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Associazione mafiosa: la valenza del rituale di affiliazione

Il Faro di Santander
Il Faro di Santander

Il reato di associazione mafiosa è stato recentemente oggetto di due importanti ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, una riguardante la condotta di partecipazione all’associazione, l’altra l’esteriorizzazione del metodo mafioso.

La fattispecie di reato punisce infatti, al primo comma, chiunque “fa parte” di un’associazione mafiosa e definisce, al terzo comma, le associazioni mafiose quali quelle associazioni che “si avvalgono” della forza di intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, acquisire il controllo di attività economiche, di appalti, concessioni, per realizzare profitti ovvero impedire o ostacolare il libero esercizio del voto.

Con riguardo alla condotta partecipativa e quindi allo “status” di affiliato, con l’ordinanza di rimessione (Cass. pen., sez. I, ord. 9 febbraio 2021, n. 5071) viene chiesto alle Sezioni Unite della Corte di cassazione di chiarire la valenza del solo rituale di affiliazione, alle mafie “storiche”, nella specie ‘ndrangheta, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ex art. 416-bis c.p.

È indispensabile, infatti, stabilire se il mero giuramento rituale ad un’associazione mafiosa integri o meno una condotta penalmente punibile; ciò al fine di garantire tanto un’applicazione uniforme della norma quanto la possibilità per i consociati di prevedere e conoscere in anticipo le conseguenze delle proprie azioni, in ossequio ai principi di legalità e prevedibilità.

 

Associazione mafiosa: la fattispecie

Il reato di associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p. è stato introdotto nel nostro ordinamento solo nel 1982, con la legge 13 settembre 1982, n. 646, nota come legge “Rognoni - La Torre”.

Tale norma è il risultato delle esigenze repressive legate alla crescente e feroce escalation di violenza in Sicilia, in quegli stessi anni, dovuta al “clan dei Corleonesi” che, acquisito il comando di “Cosa nostra”, decise di lanciare un vero e proprio attacco allo Stato, culminato successivamente nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Inoltre, sia nell’opinione pubblica che all’interno del Parlamento vi era oramai piena contezza della stringente necessità di contrastare con maggiore decisione il fenomeno mafioso, non solo per la sua attitudine alla violenza ma anche per la capacità di controllo del territorio e di espandersi in tutti i settori produttivi, intimidendo la concorrenza, ostacolando la crescita dell’imprenditoria nel Sud Italia e determinando una forte lievitazione dei costi delle opere pubbliche.

Per come formulata, la fattispecie presenta notevoli margini di duttilità applicativa. Se, infatti, nei primi decenni di vita ha consentito di contrastare le “associazioni mafiose storiche”, quali la Mafia siciliana (Cosa nostra), la ‘Ndrangheta calabrese, la Camorra campana e la Sacra corona unita pugliese, nei loro territori d’origine, negli ultimi lustri il reato si è rivelato utile a reprimere fenomeni criminali di più recente emersione, quali le mafie “straniere”, “autoctone” e “delocalizzate”.

Si fa cioè riferimento, rispettivamente, al fenomeno delle organizzazioni di soggetti stranieri provenienti da comunità etniche insediate nel territorio italiano; ai casi di gruppi criminali di recente formazione operanti in territori fino a quel momento considerati immuni da tale fenomeno criminale, nonché alla “delocalizzazione” di cellule facenti riferimento alle “mafie storiche” al di fuori dei territori d’origine, in particolare nel Nord Italia.

La norma punisce, al primo comma, chiunque “fa parte” di un’associazione mafiosa e definisce, al terzo comma, l’associazione mafiosa come quell’associazione nella quale i membri che la compongono si avvolgono del “metodo mafioso”, caratterizzato da forza di intimidazione, assoggettamento ed omertà, per commettere altri delitti o acquisire il controllo di attività economiche, realizzare profitti, influenzare il libero del voto.

 

Associazione mafiosa: la condotta di partecipazione

La fattispecie di reato individua, da un lato, la condotta di partecipazione, dall’altro lato quelle di promozione, direzione e organizzazione, alle quali si applica una pena più elevata.

D’altronde, per promotore si intende colui che ha sollecitato la nascita del sodalizio e che si impegna a dotare lo stesso della capacità di intimidazione; mentre, per organizzatore si intende colui che ne dirige e regolamenta l’attività, con poteri di comando e decisione.

Quanto alla mera partecipazione, si tratta di identificare la condotta di chi “fa parte” dell’associazione mafiosa; la questione non è agevole sul piano interpretativo, atteso che l’espressione sembra richiedere un diverso apporto rispetto a quello di chi vi “partecipa” ex art. 416 c.p. (associazione per delinquere).

Secondo l’indirizzo più risalente, la condotta di partecipazione consisterebbe in un mero atteggiamento interiore di adesione psichica all’associazione. Il partecipe sarebbe tale in forza della messa a disposizione in favore del sodalizio criminale.

Il semplice inserimento nell’organizzazione di un nuovo soggetto costituirebbe così una condotta tipica, che va sanzionata penalmente, in virtù della volontà del partecipe e dell’oggettivo rafforzamento del sodalizio criminale determinato dall’aumento del numero di affiliati e dalla maggiore capacità intimidatoria e presenza sul territorio che ne deriverebbe.

Una simile visione comportava una serie di problemi sul piano applicativo, essenzialmente legati all’accertamento della scelta di adesione, nonché al rischio di attribuire rilevanza penale ad una mera manifestazione di volontà, in evidente contrasto con i principi di personalità della responsabilità penale e di offensività.

Sulla base delle critiche mosse alla concezione meramente psicologica si è passati nel corso degli anni, più precisamente, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, al c.d. “modello causale”.

Con l’emersione del nuovo indirizzo ermeneutico, viene data una qualche forma di corposità e causalità alla condotta di partecipazione, da rinvenirsi, non più nella mera adesione psicologica, ma in quel contributo causale minimo che l’associato fornisce all’associazione mafiosa per il suo mantenimento in vita e per il raggiungimento degli scopi del sodalizio criminale.

Negli anni successivi si assiste alla elaborazione di un modello “organizzatorio puro”, finalizzato a valorizzare l’inserimento del soggetto nell’organizzazione e l’accettazione della stessa mediante l’attribuzione di un ruolo al nuovo affiliato; con il rischio, però, di attribuire una rilevanza penale ad un soggetto che nonostante l’inserimento “ufficiale” e condiviso nell’organizzazione non dia seguito ai compiti ad esso collegati.

Tali ragioni hanno spinto verso l’elaborazione di un terzo modello, maggiormente condivisibile, il c.d. modello “organizzatorio rafforzato” che, sposando una concezione mista mira a valorizzare sia l’adesione del soggetto all’associazione mafiosa che l’esigenza di individuare un contributo ascrivibile allo stesso, funzionale al rafforzamento del sodalizio.

 

Associazione mafiosa: il ruolo del partecipe nella giurisprudenza

In giurisprudenza, in verità, non sono mancate declinazioni diverse del modello del c.d. modello “organizzatorio rafforzato”, che hanno di volta in volta attribuito una rilevanza pregnante alla componente causale ovvero a quella strutturale.

Ad esempio, mentre nella sentenza Carnevale (Cass. pen., sez. un., 21 maggio 2003, n. 22327) l’intraneus viene identificato in colui che si impegna, attraverso la concreta assunzione di un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa, a prestare un contributo alla vita dell’associazione mafiosa, avvalendosi della forza di intimidazione (attribuendo così maggiore rilevanza al requisito della compenetrazione organica); nella sentenza Andreotti (Cass. pen., sez. II, 15 ottobre 2004, n. 49691), il partecipe venne individuato nel soggetto che, non limitandosi ad una mera adesione ideologica, realizzi attività tali da «costituire un contributo concreto sul piano causale all’esistenza e al rafforzamento del sodalizio».

L’adesione a tale modello, definito misto, è stata successivamente ribadita nella sentenza Mannino bis (Cass. pen., sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748), con la quale la Corte ha statuito che «in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno “status” di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi».

Le Sezioni Unite virano così a favore della concezione mista, che non si limita ad accertare il ruolo di affiliato mediante l’ingresso nel sodalizio, ma che mette il risalto e richiede che sia provata anche la dimensione dinamica di tale ruolo, attraverso il compimento di atti espressivi del ruolo ricoperto.

 

Associazione mafiosa: il rituale di affiliazione

Nel quadro dottrinale e giurisprudenziale appena delineato si pone la questione della valenza del rituale di affiliazione alle mafie “storiche”.

Si fa riferimento alle sole associazioni mafiose “storiche” proprio perché generalmente si tratta di c.d. mafie “chiuse” e non “aperte”, i nuovi affiliati devono, a tal proposito, godere di un certo grado di fiducia da parte dei promotori dell’organizzazione o essere legati agli stessi da vincoli di sangue, nonché per l’appunto, sono tenuti a prestare il giuramento all’associazione seguendo un determinato rituale, una cerimonia estremamente carica di simbologia e “sacralità” mafiosa.

La rimessione alle Sezioni Unite è il frutto di un contrasto interpretativo e giurisprudenziale sul significato da attribuire al termine “far parte” dell’associazione mafiosa. Le letture più risalenti di tale condotta ritenevano sufficiente valorizzare elementi soggettivi e volontaristici, accontentandosi di un’adesione formale all’associazione. Il semplice inserimento nell’organizzazione di un nuovo soggetto costituirebbe così una condotta tipica in virtù dell’oggettivo rafforzamento del sodalizio criminale.

Le letture più recenti osservano, al contrario, come punendo la semplice adesione si finisca con il punire un soggetto che non ha prestato alcun contributo effettivo all’associazione.

A ben vedere, l’opera di concretizzazione giurisprudenziale della condotta partecipativa deve necessariamente tener conto dei principi costituzionali di materialità e offensività, nonché delle ricadute sul principio di proporzionalità tra pena e previsione legale del reato di cui all’art. 49, comma 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. L’incidenza di tali principi non lascia spazio ad ipotesi di identificazione della condotta punibile che risultino del tutto svincolate dalla ricostruzione di un contributo effettivo reso dal partecipe, che sia concreto e visibile, alla vita dell’organizzazione criminale.

D’altronde, ove il legislatore ha ritenuto di dover punire il mero “reclutato”, si è resa necessaria una norma incriminatrice ad hoc. È il caso della previsione introdotta, all’art. 270 quater c.p., dal D. L. n. 7 del 18 febbraio 2015 in tema di terrorismo, introdotta al fine di punire il soggetto, che pur non effettivamente partecipe dell’associazione terroristica, si sia messo a disposizione della stessa, al fine di commettere atti terroristici.

Ciò avvalora l’indirizzo ermeneutico che evidenzia come la mera adesione formale, non accompagnata dalla prova di un’attivazione, non possa ritenersi di per sé ricompresa nella nozione tipica di partecipazione.

Solo in presenza di ulteriori elementi probatori, quali il compimento di attività strumentale al rafforzamento dell’associazione mafiosa o la commissione di reati-fine, la condotta di partecipazione acquisterebbe una offensività e determinatezza tali da giustificare il rigoroso trattamento processuale, sanzionatorio e penitenziario previsto per il partecipe.

Proprio quest’ultima interpretazione sembrerebbe, in attesa di conoscere le motivazioni, la posizione assunta dalle Sezioni Unite sul punto. Il ricorso in questione, infatti, è stato discusso il 27 maggio scorso. Secondo quanto si apprende dall’informazione provvisoria diramata dalla Suprema Corte, le Sezioni Unite hanno ribadito come la condotta di partecipazione si sostanzi nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, idoneo a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso.

Per la Corte, infatti, «Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti […] alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione».

 

Associazione mafiosa: una possibile soluzione

Alla luce delle considerazioni sopra espresse, a prescindere dalla soluzione adottata dalle Sezioni Unite, sarebbe probabilmente auspicabile un intervento legislativo.

Infatti, la scelta di punire la mera affiliazione, seppur probabilmente legittima, considerati i beni giuridici in gioco e la giurisprudenza costituzionale sul punto, similmente a quanto disposto per il reclutamento del terrorista ex art. 270-quater c.p., spetterebbe al legislatore attraverso l’introduzione di una fattispecie ad hoc, che punisca il semplice affiliato all’associazione mafiosa.

In tal modo, attraverso una nuova norma la cui cornice edittale tenga conto della necessaria proporzione tra fatto e pena e si differenzi, quindi, da quella prevista per il partecipe, sarebbe possibile recuperare le esigenze di certezza del diritto, prevedibilità e proporzionalità.

D’altronde, sia la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., che il complesso normativo che vi ruota attorno rappresentano un arsenale repressivo estremamente efficace ma, proprio per il suo rigore, da maneggiare con estrema cura, evitando di degradare la fattispecie a reato di pericolo presunto e rimanendo ancorati alle originarie connotazioni del delitto.