insufficientemente precise e dimostrate –, resta pur sempre (il) fatto che essa costituisce, di norma, un elemento di cui il giudice nazionale deve tener conto per valutare, alla luce delle informazioni così trasmesse al gestore, l’effettività della conoscenza da parte di quest’ultimo di fatti o circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità» (punti 118-124 della decisione): così individuando lo standard di diligenza richiesto al gestore in un livello non sostanzialmente diverso da quello applicabile a ogni altro intermediario.

Ancor più significativa è la parte della decisione in cui la Corte ha considerato il contenuto che possono assumere le inibitorie (injunctions) che, sempre secondo la Dir. n. 2000/31/CE, coordinata anche con la Dir. n. 2004/48/CE sull’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale, possono venire emanate nei confronti del gestore del servizio, riconoscendo espressamente che le stesse possono essere anche dirette alla prevenzione di ulteriori illeciti. Sotto questo profilo la Corte ha anzitutto chiarito, in base a quanto previsto dall’art. 11 Dir. n. 2004/48/CE che «l’ingiunzione rivolta al responsabile di una violazione consiste, logicamente, nel vietargli la prosecuzione della violazione, mentre la situazione del prestatore del servizio mediante il quale è commessa la violazione è più complessa e si presta ad altri tipi di provvedimenti ingiuntivi» e che anche in base alla ratio di tale Direttiva «la competenza attribuita (…) agli organi giurisdizionali nazionali deve consentire a questi ultimi di ingiungere al prestatore di un servizio online, quale colui che mette a disposizione degli utenti di Internet un mercato online, di adottare provvedimenti che contribuiscano in modo effettivo, non solo a porre fine alle violazioni condotte attraverso tale mercato, ma anche a prevenire nuove violazioni» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 128-134 della decisione).

LE SANZIONI PER IL GESTORE: LE MISURE PREVENTIVE DI ULTERIORI ILLECITI

5. A questo proposito, e sempre in base al coordinamento tra le due Direttive richiamate, i Giudici comunitari hanno rilevato che le misure che così possono venire imposte al gestore del servizio «non possono consistere in una vigilanza attiva di tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione dei diritti di proprietà intellettuale attraverso il sito di tale prestatore», né «avere l’oggetto o l’effetto di imporre un divieto generale e permanente di messa in vendita, in tale mercato, di prodotti contrassegnati da detti marchi», ma che tuttavia al gestore può essere ordinato di «sospendere l’autore della violazione di diritti di proprietà intellettuale per evitare che siano commesse nuove violazioni della stessa natura da parte dello stesso commerciante nei confronti degli stessi marchi» ed anche di «adottare misure che consentano di agevolare l’identificazione dei suoi clienti venditori», affermando in termini generali che «se è certamente necessario rispettare la protezione dei dati personali, resta pur sempre il fatto che, quando agisce nel commercio e non nella vita privata, l’autore della violazione deve essere chiaramente identificabile» e concludendo che tali misure «devono essere effettive, proporzionate, dissuasive e non devono creare ostacoli al commercio legittimo» e «devono garantire un giusto equilibrio tra i diversi diritti e interessi» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 135-144 della decisione).

In tal modo anche il tema della responsabilità dei gestori di questi servizi e quello delle misure di contrasto alla contraffazione web vengono ricondotti sostanzialmente alle regole generali, quanto meno quando la contraffazione sia operata a livello commerciale, nella prospettiva di fornire in ogni caso una tutela effettiva contro ogni attività che venga ad interferire con ciò che i segni distintivi concretamente rappresentano nel «mondo della vita».

ANCORA SUGLI ADWORDS, CON UN PO’ DI AMBIGUITÀ: LA SENTENZA INTERFLORA

6. Sul tema degli AdWords (ma in questo caso senza occuparsi direttamente della responsabilità del gestore, che non era parte in causa) la Corte europea è tornata ancora una volta nella sua recentissima sentenza nel caso Interflora v. Marks & Spencer (C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09), che affronta il tema dell’illiceità di essi da un lato sulla base della regola di cui all’art. 5.1.a della Direttiva n. 89/104/CEE (ora divenuta, nella versione codificata, la Direttiva n. 2008/95/CE), ossia al caso dell’uso di marchi identici per prodotti o servizi identici, e dall’altro in relazione a quella dell’art. 5.2 della medesima Direttiva, ossia all’ipotesi dell’indebito vantaggio/pregiudizio legati alla capacità distintiva o alla rinomanza del marchio.

Sotto il primo profilo i Giudici comunitari confermano la loro impostazione per cui l’identità di segni e prodotti non configura un’ipotesi di tutela «assoluta», perché essa è comunque subordinata all’interferenza dell’uso del terzo con una delle funzioni del marchio; sotto il secondo essi considerano le diverse ipotesi sia di pregiudizio, sia di indebito vantaggio, riconducendo sostanzialmente le prime alle classiche figure del blurring e del tarnishment, già da lungo tempo note all’esperienza giuridica nord-americana, mentre sotto il secondo parlano per la prima volta esplicitamente di «parassitismo», identificandolo «in particolare» nel «caso in cui, grazie ad un trasferimento dell’immagine del marchio o delle caratteristiche da questo proiettate sui prodotti designati dal segno identico o simile, sussista un palese sfruttamento parassitario nella scia del marchio che gode di notorietà» (punto 74 della decisione).

Sennonché proprio la rigidità classificatoria impedisce alla Corte in questo caso di cogliere con chiarezza l’elemento unificante di tutte queste ipotesi, che invece emergeva con chiarezza da altre precedenti pronunce, e cioè il valore del marchio come simbolo di un messaggio (o, se si preferisce, la funzione di comunicazione del marchio, che riassume in sé tutte le altre) che fa scattare la tutela ogni volta che nell’uso non autorizzato di un segno eguale o simile ad esso vi sia un richiamo a tale valenza simbolica non giustificato da altre esigenze prevalenti. La rigidità di questo schema emerge con chiarezza proprio in relazione al ragionamento svolto dalla Corte in relazione alle “funzioni” del marchio, per la quale i Giudici europei propongono una “nuova” e discutibile tripartizione, parlando al riguardo di funzione d’origine, funzione pubblicitaria e funzione di investimento, dove, se la prima è ovviamente quella “classica”, che sino all’attuazione della Direttiva segnava da noi il limite alla protezione del marchio, la seconda non viene invece definita, ma è genericamente ricondotta all’«utilizzo pubblicitario di un marchio … da parte del suo titolare» (punto 55 della decisione) e giustapposta alla (ulteriore) funzione d’investimento, intesa come connessa al fatto che il marchio venga «utilizzato dal suo titolare per acquisire o mantenere una reputazione che possa attirare i consumatori e renderli fedeli» (punti 60-61).

La sentenza segna comunque un passo avanti là dove sottolinea che l’uso del marchio altrui come parola-chiave è potenzialmente lesivo non solo della prima (sui presupposti già indicati nella sentenza Google), ma anche di questa terza funzione del marchio, sul presupposto che «il marchio gode già di una reputazione» e «qualora l’uso da parte del terzo di un segno identico a tale marchio per prodotti o servizi identici leda tale reputazione e metta quindi in pericolo la conservazione della stessa» (punto 63 della sentenza), e cioè sostanzialmente alle stesse condizioni per cui il marchio è tutelato contro tarnishment e blurring; analogamente il «parassitismo» è ravvisato nell’ipotesi in cui «l’inserzionista si inserisce nella scia di un marchio che gode di notorietà, al fine di beneficiare del suo potere attrattivo, della sua reputazione e del suo prestigio, nonché al fine di sfruttare, senza qualsivoglia compensazione economica e senza dover operare sforzi propri in proposito, lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio per creare e mantenere l’immagine di detto marchio» (punto 89).

Secondo la Corte, uno spazio di liceità per gli AdWords costituiti dal marchio altrui si può quindi ravvisare solo quando in questo modo l’inserzionista intenda offrire «un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio che gode di notorietà» e lo faccia «senza offrire una semplice imitazione dei prodotti e dei servizi del titolare di tale marchio, senza provocare una diluizione o una corrosione e senza nemmeno arrecare pregiudizio alle funzioni di detto marchio» (punto 91), così riconducendo la sfera di liceità essenzialmente alle ipotesi in cui sussista un «giusto motivo» per l’uso del marchio altrui, secondo la previsione dell’art. 5.2 della Direttiva, richiamata espressamente nel punto 89 della decisione: in pratica, come la Corte aveva già indicato in altre pronunce, anche in materia di pubblicità, quando vi sia la necessità dell’uso del marchio altrui per consentire una concorrenza effettiva. E anche questo conferma che è appunto qui, nel giusto motivo, e nella conseguente ricerca di un punto di equilibrio tra concorrenza ed esclusiva, che va cercato il nuovo confine della tutela dei marchi e conseguentemente è su questo punto che le imprese dovranno prestare la massima attenzione, anche sul piano probatorio, per ottenere una tutela adeguata dei loro diritti.

I NUOVI SCENARI: I SERVIZI PUBBLICITARI MIRATI

Le parole chiave non sono però l’ultima frontiera della pubblicità via web: i servizi di posizionamento mirato dei banners pubblicitari sui vari siti Internet, collocati in base al comportamento del navigatore, oppure in base all’inerenza col contenuto del sito visitato, ma in entrambi i casi abbinando i riferimenti ad un marchio famoso – perché cercato dall’utente o menzionato, legittimamente, nel sito – con pubblicità e links a siti di terzi che invece a quel marchio erano totalmente estranei: il che presuppone necessariamente un’analisi magari automatizzata, ma comunque mirata e quindi un controllo dei contenuti del sito nel quale banners e links sono inseriti, ovvero di quelli visitati dai surfers. E lo stesso accade nei social networks, spesso utilizzati come veicoli per pubblicità di prodotti-copia, ma anche abbinati, sempre in modo “mirato” a banners e links che fanno riferimento ai contenuti inseriti dagli utenti nelle pagine in questione.

In tutti questi casi è anzitutto evidente la responsabilità dell’inserzionista, che può evitare senza difficoltà questi abbinamenti, esattamente come avviene nel caso dei servizi di keywords, dove è possibile escluderli semplicemente abbinando una keyword negativa (il segno meno seguito dal marchio che non si desidera abbinare), per evitare ogni rischio: ed è chiaro che, ogni volta che il contenuto dei banners ed i segni che vi vengono usati, si prestano a indurre il consumatore.

Rispetto al servizio “Adsense” di Google e simili, siamo riusciti finalmente a chiarire come in realtà il placement delle varie inserzioni non sia esclusivamente gestito dal titolare del sito sul quale esse appaiono (cosa che francamente mi pareva strana), ma anche dal singolo inserzionista (che può scegliere i siti su cui vuole che appaia la sua pubblicità). Il Dott. Sicard ha giustamente sottolineato che il compito di “piazzare” la pubblicità sui siti più interessanti per l’inserzionista è compito dell’agenzia pubblicitaria ma è effettivamente emersa la possibilità che l’ISP fornisca al singolo inserzionista o ai suoi intermediari tutta una serie di informazioni utili per aumentare l’efficacia dell’investimento promozionale (eventualmente riferito a prodotti contraffattori): dato questo, che ove effettivamente confermato, potrebbe forse consentirci di argomentare la responsabilità diretta dell’ISP nell’illecito. Per quanto riguarda il servizio “Adwords” di Google e simili, invece, è apparentemente emerso come non solo l’acquisto della singola keywords (eventualmente in violazione di un diritto di marchio altrui) sia ad esclusiva discrezione dell’advertiser ma anche il formato e il contenuto del singolo annuncio pubblicitario. È stata tuttavia ventilata la possibilità che l’ISP fornisca al singolo advertiser una consulenza più o meno “automatica” per la scelta del contenuto del singolo annuncio (elemento su cui, come noto, la nostra giurisprudenza si è molto concentrata per la valutazione della valenza illecita delle keywords: per tutti cfr. Trib. Bologna 1 luglio 2011 n. 1742, inedita. Sul punto però, anche se meno chiaramente, cfr. anche CGCE C-278/08): occorre dunque approfondire il punto chiarendo se vi sia effettivamente tale tipo di consulenza e, soprattutto, quale sia la sua effettiva portata.

Per quanto riguarda Ebay e gli altri siti di aste online, si è chiarita la sostanziale impossibilità per l’ISP di riconoscere l’eventuale utente – bannato per ripetuta violazione delle regole anticontraffazione – che volesse reiscriversi al servizio offerto dall’ISP mediante la creazione di un nuovo e diverso account (impossibilità questa che, innegabilmente, rafforza la prevedibile linea difensiva avversaria concentrata sul fatto di porre in essere tutto quanto materialmente possibile per ostacolare gli illeciti). Occorrerà quindi, anche in questo caso, concentrarsi sulla ricerca e l’acquisizione di tutte le informazioni possibili relative alla materiale assistenza fornita dalla piattaforma alla propria clientela per il miglioramento prestazionale del business (assistenza di per sé certa ma i cui contorni andrebbero provati). Sul punto occorrerebbe inevitabilmente acquisire direttamente delle prove, vuoi creando un account fittizio (che andrebbe naturalmente “protetto” da contestazioni da parte dei titolari delle privative) che, pur vendendo materiale contraffatto, ottenga – eventualmente sollecitandola – assistenza da parte dell’ISP o, meglio ancora, convincendo un c.d. “power seller” a farci da “talpa”.

Con riferimento, infine, alla situazione dei social network si è condivisa l’opportunità di condurre comunque una ricerca sull’eventuale supporto dato dall’ISP ai propri inserzionisti nonostante il fondato dubbio che, con riferimento a questa particolare tipologia di ISP, vi possa essere una effettiva partecipazione diretta nel placement delle inserzioni.

CESARE GALLI è titolare della cattedra di Diritto industriale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma e Avvocato, a capo di uno Studio specializzato in Intellectual Property con sede principale a Milano e succursali a Parma, Brescia e Verona. Definito dalla Guida Chambers, “A formidable academic and formidably well-prepared pratictioner”, dal 2002 figura nelle guide specializzate internazionali come uno dei maggiori specialisti italiani nella difesa della proprietà industriale.

Nel corso della sua attività si è occupato di importanti cause, in Italia e all’estero, relative a tutte le branche del Diritto industriale, in particolare marchi e domain names, brevetti per invenzioni e modelli, industrial design e denominazioni di origine, ed affrontando più volte problematiche di carattere internazionale e con aspetti cross-border (quest’ultimo tema ha anche costituito l’oggetto di un suo noto articolo).

Nel 1999 ha ottenuto la prima sentenza italiana di merito in materia di brevetti biotecnologici. Nel 2004 ha egualmente ottenuto la prima decisione italiana che riconosce la validità di un brevetto relativo a una computer implemented invention. Tra il 2005 e il 2012 ha fatto concedere alcuni tra i provvedimenti più innovativi ed avanzati a tutela del segreto industriale e dei marchi rinomati e per la repressione del look-alike, tra cui la sentenza della Corte di Giustizia europea che ha obbligato il Governo italiano a tutelare più efficacemente l’industrial design.

Di pari passo con lo svolgimento della sua attività professionale, l’avv. prof. Cesare Galli ha percorso tutta la carriera universitaria sino al conseguimento della cattedra (Dottore di ricerca: 1995; Professore associato: 1998; Professore ordinario: 2000), ed ha al suo attivo un grande numero di pubblicazioni in materia di marchi, brevetti e diritto d’autore, tra cui un commentario di quasi 4.000 pagine su tutte le norme nazionali e comunitarie in materia di proprietà industriale e intellettuale vigenti in Italia (GALLI-GAMBINO, Codice commentato della propria industriale e intellettuale, Torino, UTET-Wolters Kluwer, 2011) ed i volumi: Il diritto transitorio dei marchi (Milano, Giuffré, 1994); Funzione del marchio e ampiezza della tutela (Milano, Giuffré, 1996); I domain names nella giurisprudenza (Milano, Giuffré, 2001); e La nuova legge marchi² (Milano, Giuffré, 2001, quest’ultimo scritto insieme al Prof. Vanzetti); Il futuro dei marchi e le sfide della globalizzazione (Padova, CEDAM, 2002 – curatore e autore di uno dei saggi); Le nuove frontiere del diritto dei brevetti (Torino, Giappichelli, 2003 – curatore e autore di uno dei saggi); Codice della Proprietà Industriale: la riforma 2010 (Milano, IPSOA Wolters Kluwer, 2010); Guida alle garanzie sui diritti di proprietà industriale e intellettuale (Bologna, Filodiritto Editore, 2011 – curatore e autore di uno dei saggi).

Membro di INDICAM e di AIPPI, nella prima è Consulente Permanente del Comitato Direttivo e della seconda fa parte del Comitato Esecutivo del Gruppo italiano ed è responsabile del Gruppo di studio sui marchi. A livello internazionale è stato delegato italiano ai Congressi AIPPI di Ginevra del 2004, di Berlino del 2005, di Singapore del 2007 e di Boston del 2008; al Congresso AIPPI di Göteborg dell’ottobre 2006 è stato Co-Chairman del Working Committee internazionale su marchi e denominazioni di origine ed a quello di Singapore dell’ottobre 2007 è stato Chairman del Working Committee internazionale sulle limitazioni alla protezione dei marchi.

Nel 2004, in occasione del varo del Codice della Proprietà Industriale, è stato sentito come esperto dalla Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati. Nel 2005 è stato chiamato a far parte della Commissione di esperti costituita presso il Ministero delle Attività Produttive per la revisione del Codice, che ha poi predisposto il testo dell’attuazione italiana della Direttiva n. 2004/48/C.E. e nel 2009-2010, di quella che ha varato la riforma del 2010 del Codice della Proprietà Industriale, oltre ad essere consultato dalla Direzione Generale per la predisposizione della circolare interpretativa volta a limitare l’impatto negativo della nuova norma relativa all’apposizione dei marchi italiani su prodotti realizzati all’estero, circolare di cui ha dettato le linee fondamentali a tutela delle attività pregresse delle imprese italiane, ed ha quindi predisposto uno schema di nuova disciplina sulla contraffazione a mezzo della rete web. Dal 2006 ha fatto parte del Comitato tecnico-scientifico istituito in seno all’Alto Commissario per la Lotta alla Contraffazione, fino alla sua soppressione, e poi è stato nominato Esperto Giuridico della Presidenza del CNAC-Consiglio Nazionale Anti-Contraffazione, che ha preso il posto dell’Alto Commissario.

Nel 2009 è stato chiamato a far parte del Gruppo di Lavoro sui Marchi e la Lotta alla Contraffazione di Confindustria e nel 2011 anche del Gruppo di Lavoro sulla Proprietà Intellettuale, sempre presso Confindustria, per la quale ha presieduto due panels di discussione in occasione delle due Giornate Nazionali per la Lotta alla Contraffazione da essa organizzate rispettivamente nel 2009 e nel 2011.

Sempre dal 2009 fa parte dell’European Counterfeiting and Piracy Observatory istituito in seno alla DG Markt della Commissione Europea, in rappresentanza delle imprese private italiane, dove ha attivamente operato nella ricognizione sull’attuazione della Direttiva Enforcement, nella prospettiva della sua possibile revisione.

1. Il settore dei prodotti della moda e del lusso costituisce uno dei settori trainanti della nostra economia, ma anche uno dei più minacciati dalla contraffazione e dal parassitismo: ed è dunque uno dei settori nei quali i diritti di proprietà industriale possono giocare un ruolo decisivo nell’aiutare le nostre imprese a competere con successo sul mercato globale.Sin da quando, negli Anni Settanta del secolo scorso, la giurisprudenza milanese coniava l’efficace espressione “creatori del gusto e della moda”, cogliendo, forse non del tutto consapevolmente, un cambiamento epocale nell’uso e nella percezione da parte del pubblico dei segni distintivi, l’intreccio di comunicazione, estetica, arte e valore di mercato che caratterizza questo settore ha costituito una sfida anche per i giuristi IP, per l’importanza che il coordinamento e la scelta delle diverse forme di tutela di questi valori, diversi ma spesso compresenti, comporta per un diritto che voglia essere in grado di proteggere in modo effettivo ciò che i prodotti del fashion rappresentano concretamente nel mondo della vita, evitando gli opposti rischi di proteggere ciò che non merita tutela e non ne ha bisogno e di non proteggere ciò per cui invece questa tutela è indispensabile per fronteggiare i fenomeni del free riding: un’importanza che è cresciuta in modo esponenziale a partire dal momento in cui il decentramento produttivo e la globalizzazione dei mercati hanno moltiplicato le minacce, ma anche le opportunità, per le nostre imprese.

La contraffazione a mezzo della rete Internet, anche se non riguarda solo fashion e luxury goods – si pensi alla vendita attraverso questi canali di prodotti la cui commercializzazione è riservata a canali regolamentati (come i farmaci) –, produce in questo campo conseguenze particolarmente devastanti, con conseguenze pregiudizievoli di estrema gravità sia per i titolari dei diritti di proprietà industriale violati, sia per l’affidabilità delle transazioni e per la libertà di determinazione delle scelte dei consumatori, quando non per la loro sicurezza e la loro salute, che anche la contraffazione mette spesso in pericolo, poiché i falsi sono spesso anche pericolosi o sono realizzati in modo non conforme alle prescrizioni sulla sicurezza dei prodotti.

Questo problema ha assunto certamente un rilievo che non poteva essere previsto al momento dell’adozione della Direttiva n. 2000/31/C.E. e nemmeno in quello dell’attuazione di essa nel nostro Paese, operata con il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, emanato in forza della delega conferita al Governo dalla legge 1° marzo 2002, n. 39 (Legge comunitaria 2001), che non ha colto tutte le opportunità offerte dalla Direttiva per delineare una soluzione equilibrata al problema della responsabilità dei soggetti operanti su Internet, dai pure players agli Internet service providers, e più in generale dei fornitori di servizi via web.

Ciò nonostante la giurisprudenza – e in particolare quella comunitaria (ma anche alcune significative pronunce nazionali) – hanno delineato, se non ancora dei confini precisi, certamente delle linee guida, per delineare i limiti della responsabilità degli attori del commercio elettronico, coordinando le norme della citata Direttiva n. 2000/31/C.E. con quelle della Direttiva sui marchi (la Direttiva n. 89/104/C.E.E., ora divenuta nella versione codificata la Direttiva n. 2008/95/C.E.) e del Regolamento sul marchio comunitario (Regolamento C.E. n. 40/94, ora divenuto nella versione codificata Regolamento C.E. n. 207/2009)

In particolare la Corte di Giustizia europea è tornata quest’anno ad occuparsi altre due volte della contraffazione web, dopo la sua sentenza del 2010 nel caso Google AdWords (C. Giust. UE, 23.3.2010, cause riunite C-236/08 a 238/08), con la quale i Giudici comunitari avevano precisato che la possibilità per il gestore di servizi di vendita on line di avvalersi delle limitazioni alla responsabilità dell’intermediario previste dagli artt. 12-15, Dir. n. 31/2000/CE sul commercio elettronico dipende dal fatto che la sua attività «sia di ordine “meramente tecnico, automatico e passivo”, con la conseguenza che detto prestatore “non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”» (punto 113 della decisione, che richiama il considerando 42 della Direttiva sul commercio elettronico), escludendo che questo caso si verificasse ogni qual volta il prestatore svolge un ruolo «nella redazione del messaggio commerciale che accompagna il link pubblicitario o nella determinazione o selezione di tali parole chiave» (punto 118 della decisione).

IL PROFILO TERRITORIALE: BASTA LA DESTINAZIONE DELLE OFFERTE A CONFIGURARE L’ILLECITO IN UN PAESE

2. Questi principî sono stati confermati ed approfonditi dalla Corte europea nella sua successiva pronuncia nel caso L’Oréal v. Ebay (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09). In questa pronuncia la Corte ha anzitutto ritenuto, respingendo la tesi opposta di EBay, che «le norme della direttiva 89/104 e del regolamento n. 40/94 si applichino dal momento in cui appare evidente che l’offerta in vendita del prodotto contrassegnato da un marchio che si trova in uno Stato terzo è destinata a consumatori che si trovano nel territorio per il quale il marchio è stato registrato», in quanto «In caso contrario (…) gli operatori che fanno ricorso al commercio elettronico, proponendo in vendita, in un mercato online destinato a consumatori che si trovano nell’Unione, prodotti contrassegnati da un marchio che si trovano in uno Stato terzo, che possono essere visualizzati sullo schermo e ordinati mediante detto mercato online, non avrebbero, relativamente alle offerte in vendita di questo tipo, nessun obbligo di conformarsi alle norme dell’Unione in materia di proprietà intellettuale» e «Una situazione del genere vanificherebbe l’effetto utile di tali norme» (punti 61 e 62 della decisione), pur precisando correttamente che «la mera accessibilità di un sito Internet nel territorio per il quale il marchio è stato registrato non è sufficiente a concludere che le offerte in vendita che compaiono in esso sono destinate a consumatori che si trovano in tale territorio» e che quindi «è compito dei giudici nazionali valutare caso per caso se sussistano elementi pertinenti per concludere che un’offerta in vendita, che compare in un mercato online accessibile nel territorio per il quale il marchio è stato registrato, sia destinata a consumatori che si trovano in tale territorio, considerando che «Allorché l’offerta in vendita è accompagnata da precisazioni riguardo alle aree geografiche verso le quali il venditore è disposto a spedire il prodotto, tale tipo di precisazione riveste un’importanza particolare nell’ambito della suddetta valutazione» (punti 64 e 65 della decisione).

I RAPPORTI TRA INSERZIONISTA E GESTORE E IL NECESSARIO COORDINAMENTO TRA LA DIRETTIVA SUI MARCHI E QUELLA SUL COMMERCIO ELETTRONICO

3. La Corte ha poi confermato che «il titolare di un marchio può vietare al gestore di un mercato online di fare pubblicità – partendo da una parola chiave identica a tale marchio selezionata da tale gestore nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet – ai prodotti recanti detto marchio messi in vendita nel suddetto mercato, qualora siffatta pubblicità non consenta, o consenta soltanto difficilmente, all’utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento di sapere se tali prodotti o servizi provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo», sottolineando in particolare che «nei limiti in cui la eBay ha utilizzato parole chiave corrispondenti a marchi della L’Oréal per promuovere offerte in vendita di prodotti di marca provenienti dai suoi clienti venditori, essa ne ha fatto uso per prodotti o servizi identici a quelli per i quali tali marchi sono stati registrati», dal momento che nella Direttiva «l’espressione “per prodotti o servizi” non si riferisce esclusivamente ai prodotti o ai servizi del terzo che fa uso dei segni corrispondenti ai marchi, ma può riguardare anche i prodotti o i servizi di altre persone» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 91-97 della decisione).

La sentenza ha anche confermato che costituisce uso del marchio soltanto da parte dell’inserzionista, ma non anche da parte del provider «il fatto di far comparire, per i propri clienti venditori, offerte in vendita da essi provenienti», ribadendo però in pari tempo che «Nei limiti in cui consente ai propri clienti di fare tale uso, il ruolo del gestore del mercato online non può essere valutato alla luce delle disposizioni della direttiva 89/104 e del regolamento n. 40/94, ma deve essere esaminato nella prospettiva di altre norme di diritto, quali quelle enunciate nella direttiva 2000/31, in particolare alla sezione 4 del capo II della medesima, che riguarda la “responsabilità dei prestatori intermediari” nel commercio elettronico e che comprende gli artt. 12 15 della stessa direttiva» (punti 98-105 della decisione).

I LIMITI ALL’ESENZIONE DI RESPONSABILITÀ DEL GESTORE: LA SUA PARTECIPAZIONE ALL’OTTIMIZZAZIONE DELLE OFFERTE E LA CONOSCENZA “IN QUALUNQUE MODO” DELL’ILLICEITÀ DI ESSE

4. Proprio sotto questo profilo si devono registrare i più significativi sviluppi contenuti nella pronuncia della Corte. In primo luogo i Giudici europei hanno affermato che, qualora il gestore di un mercato on line «abbia prestato un’assistenza consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva 2000/31» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punto 116 della decisione).

In secondo luogo la Corte ha rilevato che, anche la di fuori di quest’ipotesi, l’operatività della deroga è comunque preclusa in «qualsiasi situazione nella quale il prestatore considerato viene ad essere, in qualunque modo, al corrente di … fatti o circostanze» che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, e quindi «segnatamente, (nel)la situazione in cui il gestore di un mercato online scopre l’esistenza di un’attività o di un’informazione illecite a seguito di un esame effettuato di propria iniziativa, nonché (nel)la situazione in cui gli sia notificata l’esistenza di un’attività o di un’informazione siffatte» (e quindi anche quando l’informazione non proviene da una pubblica autorità), con la precisazione che «In questo secondo caso, pur se, certamente, una notifica non può automaticamente far venire meno il beneficio dell’esonero dalla responsabilità previsto all’art. 14 della direttiva 2000/31 – stante il fatto che notifiche relative ad attività o informazioni che si asseriscono illecite possono rivelarsi insufficientemente precise e dimostrate –, resta pur sempre (il) fatto che essa costituisce, di norma, un elemento di cui il giudice nazionale deve tener conto per valutare, alla luce delle informazioni così trasmesse al gestore, l’effettività della conoscenza da parte di quest’ultimo di fatti o circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità» (punti 118-124 della decisione): così individuando lo standard di diligenza richiesto al gestore in un livello non sostanzialmente diverso da quello applicabile a ogni altro intermediario.

Ancor più significativa è la parte della decisione in cui la Corte ha considerato il contenuto che possono assumere le inibitorie (injunctions) che, sempre secondo la Dir. n. 2000/31/CE, coordinata anche con la Dir. n. 2004/48/CE sull’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale, possono venire emanate nei confronti del gestore del servizio, riconoscendo espressamente che le stesse possono essere anche dirette alla prevenzione di ulteriori illeciti. Sotto questo profilo la Corte ha anzitutto chiarito, in base a quanto previsto dall’art. 11 Dir. n. 2004/48/CE che «l’ingiunzione rivolta al responsabile di una violazione consiste, logicamente, nel vietargli la prosecuzione della violazione, mentre la situazione del prestatore del servizio mediante il quale è commessa la violazione è più complessa e si presta ad altri tipi di provvedimenti ingiuntivi» e che anche in base alla ratio di tale Direttiva «la competenza attribuita (…) agli organi giurisdizionali nazionali deve consentire a questi ultimi di ingiungere al prestatore di un servizio online, quale colui che mette a disposizione degli utenti di Internet un mercato online, di adottare provvedimenti che contribuiscano in modo effettivo, non solo a porre fine alle violazioni condotte attraverso tale mercato, ma anche a prevenire nuove violazioni» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 128-134 della decisione).

LE SANZIONI PER IL GESTORE: LE MISURE PREVENTIVE DI ULTERIORI ILLECITI

5. A questo proposito, e sempre in base al coordinamento tra le due Direttive richiamate, i Giudici comunitari hanno rilevato che le misure che così possono venire imposte al gestore del servizio «non possono consistere in una vigilanza attiva di tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione dei diritti di proprietà intellettuale attraverso il sito di tale prestatore», né «avere l’oggetto o l’effetto di imporre un divieto generale e permanente di messa in vendita, in tale mercato, di prodotti contrassegnati da detti marchi», ma che tuttavia al gestore può essere ordinato di «sospendere l’autore della violazione di diritti di proprietà intellettuale per evitare che siano commesse nuove violazioni della stessa natura da parte dello stesso commerciante nei confronti degli stessi marchi» ed anche di «adottare misure che consentano di agevolare l’identificazione dei suoi clienti venditori», affermando in termini generali che «se è certamente necessario rispettare la protezione dei dati personali, resta pur sempre il fatto che, quando agisce nel commercio e non nella vita privata, l’autore della violazione deve essere chiaramente identificabile» e concludendo che tali misure «devono essere effettive, proporzionate, dissuasive e non devono creare ostacoli al commercio legittimo» e «devono garantire un giusto equilibrio tra i diversi diritti e interessi» (C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 135-144 della decisione).

In tal modo anche il tema della responsabilità dei gestori di questi servizi e quello delle misure di contrasto alla contraffazione web vengono ricondotti sostanzialmente alle regole generali, quanto meno quando la contraffazione sia operata a livello commerciale, nella prospettiva di fornire in ogni caso una tutela effettiva contro ogni attività che venga ad interferire con ciò che i segni distintivi concretamente rappresentano nel «mondo della vita».

ANCORA SUGLI ADWORDS, CON UN PO’ DI AMBIGUITÀ: LA SENTENZA INTERFLORA

6. Sul tema degli AdWords (ma in questo caso senza occuparsi direttamente della responsabilità del gestore, che non era parte in causa) la Corte europea è tornata ancora una volta nella sua recentissima sentenza nel caso Interflora v. Marks & Spencer (C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09), che affronta il tema dell’illiceità di essi da un lato sulla base della regola di cui all’art. 5.1.a della Direttiva n. 89/104/CEE (ora divenuta, nella versione codificata, la Direttiva n. 2008/95/CE), ossia al caso dell’uso di marchi identici per prodotti o servizi identici, e dall’altro in relazione a quella dell’art. 5.2 della medesima Direttiva, ossia all’ipotesi dell’indebito vantaggio/pregiudizio legati alla capacità distintiva o alla rinomanza del marchio.

Sotto il primo profilo i Giudici comunitari confermano la loro impostazione per cui l’identità di segni e prodotti non configura un’ipotesi di tutela «assoluta», perché essa è comunque subordinata all’interferenza dell’uso del terzo con una delle funzioni del marchio; sotto il secondo essi considerano le diverse ipotesi sia di pregiudizio, sia di indebito vantaggio, riconducendo sostanzialmente le prime alle classiche figure del blurring e del tarnishment, già da lungo tempo note all’esperienza giuridica nord-americana, mentre sotto il secondo parlano per la prima volta esplicitamente di «parassitismo», identificandolo «in particolare» nel «caso in cui, grazie ad un trasferimento dell’immagine del marchio o delle caratteristiche da questo proiettate sui prodotti designati dal segno identico o simile, sussista un palese sfruttamento parassitario nella scia del marchio che gode di notorietà» (punto 74 della decisione).

Sennonché proprio la rigidità classificatoria impedisce alla Corte in questo caso di cogliere con chiarezza l’elemento unificante di tutte queste ipotesi, che invece emergeva con chiarezza da altre precedenti pronunce, e cioè il valore del marchio come simbolo di un messaggio (o, se si preferisce, la funzione di comunicazione del marchio, che riassume in sé tutte le altre) che fa scattare la tutela ogni volta che nell’uso non autorizzato di un segno eguale o simile ad esso vi sia un richiamo a tale valenza simbolica non giustificato da altre esigenze prevalenti. La rigidità di questo schema emerge con chiarezza proprio in relazione al ragionamento svolto dalla Corte in relazione alle “funzioni” del marchio, per la quale i Giudici europei propongono una “nuova” e discutibile tripartizione, parlando al riguardo di funzione d’origine, funzione pubblicitaria e funzione di investimento, dove, se la prima è ovviamente quella “classica”, che sino all’attuazione della Direttiva segnava da noi il limite alla protezione del marchio, la seconda non viene invece definita, ma è genericamente ricondotta all’«utilizzo pubblicitario di un marchio … da parte del suo titolare» (punto 55 della decisione) e giustapposta alla (ulteriore) funzione d’investimento, intesa come connessa al fatto che il marchio venga «utilizzato dal suo titolare per acquisire o mantenere una reputazione che possa attirare i consumatori e renderli fedeli» (punti 60-61).

La sentenza segna comunque un passo avanti là dove sottolinea che l’uso del marchio altrui come parola-chiave è potenzialmente lesivo non solo della prima (sui presupposti già indicati nella sentenza Google), ma anche di questa terza funzione del marchio, sul presupposto che «il marchio gode già di una reputazione» e «qualora l’uso da parte del terzo di un segno identico a tale marchio per prodotti o servizi identici leda tale reputazione e metta quindi in pericolo la conservazione della stessa» (punto 63 della sentenza), e cioè sostanzialmente alle stesse condizioni per cui il marchio è tutelato contro tarnishment e blurring; analogamente il «parassitismo» è ravvisato nell’ipotesi in cui «l’inserzionista si inserisce nella scia di un marchio che gode di notorietà, al fine di beneficiare del suo potere attrattivo, della sua reputazione e del suo prestigio, nonché al fine di sfruttare, senza qualsivoglia compensazione economica e senza dover operare sforzi propri in proposito, lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio per creare e mantenere l’immagine di detto marchio» (punto 89).

Secondo la Corte, uno spazio di liceità per gli AdWords costituiti dal marchio altrui si può quindi ravvisare solo quando in questo modo l’inserzionista intenda offrire «un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio che gode di notorietà» e lo faccia «senza offrire una semplice imitazione dei prodotti e dei servizi del titolare di tale marchio, senza provocare una diluizione o una corrosione e senza nemmeno arrecare pregiudizio alle funzioni di detto marchio» (punto 91), così riconducendo la sfera di liceità essenzialmente alle ipotesi in cui sussista un «giusto motivo» per l’uso del marchio altrui, secondo la previsione dell’art. 5.2 della Direttiva, richiamata espressamente nel punto 89 della decisione: in pratica, come la Corte aveva già indicato in altre pronunce, anche in materia di pubblicità, quando vi sia la necessità dell’uso del marchio altrui per consentire una concorrenza effettiva. E anche questo conferma che è appunto qui, nel giusto motivo, e nella conseguente ricerca di un punto di equilibrio tra concorrenza ed esclusiva, che va cercato il nuovo confine della tutela dei marchi e conseguentemente è su questo punto che le imprese dovranno prestare la massima attenzione, anche sul piano probatorio, per ottenere una tutela adeguata dei loro diritti.

I NUOVI SCENARI: I SERVIZI PUBBLICITARI MIRATI

Le parole chiave non sono però l’ultima frontiera della pubblicità via web: i servizi di posizionamento mirato dei banners pubblicitari sui vari siti Internet, collocati in base al comportamento del navigatore, oppure in base all’inerenza col contenuto del sito visitato, ma in entrambi i casi abbinando i riferimenti ad un marchio famoso – perché cercato dall’utente o menzionato, legittimamente, nel sito – con pubblicità e links a siti di terzi che invece a quel marchio erano totalmente estranei: il che presuppone necessariamente un’analisi magari automatizzata, ma comunque mirata e quindi un controllo dei contenuti del sito nel quale banners e links sono inseriti, ovvero di quelli visitati dai surfers. E lo stesso accade nei social networks, spesso utilizzati come veicoli per pubblicità di prodotti-copia, ma anche abbinati, sempre in modo “mirato” a banners e links che fanno riferimento ai contenuti inseriti dagli utenti nelle pagine in questione.

In tutti questi casi è anzitutto evidente la responsabilità dell’inserzionista, che può evitare senza difficoltà questi abbinamenti, esattamente come avviene nel caso dei servizi di keywords, dove è possibile escluderli semplicemente abbinando una keyword negativa (il segno meno seguito dal marchio che non si desidera abbinare), per evitare ogni rischio: ed è chiaro che, ogni volta che il contenuto dei banners ed i segni che vi vengono usati, si prestano a indurre il consumatore.

Rispetto al servizio “Adsense” di Google e simili, siamo riusciti finalmente a chiarire come in realtà il placement delle varie inserzioni non sia esclusivamente gestito dal titolare del sito sul quale esse appaiono (cosa che francamente mi pareva strana), ma anche dal singolo inserzionista (che può scegliere i siti su cui vuole che appaia la sua pubblicità). Il Dott. Sicard ha giustamente sottolineato che il compito di “piazzare” la pubblicità sui siti più interessanti per l’inserzionista è compito dell’agenzia pubblicitaria ma è effettivamente emersa la possibilità che l’ISP fornisca al singolo inserzionista o ai suoi intermediari tutta una serie di informazioni utili per aumentare l’efficacia dell’investimento promozionale (eventualmente riferito a prodotti contraffattori): dato questo, che ove effettivamente confermato, potrebbe forse consentirci di argomentare la responsabilità diretta dell’ISP nell’illecito. Per quanto riguarda il servizio “Adwords” di Google e simili, invece, è apparentemente emerso come non solo l’acquisto della singola keywords (eventualmente in violazione di un diritto di marchio altrui) sia ad esclusiva discrezione dell’advertiser ma anche il formato e il contenuto del singolo annuncio pubblicitario. È stata tuttavia ventilata la possibilità che l’ISP fornisca al singolo advertiser una consulenza più o meno “automatica” per la scelta del contenuto del singolo annuncio (elemento su cui, come noto, la nostra giurisprudenza si è molto concentrata per la valutazione della valenza illecita delle keywords: per tutti cfr. Trib. Bologna 1 luglio 2011 n. 1742, inedita. Sul punto però, anche se meno chiaramente, cfr. anche CGCE C-278/08): occorre dunque approfondire il punto chiarendo se vi sia effettivamente tale tipo di consulenza e, soprattutto, quale sia la sua effettiva portata.

Per quanto riguarda Ebay e gli altri siti di aste online, si è chiarita la sostanziale impossibilità per l’ISP di riconoscere l’eventuale utente – bannato per ripetuta violazione delle regole anticontraffazione – che volesse reiscriversi al servizio offerto dall’ISP mediante la creazione di un nuovo e diverso account (impossibilità questa che, innegabilmente, rafforza la prevedibile linea difensiva avversaria concentrata sul fatto di porre in essere tutto quanto materialmente possibile per ostacolare gli illeciti). Occorrerà quindi, anche in questo caso, concentrarsi sulla ricerca e l’acquisizione di tutte le informazioni possibili relative alla materiale assistenza fornita dalla piattaforma alla propria clientela per il miglioramento prestazionale del business (assistenza di per sé certa ma i cui contorni andrebbero provati). Sul punto occorrerebbe inevitabilmente acquisire direttamente delle prove, vuoi creando un account fittizio (che andrebbe naturalmente “protetto” da contestazioni da parte dei titolari delle privative) che, pur vendendo materiale contraffatto, ottenga – eventualmente sollecitandola – assistenza da parte dell’ISP o, meglio ancora, convincendo un c.d. “power seller” a farci da “talpa”.

Con riferimento, infine, alla situazione dei social network si è condivisa l’opportunità di condurre comunque una ricerca sull’eventuale supporto dato dall’ISP ai propri inserzionisti nonostante il fondato dubbio che, con riferimento a questa particolare tipologia di ISP, vi possa essere una effettiva partecipazione diretta nel placement delle inserzioni.

CESARE GALLI è titolare della cattedra di Diritto industriale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma e Avvocato, a capo di uno Studio specializzato in Intellectual Property con sede principale a Milano e succursali a Parma, Brescia e Verona. Definito dalla Guida Chambers, “A formidable academic and formidably well-prepared pratictioner”, dal 2002 figura nelle guide specializzate internazionali come uno dei maggiori specialisti italiani nella difesa della proprietà industriale.

Nel corso della sua attività si è occupato di importanti cause, in Italia e all’estero, relative a tutte le branche del Diritto industriale, in particolare marchi e domain names, brevetti per invenzioni e modelli, industrial design e denominazioni di origine, ed affrontando più volte problematiche di carattere internazionale e con aspetti cross-border (quest’ultimo tema ha anche costituito l’oggetto di un suo noto articolo).

Nel 1999 ha ottenuto la prima sentenza italiana di merito in materia di brevetti biotecnologici. Nel 2004 ha egualmente ottenuto la prima decisione italiana che riconosce la validità di un brevetto relativo a una computer implemented invention. Tra il 2005 e il 2012 ha fatto concedere alcuni tra i provvedimenti più innovativi ed avanzati a tutela del segreto industriale e dei marchi rinomati e per la repressione del look-alike, tra cui la sentenza della Corte di Giustizia europea che ha obbligato il Governo italiano a tutelare più efficacemente l’industrial design.

Di pari passo con lo svolgimento della sua attività professionale, l’avv. prof. Cesare Galli ha percorso tutta la carriera universitaria sino al conseguimento della cattedra (Dottore di ricerca: 1995; Professore associato: 1998; Professore ordinario: 2000), ed ha al suo attivo un grande numero di pubblicazioni in materia di marchi, brevetti e diritto d’autore, tra cui un commentario di quasi 4.000 pagine su tutte le norme nazionali e comunitarie in materia di proprietà industriale e intellettuale vigenti in Italia (GALLI-GAMBINO, Codice commentato della propria industriale e intellettuale, Torino, UTET-Wolters Kluwer, 2011) ed i volumi: Il diritto transitorio dei marchi (Milano, Giuffré, 1994); Funzione del marchio e ampiezza della tutela (Milano, Giuffré, 1996); I domain names nella giurisprudenza (Milano, Giuffré, 2001); e La nuova legge marchi² (Milano, Giuffré, 2001, quest’ultimo scritto insieme al Prof. Vanzetti); Il futuro dei marchi e le sfide della globalizzazione (Padova, CEDAM, 2002 – curatore e autore di uno dei saggi); Le nuove frontiere del diritto dei brevetti (Torino, Giappichelli, 2003 – curatore e autore di uno dei saggi); Codice della Proprietà Industriale: la riforma 2010 (Milano, IPSOA Wolters Kluwer, 2010); Guida alle garanzie sui diritti di proprietà industriale e intellettuale (Bologna, Filodiritto Editore, 2011 – curatore e autore di uno dei saggi).

Membro di INDICAM e di AIPPI, nella prima è Consulente Permanente del Comitato Direttivo e della seconda fa parte del Comitato Esecutivo del Gruppo italiano ed è responsabile del Gruppo di studio sui marchi. A livello internazionale è stato delegato italiano ai Congressi AIPPI di Ginevra del 2004, di Berlino del 2005, di Singapore del 2007 e di Boston del 2008; al Congresso AIPPI di Göteborg dell’ottobre 2006 è stato Co-Chairman del Working Committee internazionale su marchi e denominazioni di origine ed a quello di Singapore dell’ottobre 2007 è stato Chairman del Working Committee internazionale sulle limitazioni alla protezione dei marchi.

Nel 2004, in occasione del varo del Codice della Proprietà Industriale, è stato sentito come esperto dalla Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati. Nel 2005 è stato chiamato a far parte della Commissione di esperti costituita presso il Ministero delle Attività Produttive per la revisione del Codice, che ha poi predisposto il testo dell’attuazione italiana della Direttiva n. 2004/48/C.E. e nel 2009-2010, di quella che ha varato la riforma del 2010 del Codice della Proprietà Industriale, oltre ad essere consultato dalla Direzione Generale per la predisposizione della circolare interpretativa volta a limitare l’impatto negativo della nuova norma relativa all’apposizione dei marchi italiani su prodotti realizzati all’estero, circolare di cui ha dettato le linee fondamentali a tutela delle attività pregresse delle imprese italiane, ed ha quindi predisposto uno schema di nuova disciplina sulla contraffazione a mezzo della rete web. Dal 2006 ha fatto parte del Comitato tecnico-scientifico istituito in seno all’Alto Commissario per la Lotta alla Contraffazione, fino alla sua soppressione, e poi è stato nominato Esperto Giuridico della Presidenza del CNAC-Consiglio Nazionale Anti-Contraffazione, che ha preso il posto dell’Alto Commissario.

Nel 2009 è stato chiamato a far parte del Gruppo di Lavoro sui Marchi e la Lotta alla Contraffazione di Confindustria e nel 2011 anche del Gruppo di Lavoro sulla Proprietà Intellettuale, sempre presso Confindustria, per la quale ha presieduto due panels di discussione in occasione delle due Giornate Nazionali per la Lotta alla Contraffazione da essa organizzate rispettivamente nel 2009 e nel 2011.

Sempre dal 2009 fa parte dell’European Counterfeiting and Piracy Observatory istituito in seno alla DG Markt della Commissione Europea, in rappresentanza delle imprese private italiane, dove ha attivamente operato nella ricognizione sull’attuazione della Direttiva Enforcement, nella prospettiva della sua possibile revisione.