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Collaboratori di giustizia, non pentiti: quando le parole confondono

una analisi delle due figure
Collaboratori di giustizia
Collaboratori di giustizia

Collaboratori di giustizia e pentiti: due figure spesso confuse, termini che nell'uso quotidiano perdono di sgnificato reale. Una disamina della portata di queste due parole nell'opinione pubblica

Fanno parte del linguaggio corrente usato per le cose della giustizia le parole “pentiti” e “pentitismo” che designano rispettivamente le persone che collaborano con la giustizia e il fenomeno complessivo della collaborazione con i suoi riflessi giuridici e sociali.

Sono parole sbagliate e fuorvianti perché lasciano intendere la necessità per chi collabora di una revisione critica di singole condotte criminali o di intere vite spese nell’illegalità.

Da questo primo errore ne deriva un secondo: la convinzione che chi è stato criminale, soprattutto se di alto rango nelle gerarchie delinquenziali, soprattutto se ha compiuto crimini feroci, non provi più o non abbia mai provato sentimenti di umanità e sia quindi sbagliato fidarsene al punto di concedergli i trattamenti di favore previsti dalla normativa vigente.

Segue infine un terzo errore per così dire di sfondo: che l’intera questione debba essere trattata prevalentemente per i suoi profili etici e si debba quindi dibattere a quali condizioni possa dirsi provato il pentimento e come verificarne l’autenticità e se sia giusto che la comunità sopporti il peso morale di aver concesso un trattamento di favore a persone prive di rimorso per i crimini compiuti.

Sono tutti errori, appunto.

La normativa vigente, in particolare l’art. 8 del decreto legge 152/1991 convertito nella legge 203/1991, concede notevoli sconti di pena agli imputati di associazione mafiosa o di reati aggravati dal fine dell’agevolazione mafiosa che si dissocino dai loro coimputati, si adoperino per evitare che l’attività criminale prosegua e aiutino concretamente la polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti  e l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.

Si tratta dunque, puramente e semplicemente, di un accordo di scambio tra lo Stato e un singolo individuo: il primo acquisisce conoscenze che altrimenti non avrebbe o farebbe molta fatica ad avere; il secondo ottiene robusti sconti di pena, altri vantaggi che ne agevolano il ritorno alla vita civile e le indispensabili misure di protezione dai rischi connessi alla dissociazione e alla collaborazione.

A questa scambio è estranea qualunque pretesa di pentimento e qualunque connotazione moralistica.

Si può ovviamente discutere se è un bene o un male che lo Stato stipuli un patto di tal genere con persone che hanno percorso strade inaccettabili. Ma chi intende farlo dovrebbe pure chiarire come consideri la perdita di conoscenza che ne deriverebbe e a quali strumenti ricorrerebbe per acquisirla altrimenti (più polizia, più infiltrati, più informatori anonimi, più intercettazioni, più occupazione statale dei territori, cosa?). E magari farebbe pure bene a chiarire su quali percorsi alternativi punterebbe per persuadere capi e gregari della criminalità associata che abbandonare il crimine conviene.

Come sempre, è questione di intendersi.