x

x

Criminalità organizzata e responsabilità degli enti: una storia sbagliata

Organized crime and corporate liability: a wrong story
Criminalità organizzata
Criminalità organizzata

Articolo pubblicato nella sezione Il confronto col legislatore del numero 1/2020 della Rivista "Sistema 231".

 

Half the time, I don't even know what I'm sayin' it about

Mac Miller, Good news

 

Abstract

Lo scritto è un’analisi dell’art. 24-ter del decreto legislativo 231/2001 che ha esteso la responsabilità da reato degli enti alla criminalità organizzata e serve a verificare se la norma abbia raggiunto i suoi scopi o, in caso negativo, da cosa sia stata ostacolata.

La verifica ha una base empirica ed è fondata soprattutto su dati statistici.

The paper is an analysis of art. 24-ter of Legislative Decree 231/2001 which extended the corporate liability to organized crime and serves to verify whether the law has achieved its aims or, if not, by what has been hindered.

The verification has an empirical basis and is mainly based on statistical data.

 

Sommario

1. Premessa

2. La nozione di criminalità organizzata

3. Il campo di osservazione

4. La consistenza delle organizzazioni criminali

5. I profitti del crimine organizzato: l’economia non osservata (sommersa e illegale)

6. La responsabilità da reato degli enti nelle strategie di contrasto alla criminalità organizzata

7. Le ragioni della disapplicazione

7.1 Le criticità connaturali all’art. 24-ter nel dibattito dottrinario

7.2 Le evidenze statistiche sull’uso degli strumenti di contrasto diversi dall’azione 231

8. Riflessioni finali

 

Summary

1. Introduction

2. The notion of organized crime

3. The field of observation

4. The consistency of criminal organizations

5. The profits of organized crime: the non-observed economy (underground and illegal)

6. Crime liability of entities in strategies to combat organized crime

7. The reasons for the disapplication

7.1 The connatural criticalities of art. 24-ter in the doctrinal debat

7.2 Statistical evidence on the use of law enforcement tools other than action 231

8. Final reflections

 

1. Premessa

Sono passati quasi vent’anni dall’introduzione del d.lgs. 231/2001 nel nostro ordinamento.

È un tempo più che sufficiente per verificare se e in che misura siano state soddisfatte le aspettative allora riposte nel nuovo strumento e se il “sistema 231” sia divenuto un asset effettivo nelle strategie della magistratura inquirente impegnata nel contrasto alla criminalità d’azienda.

La verifica qui proposta, pur inserendosi in questo ampio spazio di riflessione, nasce da un interesse specifico e si focalizza su un oggetto altrettanto specifico.

Si vuole infatti testare la coerenza dell’attuale assetto del decreto 231 agli scopi per la cui realizzazione fu emanato e si intende farlo in direzione di uno dei tanti interventi additivi che hanno esteso in misura più che significativa il catalogo originario dei reati che consentono l’azione di responsabilità verso gli enti.

Viene da pensare all’art. 14 l. 146/2005 (dettagliata nel tempo – da ultimo nel 2018 - da varie fonti regolamentari) che, in un’ottica di semplificazione normativa, introdusse l’AIR (analisi impatto regolatorio) e la VIR (valutazione impatto regolatorio).

Il legislatore ritenne saggio dotarsi di strumenti che permettessero una valutazione sia preventiva che successiva degli effetti prodotti dagli atti normativi su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni.

In particolare, la valutazione successiva doveva fornire, passato un sufficiente periodo di tempo dall’entrata in vigore di una certa disciplina normativa, informazioni sulla sua efficacia, sull’impatto prodotto sui destinatari, sull’eventuale insorgenza di effetti non previsti, sulle criticità emerse e sull’eventuale necessità di revisioni.

Se l’art. 14 fosse stato preso sul serio, questo lavoro sarebbe inutile: sapremmo già quali stime e previsioni hanno spinto il legislatore a intervenire così tante volte sull’impianto del decreto 231, perché ha privilegiato alcune prospettive piuttosto che altre, se gli scopi perseguiti sono stati realizzati, se sono seguiti effetti non previsti o criticità inaspettate.

Ma così non è stato: non risultano analisi ufficiali assimilabili a una valutazione d’impatto sulla disciplina che qui interessa e, come si vedrà, sono frammentari e disomogenei anche i dati di diversa provenienza che con essa hanno a che fare, direttamente o indirettamente.

Sicché, si può solo sperare che sia sottoposta a VIR la legge istitutiva della VIR e nell’attesa proporre valutazioni artigianali e soggettive.

Come anticipato, esse riguardano un singolo intervento additivo, quello dovuto all’art. 2, comma 29, l. 94/2009 (a suo tempo nota come Pacchetto sicurezza), da cui è derivato l’attuale art. 24-ter del decreto 231, rubricato “Delitti di criminalità organizzata[1].

Nei paragrafi successivi, dopo qualche passaggio definitorio, si proverà a verificare l’impatto concreto di questa estensione applicativa e, di riflesso, la sua adeguatezza e utilità.

 

2. La nozione di criminalità organizzata

La rubrica dell’art. 24-ter rimanda ad un ambito applicativo genericamente denominato “criminalità organizzata”.

Sono disponibili plurime fonti, normative, giurisprudenziali e dottrinarie, ove si voglia definire in modo sufficientemente accurato quell’espressione.

Il paradigma normativo, facilmente identificabile nella struttura essenziale dell’associazione a delinquere (tre o più persone associate per commettere una pluralità di delitti), trova ulteriore specificazione nell’associazione mafiosa, in particolare nella sua necessaria finalizzazione all’acquisizione della gestione o del controllo di attività economiche da cui trarre profitti o vantaggi ingiusti.

La presa d’atto delle più frequenti proiezioni del crimine organizzato, unitamente all’opportunità di accentrare presso un ufficio specializzato del pubblico ministero la competenza alla trattazione dei relativi procedimenti, hanno generato i commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 cod. proc. pen. che delimitano l’area della competenza funzionale delle direzioni distrettuali antimafia.

Per la stessa ragione l’elenco dei delitti menzionati specificamente nel testo dell’art. 24-ter coincide in buona parte con l’ambito di quei due commi.

Sempre alla stessa fonte normativa si sono ispirate le sezioni unite penali della Cassazione allorché, con la notissima sentenza Scurato[2], hanno delimitato l’area dei delitti di criminalità organizzata, includendovi tutte le fattispecie comprese nei commi 3-bis e 3-quater e tutti gli altri delitti “comunque facenti capo ad un’associazione a delinquere”.

È a questo punto ragionevole affermare che nella visione del legislatore cui si deve l’intervento additivo del 2009 l’espressione criminalità organizzata è riferibile a fenomeni criminali caratterizzati dall’esistenza di un organismo pluripersonale, stabile e organizzato quanto basta per programmare il compimento di una pluralità indeterminata di delitti ed il cui scopo ultimo sia l’acquisizione diretta o indiretta di vantaggi di rilievo economico.

 

3. Il campo di osservazione

La verifica dell’impatto applicativo dell’art. 24-ter richiede dati certi o almeno sufficientemente attendibili sulle dimensioni del fenomeno complessivamente identificato come criminalità organizzata e sui profitti che è in grado di generare.

Sarebbe infatti impossibile comprendere se siano state sfruttate adeguatamente le opportunità offerte dalla norma sapendo poco o nulla delle dimensioni del suo oggetto.

Nei paragrafi che seguono si proverà allora a misurare la consistenza di questi due insiemi, indicando di volta in volta le fonti di riferimento.

 

4. La consistenza delle associazioni criminali

Questa parte dello scritto ha lo scopo di individuare la dimensione quantitativa degli organismi che possono essere fatti rientrare nella nozione di criminalità organizzata.

Come è ovvio, posto che il campo di osservazione è costituito da gruppi di persone la cui stessa aggregazione ha un rilievo penale, i dati di maggiore peso statistico e di più elevata attendibilità sono quelli di provenienza istituzionale, raccolti ed elaborati per i rispettivi compiti funzionali dalle forze di polizia (in particolare dalle articolazioni in prima linea nell’intelligence e nella repressione dei delitti propri della criminalità organizzata) e dagli uffici giudiziari (particolarmente quelli che operano nella giurisdizione penale e nella materia della prevenzione personale e patrimoniale).

Fatta questa premessa, la prima e obbligata fonte di riferimento è rappresentata dai report periodici della Direzione investigativa antimafia (DIA) alla quale l’art. 108 del d.lgs. 159/2011 (meglio noto come codice antimafia) affida “il compito di assicurare lo svolgimento, in forma coordinata, delle attività di investigazione preventiva attinenti alla criminalità organizzata, nonché di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili all’associazione medesima”.

Una funzione nevralgica, quindi, cui corrisponde una struttura tale da assicurare un forte collegamento con ogni parte del territorio nazionale e il cui patrimonio conoscitivo è alimentato da tutte le forze di polizia, non solo per la sua natura di organismo interforze ma anche per l’obbligo, sancito dal quarto comma dell’art. 108 e posto a carico di tutti gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, di “fornire ogni possibile cooperazione al personale investigativo della D.I.A.”.

Si prenderà in considerazione l’ultima relazione semestrale della DIA[3], inerente al secondo semestre del 2019.

Il documento, oltre che gli aggiornamenti del periodo di riferimento, contiene tabelle di dati estese al quinquennio 2015-2019. La serie che qui interessa è divisa per regioni e, per ciascuna di esse, indica due insiemi: le persone denunciate o arrestate e i reati denunciati. Entrambi i gruppi di dati sono riferiti soltanto alle fattispecie monitorate dalla DIA per i suoi compiti d’istituto[4].

I risultati, relativi alle 10 regioni con i numeri più alti, sono sintetizzati nella tabella che segue.

Regione

Persone denunciate o arrestate

Reati denunciati

Campania

76.050

68.904

Lombardia

69.410

63.910

Lazio

54.766

47.164

Sicilia

52.045

47.510

Puglia

40.966

36.027

Emilia Romagna

33.649

28.741

Toscana

30.323

25.104

Piemonte

30.145

27.578

Veneto

27.793

19.819

Calabria

25.395

14.46

Se si restringe il campo di osservazione ai soli reati di tipo associativo o a questi più strettamente connessi (associazione a delinquere, associazione mafiosa, reati aggravati dall’uso del metodo mafioso e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti), ne viene fuori questo secondo elenco, anch’esso limitato alle medesime 10 regioni.

Regione

Persone denunciate o arrestate

Reati denunciati

Campania

16.181

1.424

Sicilia

12.535

866

Lombardia

8.545

643

Calabria

8.340

626

Puglia

7.093

411

Lazio

6.344

516

Emilia Romagna

3.176

285

Veneto

2.806

258

Toscana

2.695

263

Piemonte

2.142

278

Si può infine citare un ultimo dato di derivazione DIA [5] che ha il pregio di coprire un arco temporale di quasi un trentennio (1992/primo semestre 2020) ma anche il difetto di essere assai grezzo poiché si riferisce al mero dato numerico (senza alcuna specificazione ulteriore) delle ordinanze cautelari emesse nei confronti di esponenti delle quattro mafie tradizionali individualmente considerate e dell’insieme indistinto di tutte le altre:

Organizzazione criminale

Numero delle ordinanze cautelari

Camorra

3.217

‘Ndrangheta

2.800

Cosa nostra

2.290

Criminalità

organizzata pugliese

810

Altre

1.636

Totale

10.653

Esposti tutti i numeri resi disponibili dalle elaborazioni statistiche della DIA, si deve prendere atto di una caratteristica che ne affievolisce non poco la rappresentatività: i dati, riferendosi a persone denunciate o arrestate e a reati denunciati, rappresentano adeguatamente le fasi d’avvio dei procedimenti penali ma nulla dicono di quelle successive.

Si dovrebbe dunque cercare i dati sulle sentenze definitive così da avere un quadro dei risultati seguiti ai procedimenti aperti ma, per quanto strano possa apparire, mentre abbondano i dati sulle fasi iniziali dei procedimenti penali sono modesti, frammentari e scarsamente analitici quelli finali.

Si deve di conseguenza ricorrere a una pluralità di fonti.

La prima è la tabella ISTAT sui condannati con sentenza irrevocabile nell’anno 2017[6], l’unico per il quale risulta disponibile un’elaborazione di tal genere: se ne ricava che in quel periodo sono state condannate 855 persone per associazione a delinquere, 795 per associazione mafiosa, 2.475 per estorsione, 31 per sequestro di persona a scopo di estorsione, 2004 per riciclaggio, 208 per usura, 2.421 per violazione della legge sulle armi e 24.564 per violazione della legge sugli stupefacenti.

Non può sfuggire che l’ultima e più numerosa categoria di condannati contiene una notevole parte di devianza derivante dalla condizione di dipendenza degli interessati ma serve comunque a dare un’idea di massima delle conseguenze penali di un business che ai livelli più alti del mercato è affare esclusivo della criminalità organizzata.

La seconda fonte è l’annuario statistico della Cassazione penale per l’anno 2019 redatto dall’ufficio statistico della Corte suprema[7] che ha il vantaggio di offrire dati estesi all’ultimo quinquennio disponibile, cioè gli anni 2015/2019.

È bene precisare che lo scopo del documento è di evidenziare il lavoro fatto dalle sezioni penali della Corte sicché i dati numerici rappresentano i ricorsi depositati presso la sua cancelleria e il loro esito. Gli stessi dati sono poi classificati in modo da consentire di comprendere la produttività, i tempi di lavorazione, la differenziazione per grandi voci.

Chiarito questo aspetto e precisato che sono state scelte le grandi voci di reato più indicative ai fini dello scritto, si può senz’altro iniziare dalla tabella 3.2[8] (pagina 8 dell’annuario) denominata “Procedimenti iscritti: classificazione per grandi voci di reato”.

Si apprende che tra il 2015 e il 2019 sono stati iscritti 30.809 ricorsi per violazione della normativa sugli stupefacenti, 5.944 per associazione a delinquere ordinaria o mafiosa, 3.044 per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e 150 per sequestro di persona a scopo di estorsione.

Si prosegue con la tabella 4.8 (pagina 21) denominata “Procedimenti definiti: classificazione per grandi voci di reato” dalla quale si ricava che nel medesimo periodo sono stati definiti 32.215 ricorsi per violazione della normativa sugli stupefacenti, 6.100 per associazione a delinquere ordinaria o mafiosa, 3.098 per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e 159 per sequestro di persona a scopo di estorsione.

Si conclude con la tabella 4.8, dettaglio 1 (pagina 23) denominata “Procedimenti definiti: classificazione per grandi voci di reato e esito”. A differenza delle precedenti, essa si riferisce al solo anno 2019.

Se ne ricava che in tale periodo: in tema di violazioni della legge sugli stupefacenti sono stati rigettati o dichiarati inammissibili 4.762 ricorsi ed è stato disposto l’annullamento con o senza rinvio per 1.348 ricorsi; in tema di delitti associativi sono stati rigettati o dichiarati inammissibili 863 ricorsi ed è stato disposto l’annullamento con o senza rinvio per 298 ricorsi; in tema di associazione finalizzata al narcotraffico sono stati rigettati o dichiarati inammissibili 472 ricorsi e si è disposto l’annullamento con o senza rinvio per 156 ricorsi; in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione 13 ricorsi sono stati rigettati o dichiarati inammissibili e per 7 ricorsi è stato disposto l’annullamento con o senza rinvio.

La terza e ultima fonte è la tabella dei detenuti presenti al 30 giugno 2020 divisi per tipologia di reato redatta dall’ufficio statistica del ministero della Giustizia[9].

A quella data risultano presenti nei penitenziari nazionali 7.262 detenuti italiani e 176 stranieri per associazione mafiosa nonché 18.989 detenuti italiani e 6.668 stranieri per violazione della normativa sugli stupefacenti.

Le tre fonti statistiche appena esposte, considerate sia singolarmente che nel loro insieme, sono ben lontane dall’assicurare l’accuratezza desiderata.

La tabella ISTAT si riferisce a un solo anno: equivale quindi a un fotogramma e impedisce di apprezzare i flussi di interesse nel loro divenire.

L’annuario statistico della Cassazione penale, parametrato com’è sui ricorsi e sull’anno del loro deposito e della loro definizione, non consente di stimare il numero delle persone giudicate e neanche di comprendere con la dovuta accuratezza se i giudizi si siano conclusi con la conferma o la sconfessione dell’ipotesi accusatoria di partenza, non essendo specificato se gli annullamenti e i rigetti siano seguiti a ricorsi degli imputati o dell’accusa pubblica o privata.

La tabella dei detenuti presenti classificati per tipologia di reati non consente di comprendere chi di loro sia in attesa di giudizio, chi sia condannato non definitivo, chi sia condannato definitivo.

A questi deficit di non poco conto si aggiunge poi un’altra caratteristica negativa: ogni fonte rappresentativa è organizzata secondo un proprio criterio, espone le voci che ritiene significative per i propri fini e le ordina e classifica secondo i propri criteri.

Non è dato quindi porre in comparazione queste diverse rappresentazioni e si è costretti a servirsene in modo soggettivo e per ciò stesso arbitrario.

Ciò nondimeno, anche una raccolta artigianale come questa permette di mettere a fuoco una verità indiscutibile ed avvertita come tale dall’opinione pubblica prima e a prescindere dalle evidenze statistiche: la criminalità organizzata è una realtà più che consolidata nei gangli della comunità; può contare su migliaia di affiliati, opera pressoché in ogni parte del territorio nazionale, è ben presente nella consapevolezza del legislatore, dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia, è destinataria di veri e propri corpi normativi che consentono un’ampiezza di intervento senza precedenti nella storia repubblicana.

 

5. I profitti del crimine organizzato: l’economia non osservata (sommersa e illegale)

Si prendono a prestito, come indispensabile premessa di questo paragrafo, alcune considerazioni espresse dall’economista e statistico Guido Rey nell’introduzione ad una ricerca collettiva sulla mafia come soggetto imprenditoriale[10]: “In generale, le informazioni e le statistiche sull’economia criminale fornite da indagini estemporanee si qualificano per la loro inaffidabilità. Sovente trascurano di definire in modo esauriente e corretto le fonti dei dati, le metodologie, le norme di riferimento, l’errore atteso, i sistemi di controllo dei risultati, la qualificazione e la quantificazione dei soggetti coinvolti, la loro localizzazione operativa, la specificazione dei ruoli e le attività nelle quali opera la criminalità organizzata […] L’insieme delle attività criminali e di quelle legali-criminali confluisce nel giro d’affari, nel profitto e quindi nel patrimonio delle organizzazioni criminali. Non mancano le più svariate, cervellotiche e in ogni caso incontrollabili e indefinite stime della dimensione monetaria e finanziaria dell’economia criminale. In molti casi, non è definito l’oggetto della stima: produzione, fatturato, valore aggiunto, profitto, ecc. A volte si trascura di evidenziare eventuali duplicazioni poiché numerose informazioni sulle attività economiche criminali, oppure da queste derivate, sono incorporate nelle attività economiche legali”.

Merita ugualmente di essere segnalata l’opinione, fondata su argomenti differenti ma complementari a quelli di Rey, di Costantino Visconti[11]: “Se si intende affrontare con spirito riformistico il tema delle strategie di contrasto alla criminalità in generale, e di quella mafiosa in particolare, occorre preliminarmente fare i conti con un problema che pesa come un macigno sulla stessa possibilità di sviluppare i prolegomeni di un discorso razionale. Approcci “scientifici”, cioè fondati su conoscenze scientifiche di tipo specialistico, su analisi metodologicamente rigorose e ove possibile basati su ricerche empiriche, rischiano di andare “controvento” e rimanere per lo più inascoltati nel circuito mediatico, con il conseguente effetto di avere scarsa audience anche presso i decisori istituzionali”.

Alle condivisibili considerazioni di Rey e Visconti si sommano ulteriori ostacoli.

Sono fin troppo ovvie infatti le difficoltà insite in una misurazione che i produttori dei profitti provano ad ostacolare con ogni schermo possibile.

È anche scontato che il valore di alcune delle voci che sarebbe opportuno inserire nella misurazione sia troppo vago ed elastico per essere utilmente stimato.

Quanto vale per una cosca l’acquisizione del controllo di un territorio e del conseguente diritto a sfruttare parassitariamente le attività economiche che vi si svolgono e il patrimonio delle persone che vi risiedono? Quali profitti ci si può attendere da uno scambio elettorale politico – mafioso? Come si fa a stimare il valore di ognuno dei passaggi di una filiera criminale (ad esempio, vendita di sostanze stupefacenti > riciclaggio della liquidità riveniente dalla vendita > investimento della liquidità riciclata in ulteriori attività lecite o illecite)?

Si potrebbe obiettare che almeno alcuni degli esempi fatti non sono profitti in senso tecnico ma solo pre-condizioni che rendono possibile la successiva produzione di profitti. Sarebbe tuttavia un’obiezione solo parzialmente valida poiché quelle voci non sono altro che componenti dell’avviamento dell’”ente” cui si riferiscono, espressive della sua capacità di generare profitti nel tempo.

Comunque sia e a dispetto di tutte queste difficoltà, i dati esistono e sono a disposizione di chiunque.

Hanno derivazioni diverse, data la molteplicità delle istituzioni pubbliche e degli organismi privati che hanno il dovere o l’interesse di raccoglierli.

Riguardano ambiti diversi in dipendenza dello scopo per cui sono raccolti.

Sono acquisiti con metodologie disomogenee e spesso non consentono analisi spettrali.

L’insieme di queste caratteristiche rende sostanzialmente impossibile una loro corretta aggregazione ma ci si può comunque avvicinare all’ordine di grandezza cercato.

È necessario ancora un passaggio definitorio prima di passare ai numeri.

Secondo la nomenclatura ISTAT, l’economia non osservata (NOE, acronimo dell’espressione anglosassone Non-observed economy) si deve intendere come la porzione di attività economica di mercato che sfugge all’osservazione diretta della statistica ufficiale e pone problemi particolari nella misurazione statistica[12].

La NOE comprende l’economia sommersa, che risulta essenzialmente dall’occultamento al fisco del valore aggiunto prodotto da attività economiche, e l’economia illegale generata dalla produzione di beni e servizi la cui vendita, produzione e possesso sono vietati dalla legge o dal compimento di attività legali che diventano illegali in quanto svolte da operatori non autorizzati.

Sono considerati componenti della prima tipologia di economia illegale la produzione e il commercio di stupefacenti, le attività di prostituzione e il contrabbando di tabacchi.

La priorità attribuita a questi settori deriva da una raccomandazione di EUROSTAT del 1996 (a sua volta recettiva di un suggerimento dell’ufficio statistico dell’ONU) che invitò gli Stati membri dell’Unione europea a evidenziarli nella contabilità nazionale in quanto rappresentativi delle più diffuse attività illegali.

Un’ulteriore spiegazione dell’attenzione accordata a tali attività è che vengono presi in considerazione solo i flussi economici generati da un mutuo accordo tra i soggetti che li producono il che, per converso, comporta l’esclusione degli illeciti – si pensi ai furti o alle estorsioni – nei quali manca quel requisito[13].

Non può sfuggire tuttavia che le aree di interesse della criminalità organizzata e le modalità di esercizio dell’economia illegale sono ben più ampie di quelle prese in considerazione dall’ISTAT e dalle altre istituzioni, tra le quali in primo piano il ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), cui spetta la misurazione dell’economia pubblica.

Basti pensare, riguardo al primo aspetto e a tacer d’altro, alla massiccia presenza delle organizzazioni criminali nei mercati dell’usura, del gioco d’azzardo, dello smaltimento di rifiuti tossici, del traffico d’armi, senza poi menzionare, per l’ovvietà della constatazione, le rendite derivanti da business tradizionali quali, ad esempio, l’estorsione, l’acquisizione illecita di appalti o subappalti e altro ancora.

Così come, riguardo al secondo aspetto, dovrebbero essere comprese nella nozione di economia illegale i servizi legali alle attività illegali e perfino le produzioni legali offerte sui mercati legali se le imprese da cui provengono siano sotto il controllo di un esponente del crimine organizzato[14].

Preso atto dell’insufficienza dei dati, a sua volta derivante dalla mancata rilevazione di voci assai rilevanti dell’economia illegale, si procederà comunque alla descrizione di quelli disponibili, nella convinzione che anche un ordine di grandezza incompleto e sottostimato può essere utile per la verifica oggetto di questo scritto.

Si inizierà dai più recenti dati elaborati dall’ISTAT e dal dipartimento Finanze del MEF[15] che hanno il pregio di essere raggruppati secondo la bipartizione economia sommersa – economia illegale seguita dall’istituto di statistica.

L’ultimo report ISTAT, risalente ad ottobre 2019, prende in esame il quadriennio 2014/2017 e, riguardo all’ultimo anno analizzato, valuta l’economia sommersa in 191.955 milioni di euro che incidono sul PIL in ragione dell’11,5% e l’economia illegale in 18.896 milioni di euro (1,1% del PIL). L’economia non osservata nel 2017 ha quindi un peso complessivo di quasi 211.000 milioni di euro e vale il 12,1% del PIL italiano.

Le analisi ISTAT sono pressoché sovrapponibili a quelle del MEF.

Alle misurazioni provenienti da attori istituzionali si aggiungono quelle contenute in varie ricerche svolte in ambito accademico o curate da organismi rappresentativi di categorie professionali o emanazione esterna di articolazioni istituzionali o da singoli studiosi.

Si possono citare in questo secondo ambito anzitutto gli Stati generali della lotta alle mafie (organismo di esperti divisi in 16 tavoli specializzati, costituito dal ministro della Giustizia con decreto del 20 settembre 2016). Nella relazione illustrativa dell’esito dei lavori risalente alla fine del 2017[16], si citano (pagg. 39 e ss.) alcune stime (Herwartz et al. 2015, Boccuzzi, Iuzzolino, Sarnataro, 2013) secondo le quali l’economia sommersa rappresenterebbe oltre il 20% del PIL ed altre (Transcrime[17]) per le quali il giro d’affari delle attività illegali equivarrebbe a circa 25,7 miliardi di euro.

È ugualmente di rilievo la ricerca di sintesi pubblicata nel 2014 da UNIONCAMERE sulla misurazione delle varie forme di economia illegale[18]. Nel corpo della relazione sono citate varie ricerche e precisamente: il rapporto del 2012 di SOS IMPRESE, intitolato Le mani della criminalità sulle imprese, secondo il quale “le attività illegali producono un fatturato che si aggira intorno ai 140 miliardi di euro con un utile che supera i 100 miliardi di euro al netto degli investimenti e degli accantonamenti e 65 miliardi di euro di liquidità”; il secondo rapporto AGROMAFIE sui crimini agroalimentari elaborato da COLDIRETTI-EURISPES che stima un volume d’affari complessivo di circa 14 miliardi di euro nell’anno 2013; il rapporto UNICRI (United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute) del 2012 sul fenomeno della contraffazione pubblicato dal Ministero dello Sviluppo Economico, che attribuisce al crimine organizzato la gestione di questo settore illecito il quale, secondo stime CENSIS del 2012, vale poco meno di 7 miliardi di euro per anno; il rapporto di LEGAMBIENTE del 2012 che stima in circa 16,7 miliardi di euro il giro d’affari dei reati contro l’ambiente, 1, 7 miliardi quello dell’abusivismo edilizio, 6,7 miliardi quello degli appalti delle opere pubbliche, 700 milioni quello dell’inquinamento ambientale, 4,1 miliardi quello della gestione dei rifiuti speciali e urbani, 2,5 miliardi quello dei danni alla fauna selvatica.

Il lavoro di UNIONCAMERE risulta particolarmente prezioso poiché, sempre mediante la citazione di ricerche condotti da vari organismi specializzati, contiene un dettagliato elenco delle attività legali e illegali che costituiscono l’asse portante delle strategie economiche della “mafia imprenditrice”.

Sono state condotte nel tempo numerose altre ricerche di dettaglio che, per quanto significative, qui non mette conto menzionare poiché non aggiungerebbero molto alle stime appena elencate.

Pur con tutte le avvertenze ricordate all’inizio del paragrafo e con la duplice difficoltà di disporre di dati parziali e di assemblare dati disomogenei, una considerazione può essere fatta senza timore di smentite: i ricavi e i profitti del crimine organizzato e particolarmente del suo sottoinsieme mafioso sono talmente ingenti da essere misurati in miliardi di euro e giustificare finanche il calcolo della loro incidenza percentuale sul PIL nazionale.

Questo straordinario flusso finanziario è generato non solo dall’economia illegale propriamente detta ma anche da una quota non trascurabile dell’economia sommersa, essendo fisiologico che tra le attività di qualsiasi organismo criminale abbiano priorità quelle volte a nascondere all’amministrazione fiscale e a tutte le istituzioni pubbliche con competenze repressive i proventi delittuosi.

 

6. La responsabilità da reato degli enti nelle strategie di contrasto alla criminalità organizzata

I paragrafi precedenti sono serviti, sia pure in modo assai meno accurato di quanto sarebbe desiderabile, a determinare i due ordini di grandezza ai quali rapportare l’uso dell’azione di responsabilità da reato dell’ente consentito dall’art. 24-ter.

Occorrono adesso numeri che consentano di comprendere quante volte le procure della Repubblica esercitino tale azione e quali siano i suoi esiti, quanti “enti” siano coinvolti, se e come siano risolte le questioni della dimostrazione dell’interesse o vantaggio dell’ente e della determinazione degli individui indicati nelle lettere a) e b) dell’art. 5, comma 1, del decreto 231, se, infine, il “sistema 231” sia utilmente applicabile a organizzazioni chiamate in causa non solo per avere compiuto attività illegali ma, ancor prima, perché strutturalmente illegali.

Questa necessità di conoscenza – va già evidenziato - trova una modestissima risposta nei dati istituzionali disponibili.

Si è già osservato en passant, ma adesso serve spendere qualche parola in più, che i dati di fonte giudiziaria sono raccolti e ordinati prioritariamente per esigenze proprie dell’istituzione da cui promanano. La loro unità di base è sempre l’insieme dei procedimenti di competenza dell’ufficio che cura la raccolta. I campi messi in evidenza sono solitamente la massa numerica di inizio periodo, le sopravvenienze, gli smaltimenti e la massa numerica di fine periodo. Se la base statistica si allarga, ciò succede a vantaggio di voci che soddisfano le medesime esigenze: durata media dei procedimenti, classificazione dei loro esiti, diversificazione per grandi voci (id est, le più ricorrenti famiglie di reati o le tipologie di procedimento o di udienza o di provvedimento).

Questa caratteristica è strettamente correlata ai meccanismi regolatori della progressione in carriera dei magistrati ai quali viene richiesto periodicamente di dimostrare la loro capacità di smaltimento dei carichi di lavoro assegnatigli.

Ne viene fuori una sorta di autoreferenzialità statistica che rende scarsamente leggibili i dati per i ricercatori che vogliano servirsene per fini di studio e di analisi.

Avviene così, ad esempio, che anche a consultare diligentemente le relazioni che i capi delle corti superiori e delle procure generali della Repubblica leggono con la dovuta solennità nelle cerimonie inaugurali degli anni giudiziari, si viene informati in dettaglio dell’incidenza negativa sulla produttività delle vacanze di organico che affliggono gli uffici giudiziari ma si resta generalmente ignari su temi come quello qui esplorato. Eppure quelle cerimonie dovrebbero essere gli stati generali annuali sulla giustizia.

Lo stesso accade per i monitoraggi periodici, sia nazionali che distrettuali, condotti dal ministero della Giustizia: utili per chi cerca dati sui flussi complessivi dei procedimenti penali e sulle percentuali di definizione, inservibili per chiunque altro.

Si dovrà quindi ricorrere, con tutte le difficoltà che ne derivano, ai pochi, parziali e frammentari dati ricavabili dalle altrettanto poche fonti disponibili.

La prima di esse è la banca dati Italgiure cui si può accedere dal sito web istituzionale della Corte di cassazione[19]. Nella versione ad accesso libero contiene due soli archivi, quello civile e quello penale, permette l’accesso ai provvedimenti dell’ultimo quinquennio e propone due chiavi di ricerca: per parole testuali o per riferimenti normativi.

Non serve sottolineare che Italgiure è stata pensata per ricerche giuridiche e non per scopi statistici. Tuttavia, per una sorta di eterogenesi dei fini, è ugualmente in grado di offrire dati statistici anche se di bassa raffinatezza.

Basta dunque entrare nell’archivio penale e usare il decreto 231 come riferimento normativo e si troveranno 213 ricorrenze nel periodo 2015-2020.

Se si affina ancora la selezione e si aggiunge il riferimento all’art. 24-ter, le ricorrenze diminuiscono drasticamente e diventano 6, un numero talmente modesto da sembrare a prima vista inattendibile.

Alla ricerca di dati di riscontro e in assenza di altre evidenze di valenza generale, si può comunque analizzare la specifica situazione del distretto giudiziario di Milano che, comprendendo la “capitale finanziaria” d’Italia e avendo competenza su un territorio ove è più che significativa la presenza della criminalità organizzata comune e mafiosa (si vedano le tabelle di fonte DIA), pare tra i più indicati.

Si ha per una volta la fortuna di disporre di più fonti in qualche modo incrociabili tra loro.

La prima è un’importante ricerca condotta dal dipartimento di studi giuridici dell’Università Bocconi col patrocinio del Centro di ricerche europee sul diritto e la storia dell’impresa “Ariberto Mignoli” e in collaborazione con il Centro nazionale di difesa e prevenzione sociale, l’ASSIMPREDIL ANCE e la Camera di commercio di Milano.

La ricerca, estesa agli anni 2000-2015, ha riguardato l’espansione della criminalità organizzata nell’attività di impresa al Nord e si è avvalsa delle seguenti fonti: statistiche ISTAT sulla delittuosità fondate sulle rilevazioni mensili della Banca dati interforze in cui affluiscono le segnalazioni dei delitti denunciati e dei relativi autori al momento della comunicazione all’autorità giudiziaria; statistiche ISTAT sulla criminalità alimentate trimestralmente con i dati trasmessi dalle procure della Repubblica inerenti ai procedimenti nei quali hanno esercitato l’azione penale; statistiche ISTAT sui condannati fondate sulla rilevazione annuale presso il casellario giudiziale centrale della totalità delle condanne con sentenza definitiva emesse dalle autorità giudiziarie italiane, per anno di iscrizione al casellario; analisi dei flussi dei procedimenti fondate sui dati forniti dalle procure della Repubblica.

I ricercatori hanno usato questi dati sia per fornire un quadro nazionale sia per un focus sulla specifica condizione milanese sulla quale si soffermerà anche questo scritto.

Il compito è facilitato dall’esistenza di varie sintesi del lavoro complessivo tra le quali si segnala una versione pubblicata da Alberto Alessandri il 29 dicembre 2016 sul volume 2 n. 4 del 2016 della Rivista di studi e ricerche sulla criminalità organizzata alla quale si farà riferimento[20].

Il campione esaminato è costituito da tutti i procedimenti aperti dalla procura della Repubblica di Milano nel periodo 2000-2015 nei quali è stato contestato il delitto di associazione mafiosa.

Si è constatato che il loro totale ammontava a 105 dei quali 58 archiviati, 10 per i quali era stata presentata ma non ancora decisa la richiesta di archiviazione, 37 definiti con sentenza di primo grado.

In relazione a tale numero di procedimenti, sono stati contestate 4.293 ipotesi di reato (di cui 1.251 per associazione mafiosa) e sono state indagate 2.058 persone (di cui 1.251 per associazione mafiosa).

La tipologia mafiosa di gran lunga più contestata è stata la ‘Ndrangheta (78%), seguita da Cosa nostra (10%) e Sacra corona unita (3%). Il restante 9% si riferisce ad aggregazioni tra più famiglie o a famiglie minori.

A pagina 31 inizia il paragrafo 2.4 denominato “Procedimenti con enti sottoposti a indagine ex  d.lgs. 231/2001”.

Vi si afferma che solo in 3 procedimenti sul totale dei 105 presi in considerazione sono stati indagati enti collettivi.

Il loro numero complessivo è stato di 16 (13 in un procedimento al quale si assegna la lettera A, due in un secondo al quale si assegna la lettera B e uno solo in un terzo al quale si assegna la lettera C).

Il procedimento A si è concluso con l’esclusione della responsabilità per tutti i 13 enti indagati.

I procedimenti B e C si sono invece conclusi con la condanna degli enti al pagamento di una sanzione pecuniaria e, nel solo procedimento B, anche con la confisca di immobili e quote societarie.

La prassi milanese messa in luce dalla ricerca della Bocconi è confermata anche per gli anni successivi al 2015.

La fonte è in questo caso costituita dai bilanci di responsabilità sociale presentati annualmente dalla procura milanese.

In quello per l’anno 2016[21], nella sezione che illustra le attività del V dipartimento (allora corrispondente alla direzione distrettuale antimafia) e delle prospettive seguite, alla pagina 55 si legge questa frase: “Incentivazione dell’applicazione, ove ne ricorrano i presupposti, della normativa ex  d.lgs. 231/2001 anche per i reati di mafia”. Subito dopo si legge quest’altra: “Utilizzo metodico della sospensione dell’amministrazione dei beni dell’indagato, in presenza di sufficienti indizi per ritenere che l’esercizio di determinate attività economiche sia inquinato da presenza mafiosa”. Il contrasto non potrebbe essere più stridente: mentre la seconda proposizione evidenzia una prassi diffusa, la prima è nient’altro che una dichiarazione di intenti.

Nei bilanci del biennio successivo scompare anche quel piccolo accenno[22].

Un ulteriore riscontro deriva dalla relazione presentata dal procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020[23].

A pagina 85 del documento si danno i numeri dei procedimenti iscritti inerenti alla responsabilità degli enti tra il mese di luglio 2017 e il mese di giugno del 2018: il totale è di 40 procedimenti e nessuno di essi è collegato all’art. 24-ter.

Si può a questo punto affermare che i numeri emersi dalla consultazione della banca dati Italgiure trovano un solido riscontro nelle statistiche di due tra i più importanti distretti giudiziari italiani.

Si è dunque in presenza di una sostanziale disapplicazione dell’azione di responsabilità ex decreto 231 in relazione ai delitti menzionati nell’art. 24-ter.

 

7. Le ragioni della disapplicazione

7.1 Le criticità connaturali all’art. 24-ter nel dibattito dottrinario

Da tempo numerose voci della dottrina sollevano dubbi sulla compatibilità dei fenomeni criminali di tipo associativo con gli scopi generali e le caratteristiche strutturali del “sistema 231”.

Così Costantino Visconti, che già nel 2014[24] si chiedeva: “la criminalità organizzata di stampo mafioso rientra davvero tra i tipi di criminalità più congeniali al modello di responsabilità complessivamente delineato dal D.lgs. 231/2001? E comunque tale modello di responsabilità fino a che punto contribuisce a incrementare utilmente i non pochi strumenti ordinamentali già disponibili per intervenire sul nodo mafia-imprese? […] al di là dell’impatto simbolico, v’è da chiedersi fino a che punto sia coerente con la filosofia della 231 il sopravvenuto inserimento, tra i reati-presupposto, di un modello di illecito come il reato associativo. Si tratta, infatti, di un reato permanente e perciò già in partenza incentrato sulla realizzazione continuativa o sistematica di attività criminose […] Oltretutto, nel caso del reato associativo non è neppure immediatamente chiaro il senso da attribuire all’elemento di collegamento “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”: devono rivelarsi vantaggiosi per quest’ultimo i singoli reati-scopo oggetto del programma criminoso, o già la stessa condotta partecipativa o concorsuale nel reato associativo?”.

Interrogativi simili si è posta Francesca Chiara Bevilacqua[25]: “È apparso sin da principio non immediato conciliare il criterio di imputazione oggettivo della responsabilità all'ente, l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 d.lgs. 231, con una fattispecie che colpisce l'associarsi di tre o più persone allo scopo di commettere più delitti. In termini grezzi: come immaginare un'associazione delittuosa diretta in maniera oggettiva all'interesse di una società? E se mai questo scenario si verifica effettivamente, se cioè, ad esempio, l'amministratore delegato di una società si fa partecipe di una consorteria criminale proprio nell'interesse della società gestita, non si è forse dinnanzi a una situazione che implica inderogabilmente l'interdizione definitiva dell'attività sociale? C'era davvero bisogno del societas delinquere potest per rispondere a questa ipotesi o non era forse sufficiente considerare l'ente inscindibilmente intrecciato alla scena criminale come cosa pericolosa, sulla quale intervenire con la confisca? E ancora, non sono piuttosto i reati fine oggetto del programma criminoso a poter esplicitare la propria direzione verso l'ente? Non si fa così del reato associativo un viatico verso un catalogo di delitti presupposto onnicomprensivo? A ben vedere il tema sembra presentare da un lato i contorni mai del tutto definiti del fatto addebitato all’ente, dall’altro i contorni ancor più delicati del fatto associativo, sempre difficili da scindere da quelli dei relativi reati fine. Un insieme evidentemente su di un crinale insidioso, nel quale è facile scivolare contro il rispetto del principio di legalità”.

Critiche di rilievo sono state formulate anche da Tommaso Guerini[26], secondo il quale “la previsione dell’art. 24-ter del decreto 231, pur essendo stata di fatto sterilizzata sul piano applicativo dall’interpretazione restrittiva che ne ha dato la giurisprudenza di legittimità, presenta ancora numerosi aspetti problematici. In primo luogo, perché getta un pericoloso ponte tra la disciplina dettata per l’ente lecito e quella prevista per gli enti illeciti, ovvero i reati associativi, sin dalla loro genesi pervasi da una logica emergenziale che mal si concilia con gli obiettivi di ingegneria sociale affidati al decreto 231. Sotto questo profilo, l’esistenza dell’art. 24 ter favorisce, anziché osteggiare, la non condivisibile tendenza della giurisprudenza ad estendere l’applicazione dell’art. 416 c.p. a ipotesi di criminalità economica meglio inquadrabili nella disciplina del concorso di persone nel reato. Si finisce così per assecondare la convergenza in un unico modello preventivo-repressivo di fenomeni e discipline tra loro profondamente eterogenei e tradizionalmente mantenuti rigidamente distinti, e questo […] anche in ragione della parallela evoluzione del sistema della prevenzione patrimoniale”.

Ugualmente perplessa la riflessione di Elisa Tarquini[27]: “l’art. 24-ter scardina il principio di legalità, sub specie tassatività? Sin da subito il connubio fattispecie associative-responsabilità dell’ente è stato in effetti tacciato di aver trasformato la responsabilità dell’ente in generale: in spregio al numerus clausus voluto dal legislatore, potrebbero invero risultare attratti nel corpus 231 tutti i delitti-scopo del programma associativo, non per forza limitato al perseguimento dei crimini già inseriti tra i reati-presupposto della persona giuridica, ma potenzialmente esteso a ogni fattispecie delittuosa conosciuta dal nostro ordinamento. Considerazione, questa, che non sembra smentita dal tenore letterale dell’art. 24-ter […] a partire dal 2009 si affaccia la possibilità che una compagine societaria lecita possa covare al suo interno un’associazione delinquenziale che occasionalmente e parzialmente ne dirotta l’agire verso circuiti illegali […] [Occorre] concentrarsi sulla circostanza che il reato associativo, micro-sistema sui generis, è stato innestato in un diverso micro-sistema, altrettanto peculiare. Gli interrogativi cui rispondere sono dunque i seguenti: si possono immaginare persone fisiche (“colletti bianchi”, in ottica criminologica) che si organizzano in seno all’ente per realizzare – anche, ma non solo – un programma indeterminato di delitti, agendo quantomeno a vantaggio della personne morale? E, se tale immaginario fosse prospettabile, in cosa consisterebbe la “colpa” dell’ente?”.

Si chiude con l’opinione di un magistrato della procura di Milano, intervistato l’11 settembre 2014 nell’ambito della già citata ricerca della Bocconi[28]: “La prima ragione è questa: allora io distinguerei: impresa marcia, non ci interessa la 231, la 231 è fatta per l’ente che delinque occasionalmente. In questo caso con l’impresa marcia è inutile la 231, sequestro preventivo, quote sociali, fallimento. Di fronte a imprese non marce, l’alternativa che ci si pone è 231 o articolo 34. Allora la 231 ha, secondo me alcuni dati negativi: primo misura cautelare con contraddittorio (…) Cioè cosa me ne faccio io del previo contraddittorio, cioè capisci, il previo contraddittorio a questa gente qua (…). No. Non ha alcun senso, minore efficacia, io col 34 metto un mio amministratore nell’impresa. Lì non sempre è così e d’altronde dare una sanzione pecuniaria non è che sia molto utile. Allora queste due ragioni mi portano a preferire o il sistema del sequestro o il sistema dell’articolo 34. In queste vicende qua. Considera poi che spesso quello che capita è il criterio dell’interesse, cioè l’ente che ha come presupposti il 416bis, il soggetto che commette il reato lo fa nell’interesse proprio o nell’interesse dell’ente. È dura far vedere che agisce nell’interesse dell’ente o a vantaggio dell’ente, questi strumentalizzano l’ente. Per cui c’è anche questo ostacolo direi criminologico che mi impedisce di fatto di usare tanto la 231. Queste sostanzialmente le ragioni”.

Si possono adesso sintetizzare, a conclusione di questa piccola ma significativa rassegna, le critiche mosse all’accostamento della criminalità organizzata al sistema della responsabilità da reato degli enti.

Si dubita in generale della coerenza concettuale di un intervento normativo che pretende di applicare ad organizzazioni strutturalmente votate al crimine la filosofia conservativa del decreto 231, pensato per enti nei quali la delittuosità è solo contingente.

Si fa perno poi sul principio di tassatività (Visconti, Bevilacqua, Tarquini) e si osserva che il tenore letterale dell’art. 24-ter ha generato derive interpretative[29] che hanno configurato l’intervento additivo del 2009 come un grimaldello capace di condurre nell’area 231 praticamente ogni fattispecie delittuosa, a prescindere dalla sua appartenenza al genus dei reati – presupposto specificamente indicati dal legislatore.

Si afferma che questa indebita estensione è stata prodotta dapprima utilizzando i reati–fine come elementi direttamente dimostrativi dell’interesse o del vantaggio dell’ente e di seguito, dopo la sconfessione in sede di legittimità di questo indirizzo interpretativo, facendo perno sul diverso elemento del profitto dell’ente nel senso di ritenere tale quello prodotto da tutti, nessuno escluso, i delitti-fine dell’associazione perseguita.

Si sostiene aggiuntivamente (Guerini) che la possibilità di servirsi dell’armamentario 231 per il contrasto alla criminalità organizzata crea il rischio di forzature nei manifesti d’accusa, nel senso che gli uffici inquirenti sarebbero stimolati a contestare fattispecie associative laddove i fatti accertati dovrebbero essere più correttamente inquadrati come concorso di persone nel reato.

Si dubita infine della reale efficacia dell’azione 231, soprattutto ponendola in comparazione con i ben più incisivi strumenti propri della legislazione penale e di quella preventiva.

Le convinzioni espresse a questo riguardo dal magistrato della procura di Milano nell’intervista concessa ai ricercatori della Bocconi sono davvero illuminanti: la 231 (e con essa lo “stick and carrot approach” che, secondo Guerini, ne costituisce l’emblema) non serve con le imprese marce poiché in questo caso l’unica strategia sensata è provocarne l’espulsione dal circuito economico; la 231 non serve neanche con le imprese non marce perché è molto più efficace lo strumento dell’amministrazione giudiziaria dei beni previsto dall’art. 34 del codice antimafia (o, in alternativa, il sequestro dei beni medesimi).

Sono decisamente inappropriate alcune delle argomentazioni di dettaglio sulle quali si fondano queste convinzioni e lo è anche il linguaggio con cui vengono espresse: la frase “Cioè cosa me ne faccio io del previo contraddittorio, cioè capisci, il previo contraddittorio a questa gente qua” sembra riflettere non solo una disarmante disattenzione al profilo garantistico ma anche una sorta di differenziazione “etnica” tra i destinatari delle iniziative giudiziarie.

Resta però un messaggio chiaro: l’azione 231 in collegamento all’art. 24-ter è considerata inservibile da una procura della Repubblica che ha competenza su un territorio tra i più bersagliati dalla criminalità organizzata, soprattutto di tipo economico.

 

7.2 Le evidenze statistiche sull’uso degli strumenti di contrasto diversi dall’azione 231

La migliore verifica della correttezza delle argomentazioni esposte nel paragrafo precedente è come sempre quella empirica.

Si ricorre quindi, ancora una volta, ai numeri e si riporta anzitutto la tabella statistica esposta nel sito web istituzionale della DIA sui valori in euro dei sequestri e delle confische nel periodo compreso tra il 1992 e il primo semestre del 2020[30].

Organizzazione criminale

Sequestri ex
art. 321 c.p.p.

Confische

ex art. 12-sexies

d.l. 306/1992

Sequestri ex

d.lgs. 159/2011

Confische ex

d.lgs. 159/2011

Cosa Nostra

1.955.185.813

131.040.822

11.491.900.947

7.215.175.873

Camorra

3.049.656.176

438.806.856

2.802.348.567

1.102.208.935

'Ndrangheta

1.092.946.375

341.730.878

2.620.478.963

1.809.544.990

Criminalità pugliese

108.951.615

98.010.129

156.904.449

128.157.149

Altre

853.702.287

31.392.427

543.740.142

442.949.156

Totali

7.060.442.266

1.040.981.112

17.615.373.068

10.698.036.103

Il secondo ordine di dati è contenuto nella relazione del ministero della Giustizia al Parlamento, aggiornata al secondo semestre 2019 (ma taluni dati sono aggiornati al primo semestre 2020), sulla consistenza, la destinazione e l’utilizzo dei beni sequestrati o confiscati prevista dall’art. 49  d.lgs. 159/2011[31].

Si riportano di seguito i dati più significativi del documento, con l’ovvia precisazione che si riferiscono esclusivamente all’applicazione delle misure preventive patrimoniali regolate dal codice antimafia.

Nel triennio 2017/2019 sono stati iscritti 1.419 nuovi procedimenti di cui 361 al Nord, 123 al Centro, 615 al Sud e 320 nelle Isole.

Al 31 dicembre 2019 nella banca dati centrale sono iscritti 204.718 beni (con un aumento di circa 27.000 unità rispetto alla pari data di due anni prima) che hanno costituito oggetto di proposte di prevenzione patrimoniale e dei conseguenti provvedimenti. Risultano sequestrati 9.493 di tali beni, confiscati 77.127, già oggetto di destinazione a fini sociali 8.460.

La divisione dei suddetti beni per tipologia, aggiornata al 30 giugno 2020, evidenzia che 15.079 di essi sono compendi aziendali, 24.337 appartengono al genere finanziario, gli immobili sono 97.378, i mobili registrati sono 40.116 e i mobili non registrati sono 32.218.

Sia i numeri della DIA che quelli del ministero della Giustizia sono di tale eloquenza da rendere inutile ogni passaggio esplicativo sicché rimane solo da dire che la loro straordinaria consistenza dà pienamente ragione agli studiosi che teorizzano la problematicità o addirittura l’inutilità e la dannosità dell’art. 24-ter e a coloro che, nell’esercizio delle loro competenze funzionali, adottano strategie corrispondenti a quella teorizzazione.

 

8. Riflessioni conclusive

Lo scopo di questo scritto non è la dimostrazione di verità finora sconosciute.

Come si è visto, infatti, è stato incoraggiato da idee che circolano da anni e alimentato da dati e statistiche disponibili per chiunque.

Il suo scopo è invece la constatazione di due atteggiamenti istituzionali che sono entrambi in grado di generare, e in effetti hanno generato, conseguenze decisamente negative.

Il primo è quello del legislatore.

Già dai primordi dell’introduzione dell’art. 24-ter si alzarono voci critiche che ne segnalarono l’incoerenza concettuale, le difficoltà applicative, i potenziali rischi per il principio essenziale della legalità e il suo ineludibile corollario della tassatività.

Undici anni dopo le posizioni critiche non sono cessate e anzi si sono progressivamente arricchite e affinate e gli uffici inquirenti hanno consapevolmente lasciato cadere nel nulla il nuovo strumento che gli era stato affidato.

Eppure nessun dubbio pare scuotere la sensibilità legislativa, nessun accenno di revisione critica si coglie, neanche nelle formazioni politiche che, non fosse altro per coerenza al pensiero liberale di cui sono eredi, dovrebbero sussultare ogni qualvolta si mettano a repentaglio i cardini del cosiddetto Stato di diritto, concetto di cui si fa sempre più fatica a mantenere la memoria e a capire cosa sia stato e cosa sia diventato.

Non solo il legislatore non si mostra propenso a riflettere sui numerosi ritocchi apportati nel corso del tempo all’impianto della 231.

Al contrario ne aggiunge di nuovi, da ultimo quasi freneticamente, dando l’impressione di considerare la responsabilità degli enti non come uno strumento di cui preservare e migliorare l’intrinseca coerenza ma come un contenitore in cui stipare alla rinfusa ogni fattispecie che, secondo la sensibilità del momento, renda una volta di più vera l’idea di Didier Fassin sulla punizione come piacere sfrenato del nostro tempo[32].

Sembra passato un secolo da quando, nella relazione di accompagnamento allo schema del decreto 231 e precisamente nel passaggio che spiegava le ragioni per cui si scelse di inserirvi i soli reati previsti dall’art. 11, lettera a) della legge delega 300/2000, e non anche quelli previsti dalle successive lettere b), c) e d) del medesimo articolo, si poteva leggere che “Il Governo non ignora che, sul piano generale, il catalogo dei reati di cui all'articolo 11, lettere a), b), c) e d), ricostruisce, in modo più completo, la cornice criminologica della criminalità d'impresa […] Nondimeno, occorre realisticamente prendere atto del maggiore equilibrio della scelta cd. minimalista: poiché l'introduzione della responsabilità sanzionatoria degli enti assume un carattere di forte innovazione del nostro ordinamento, sembra opportuno contenerne, per lo meno nella fase iniziale, la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento”.

Altri tempi, decisamente.

Il secondo atteggiamento è quello del giudice.

Si è fatto cenno in precedenza all’orientamento interpretativo favorevole a considerare l’art. 24-ter come un passe-partout da utilizzare per ampliare all’infinito il catalogo dei delitti–presupposto. Si è detto della sconfessione di tale indirizzo. Si è detto del nuovo by-pass ermeneutico che ha provato a recuperare i reati–fine non compresi espressamente nel catalogo dei reati–presupposto assegnando al loro profitto il valore di profitto del reato–mezzo associativo. Così come è stata evidenziata la perdita di feeling dell’istituto allorché chi doveva servirsene ha compreso la sua sostanziale inservibilità e lo ha abrogato di fatto, sostituendosi al legislatore.

È questa la migliore modalità possibile di esercizio della libertà interpretativa concessa al giudice?

Ammessa, ma niente affatto concessa, la legittimità delle interpretazioni suddette, è ugualmente legittimo che, a fronte di opzioni alternative più che plausibili, si debba sempre e soltanto scegliere quella che porta alla massimizzazione degli effetti negativi dello strumento penale? Nell’eterno conflitto tra libertà individuali e sicurezza collettiva, devono sempre cedere le prime, anche quando, come in questo caso, coesistono presidi normativi in grado di contenere ben più efficacemente l’impatto negativo del crimine sulla comunità?

È ammissibile che l’inerzia del legislatore lasci agli operatori spazi discrezionali così ampi?

Non pare francamente che questo sia legittimo e in questa opinione è riposto, se c’è, il senso di questo scritto.

 

[1] Il suo effetto è stato l’inserimento tra i reati–presupposto delle fattispecie di associazione a delinquere (nei casi in cui sia diretta taluno dei delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, tratta di persone, traffico di organi prelevati da persone viventi, acquisto o alienazione di schiavi, complesso di illeciti in tema di trasporto e ingresso illegale di stranieri nel territorio statale di cui agli artt. 12, commi 3 e 3-bis, d. lgs. 286/1998, violazione degli artt. 22, commi 3 e 4, e 22-bis, comma 1, l. 91/1999 in tema di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti), associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione, delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 del d.l. 152/1991, delitti diretti ad agevolare le associazioni dedite al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, i delitti fine dell’associazione a delinquere ed infine tutti i delitti menzionati dall’art. 407, comma 2, lettera a), n. 5, cod. proc. pen. (illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall'articolo 2, comma terzo, l. 110/1975).

[2] SU, sentenza n. 6889/2016.

[3] Il documento è consultabile a questo link: https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/semestrali/sem/2019/2sem2019.pdf

[4] Il relativo elenco comprende: associazione a delinquere, associazione a delinquere di tipo mafioso, reati aggravati dal metodo mafioso, strage, attentati, produzione e traffico di sostanze stupefacenti, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, danneggiamento seguito da incendio, rapina, usura, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione, ricettazione, contrabbando, violazione della proprietà intellettuale, contraffazione di marchi e prodotti industriali, corruzione, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, turbata libertà degli incanti, frode nelle pubbliche forniture, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.

[5] Il dato è verificabile a questo link: https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/page/rilevazioni_statistiche.html

[6] http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_CONDGEO1

[7] Il documento è reperibile a questo link:

http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/La_Cassazione_penale_-_Annuario_statistico_2019.pdf

[8] Si deve avvertire che in questa tabella i valori numerici per gli anni 2016 e 2017 sono sempre identici il che lascia immaginare un errore di inserimento e diminuisce l’attendibilità del quadro d’insieme.

[9] Il documento è reperibile a questo link: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST282358&previsiousPage=mg_1_14

[10] REY, G., (a cura di), La mafia come impresa. Analisi del sistema economico criminale e delle politiche di contrasto, FrancoAngeli editore, Milano, 2017

[11] VISCONTI, C., Strategie di contrasto dell’inquinamento criminale dell’economia: il nodo dei rapporti tra mafie e imprese, Rivista italiana di diritto e procedura penale, anno LVII, fascicolo 2-2014, Giuffrè editore, Milano

[12] https://www.istat.it/it/files/2019/10/Economia-non-osservata-nei-conti-nazionali-2017.pdf

[13] Questa contrapposizione riecheggia la distinzione, proposta dal criminologo statunitense Alan Block in East Side-West Side: organizing crime in New York, 1930-1950, Routledge, 1983, tra enterprise syndicate e power syndicate. La prima espressione indica le organizzazioni criminali che svolgono attività d’impresa, la seconda quelle che operano attraverso il controllo del territorio.

[14] Si rinvia, per l’approfondimento dei temi qui soltanto accennati ed anche come fonte per la definizione delle componenti dell’economia illegale, a: REY, G., Interazioni tra economia criminale e economia legale, 2018, reperibile a questo link: http://ojs.uniurb.it/index.php/argomenti/article/view/1794. Si veda inoltre sugli stessi temi la relazione conclusiva della Commissione bicamerale antimafia della XVII legislatura, particolarmente pagg. 223 e ss., reperibile a questo link: http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1066861.pdf

[15] Si vedano il report cui rimanda la nota 12 e la Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva per l’anno 2019 curata dal Dipartimento Finanze del MEF reperibile a questo link: https://www.mef.gov.it/documenti-pubblicazioni/rapporti-relazioni/index.html#cont_8

[16] Il documento è scaricabile a questo link: https://giustizia.it/resources/cms/documents/Raccolta_lavori_tavoli_tematici-def.pdf

[17] Transcrime è un centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale diretto dal Prof. Ernesto Ugo Savona cui partecipano l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, l’Università di Bologna e l’Università di Perugia. Il suo sito web si trova a questo link: http://www.transcrime.it/

[18] La relazione è rinvenibile a questo link: http://www.unioncamere.gov.it/download/2970.html

[19] Questo è il link per il collegamento: http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/

[20] La pubblicazione è reperibile a questo link: https://riviste.unimi.it/index.php/cross/article/view/7981/pdf

[21] Il documento è reperibile a questo link: https://www.procura.milano.giustizia.it/files/BRS-Procura-2016.pdf

[22] I due bilanci sono reperibili ai seguenti link: https://www.procura.milano.giustizia.it/files/brs-procura-mi-2017.pdf e https://www.procura.milano.giustizia.it/files/brs-procura-milano-2018.pdf

[23] La relazione è reperibile a questo link: http://www.giustizia.lazio.it/appello.it/news/2020/Relazione_procura_Anno_Giudiziario_2020.pdf

[24] VISCONTI, C., op. cit. in nota 11.

[25] BEVILACQUA, F.C., Reati associativi e responsabilità degli enti: spunti a margine di una ricerca, Rivista di studi e ricerche sulla criminalità organizzata, volume II, n. 4, 2016 (pagg. 116 e ss.). La ricerca cui allude il titolo è quella guidata dall’Università Bocconi sull’espansione della criminalità organizzata nell’attività di impresa al Nord menzionata nel precedente paragrafo.

[26] GUERINI, T., L’ente collettivo nell’arcipelago delle misure di contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel sistema economico, Criminal Justice Network, 7 ottobre 2019

[27] TARQUINI, E., Gli artt. 25-ter e 25-octies d.lgs. 231/01 nel prisma della tassatività: ‘tensione’ effettiva o soltanto apparente? Sistema Penale, fascicolo 1/2020

[28] Gli stralci dell’intervista esposti nel testo sono stati riportati nelle note nn. 4 e 29 dello scritto di Francesca Chiara Bevilacqua citato nella nota 25.

[29] Il divenire del dibattito giurisprudenziale sull’art. 24-ter è adeguatamente illustrato dagli Autori degli scritti menzionati in questo paragrafo, particolarmente quelli di Bevilacqua e Tarquini ai quali si fa rinvio.

[30] Il dato è verificabile a questo link: https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/page/rilevazioni_statistiche.html

[31] La relazione è reperibile a questo link: https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/beni_sequestrati_confiscati_relazione_giugno_2020.pdf

[32] FASSIN, D., Punire. Una passione contemporanea, Feltrinelli, 2018.