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Danno esistenziale provocato dalla pubblica amministrazione. Danno da ritardato pensionamento

Il danno esistenziale conosce una nuova puntata.

La controversa nozione, frutto dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, è stata oggetto di una recente sentenza della V sezione del Consiglio di Stato (deposito del 18 gennaio 2006 n. 125) in cui se ne è riconosciuta l’ammissibilità e, peraltro, con riferimento ad una fattispecie quanto meno discutibile.

Fa riflettere, in verità, che mentre in sede civile si continua a discutere sull’utilità e sulla dignità come concetto autonomo del danno esistenziale in sede amministrativa lo si risarcisca a carico della p.a. anche in quelle ipotesi in cui la stessa agisca in veste autoritativa ed esercitando il proprio potere discrezionale.

La novità, di per sé, non è così assoluta poiché, come ha rilevato autorevole dottrina, poco prima un altra sentenza del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16 marzo 2005, n. 1096) aveva riconosciuto il danno esistenziale a favore del ricorrente ed a carico della p.a. In merito i primi commenti molto laconicamente hanno affermato ce si tratta di due casi che costituiscono l’uno l’inverso dell’altro anche se, come si cercherà di dare conto nel corso dell’esposizione, un’attenta riflessione induce a qualche legittima perplessità.

Per agevolare una migliore comprensione del decisum del Consiglio di Stato si rende necessario un, sia pur breve e sintetico, riassunto dei fatti oggetto del giudizio.

Un pubblico impiegato presentava, nell’ormai lontano 1992, domanda di pensionamento alla quale il Comune (presso cui era impiegato), rimasto inizialmente silente, rispondeva successivamente con un provvedimento di diniego Ottenuta, in un primo momento la sospensione cautelare di tale atto, l’impiegato domandava con separato giudizio il risarcimento del danno derivante dal ritardato pensionamento.

Il Consiglio di Stato ribaltando la decisione di primo grado accoglieva la domanda formulando i seguenti principi di diritto “La forzata prosecuzione dell’attività lavorativa, conseguente al ritardo col quale la P.A. ha provveduto su una domanda i pensionamento, è fonte di danno esistenziale, che può essere ritenuto sussistente sulla base d semplici presunzioni” ed “il danno esistenziale consiste nei riflessi esistenziali negativi (perdita di compiacimento e di benessere per il danneggiato) che ogni violazione di un diritto della personalità produce, ed è risarcibile ai sensi dell’art 2059 c.c., a condizione che il diritto leso abbia rilevanza costituzionale”.

La sentenza in commento, in verità, analizza anche il c.d. danno da ritardo della p.a nell’emanazione di atti o provvedimenti richiesti o dovuti ma su tema il decisum si allinea alle precedenti posizioni giurisprudenziali.

Ribadita, infatti, la giurisdizione del g.a. in materia di interessi legittimi pretesivi si riconosce il danno da ritardo, sulla linea della giurisprudenza consolidata, poiché risulta dagli atti del processo che il ricorrente aveva diritto al “bene della vita” al quale aspirava. Anche la stessa quantificazione del danno, sotto questo profilo, non risulta di difficile calcolo dal momento che per il periodo lavorativo successivo alla richiesta di pensionamento il Comune viene condannato al pagamento delle differenze del trattamento pensionistico e dell’indennità per lavoro straordinario effettuato.

Maggiori spunti di riflessione induce, invece, il riconoscimento nel caso specifico della liquidazione di una somma a titolo di danno esistenziale (Euro 15.000 nel caso concreto). Se sul piano logico il Consiglio di Stato sposa il solito percorso tracciato dalla dottrina favorevole alla sussistenza di tale voce di danno (lettura costituzionalmente orientata dell’art 2059 c.c. al di là dunque dei limiti posti dalla sussistenza anche di un reato) l’approdo finale suscita qualche perplessità.

Un breve passo della sentenza de qua, infatti, afferma “Nella fattispecie che ci occupa è evidente la violazione di una posizione tutelata dall’ordinamento (che l’illecita condotta dell’amministrazione ha leso, ostacolando le attività realizzatrici della persona umana libera dall’impegno e dal logorio dell’attività lavorativa”.

Ancora “Nel caso in esame, il fatto della (forzata) protrazione dell’attività lavorativa consente di risalire al fatto ulteriore del peggioramento della qualità dell’esistenza”.

La nozione di danno esistenziale, ormai recepita, lo descrive come quel danno afferente al danno no patrimoniale e che distinguendosi da quello biologico e morale non costituisce la lesione dell’integrità psicofisica o il patimento transeunte bensì di quegli interessi ed attività che pur essendo areddituali concorrono alla realizzazione della persona umana.

D’altronde, più in generale, non si può non rilevare come lo stesso concetto di danno non faccia che riferimento alla lesione di quei beni, siano essi materiali od immateriali, preesistenti e che compongono il patrimonio del danneggiato.

Nello specifico, poi, non si può non tenere conto che un medesimo fatto può i fronte a diversi soggetti causare o meno un danno esistenziale a seconda che il presunto danneggiato eserciti o meno un’attività o abbia un interesse che in concreto concorra a realizzarne la personalità.

Anche il richiamo ala precedente sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato, poi, sembra valere nella misura in cui si abbia effettiva cognizione della profonda diversità del fatto rispetto a quello oggetto della sentenza in commento. Nella prima ipotesi, infatti, il contendere riguardava la lesione subita da un soggetto invalido che, risultato vincitore nell’apposito ed indetto concorso, non vedeva messa in atto la dovuta procedura di assunzione da parte della p.a. che rimaneva inadempiente.

Che lo svolgimento di un’attività lavorativa costituisca una modalità di soddisfacimento e di realizzazione della persona umana appare di per sé evidente e lapalissiano sulla base di una serie di ovvie considerazioni.

Ad esempio l’art 35 Cost. tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, l’art 36 Cost. afferma che anche gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale. Si consideri, inoltre, che in tema di mantenimento dei figli la giurisprudenze dominante ritiene che il detto obbligo a carico dei genitori sussista finchè il figlio, anche se maggiorenne, non abbia ancora ottenuto, ovviamente senza che gli sia imputabile negligenza alcuna a titolo di colpa, una sistemazione professionale adeguata e proporzionata al percorso di studio svolto ed alle competenze eventualmente acquisite.

Appare contraddittorio, dunque, come possa una medesima attività, di fronte anche allo stesso soggetto, essere font di danno esistenziale nella prima ipotesi in caso di mancato svolgimento e nella seconda circostanza in cui detto svolgimento si protragga oltre il tempo dovuto.

La stessa utilità della nozione di danno esistenziale si apprezza compiutamente nel momento in cui la medesima funga da collante di tutta una serie di interessi che preesistono e che sulla base di criteri oggettivi e presuntivi confluiscano poi nella definizione, appunto, di danno all’esistenza del danneggiato. In altre parole si deve ritenere che non si può risalire a ritroso (attraverso un procedimento inverso) da una presunta lesione di danno esistenziale ricercare, nella migliore delle ipotesi, in un secondo momento attività od interessi che sono venuti meno o che non possono essere più esercitati.

Un tale modus procedendi, peraltro, pare dare la stura alle critiche di tutti coloro i quali ritengono che, in realtà, l danno esistenziale sia un guscio vuoto e un meccanismo perverso di duplicazione delle poste risarcitorie che possono essere già comprese nella nozione, ormai acquisita, del danno biologico.

Di fronte a tali applicazioni, del resto, sembra venire meno l’argomento contrario teso a valorizzare la funzione di filtro selettivo e di minimo comune denominatore del danno esistenziale che è riuscito a superare i limiti posti dall’art 2059 c.c.

Dalla stessa lettura della sentenza citata, inoltre, non emerge alcun elemento che faccia presumere un minimo di istruzione probatoria da parte del ricorrente in ordine allo svolgimento in concreto di una presunta attività degna di essere tutelata sotto il riparo del danno esistenziale.

Si registra, infatti, soltanto l riferimento ad una generica lesione dei valori costituenti la personalità umana lesi dall’impegno e dal logorio dell’attività lavorativa. Il decisum appare, dunque, il frutto di una mera petizione di principio. Un’ulteriore riflessione induce a ritenere che un risarcimento di tale tenore corra il rischio di trattare allo stesso modo situazioni che potrebbero essere differenti con tutto quello che ne consegue in ordine al rispetto del principio di uguaglianza sostanziale.

Sembra incongruo, allora, porre sullo stesso piano il soggetto che, a causa dell’indebita protrazione dell’attività lavorativa, non possa sviluppare ulteriormente ed adeguatamente quelle attività (che ovviamente devono relazionarsi a valori costituzionalmente tutelati) realizzatrici della personalità umana rispetto a colui che, invece, non abbia esercitato o non eserciti attività di tale tenore.

In sostanza la decisione della sezione del Consiglio di Stato sembra voler risarcire un presunto danno per il futuro (detto in altri termini ora per allora), per il futuro rispetto all’insorgere dell’evento lesivo costituito dall’indebita prosecuzione dell’attività lavorativa. In conclusione non va dimenticato che la sentenza sopra citata sembra aver accantonato la funzione selettiva del danno esistenziale e soprattutto che l’onere probatorio incomba sul presunto danneggiato.

C’è da aspettarsi, dunque, che i critici del danno esistenziale di fronte ad una decisione di questo tipo abbiano forti argomenti per sostenere il timore concreto di duplicazione dei meccanismi risarcitori.

Il danno esistenziale conosce una nuova puntata.

La controversa nozione, frutto dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, è stata oggetto di una recente sentenza della V sezione del Consiglio di Stato (deposito del 18 gennaio 2006 n. 125) in cui se ne è riconosciuta l’ammissibilità e, peraltro, con riferimento ad una fattispecie quanto meno discutibile.

Fa riflettere, in verità, che mentre in sede civile si continua a discutere sull’utilità e sulla dignità come concetto autonomo del danno esistenziale in sede amministrativa lo si risarcisca a carico della p.a. anche in quelle ipotesi in cui la stessa agisca in veste autoritativa ed esercitando il proprio potere discrezionale.

La novità, di per sé, non è così assoluta poiché, come ha rilevato autorevole dottrina, poco prima un altra sentenza del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16 marzo 2005, n. 1096) aveva riconosciuto il danno esistenziale a favore del ricorrente ed a carico della p.a. In merito i primi commenti molto laconicamente hanno affermato ce si tratta di due casi che costituiscono l’uno l’inverso dell’altro anche se, come si cercherà di dare conto nel corso dell’esposizione, un’attenta riflessione induce a qualche legittima perplessità.

Per agevolare una migliore comprensione del decisum del Consiglio di Stato si rende necessario un, sia pur breve e sintetico, riassunto dei fatti oggetto del giudizio.

Un pubblico impiegato presentava, nell’ormai lontano 1992, domanda di pensionamento alla quale il Comune (presso cui era impiegato), rimasto inizialmente silente, rispondeva successivamente con un provvedimento di diniego Ottenuta, in un primo momento la sospensione cautelare di tale atto, l’impiegato domandava con separato giudizio il risarcimento del danno derivante dal ritardato pensionamento.

Il Consiglio di Stato ribaltando la decisione di primo grado accoglieva la domanda formulando i seguenti principi di diritto “La forzata prosecuzione dell’attività lavorativa, conseguente al ritardo col quale la P.A. ha provveduto su una domanda i pensionamento, è fonte di danno esistenziale, che può essere ritenuto sussistente sulla base d semplici presunzioni” ed “il danno esistenziale consiste nei riflessi esistenziali negativi (perdita di compiacimento e di benessere per il danneggiato) che ogni violazione di un diritto della personalità produce, ed è risarcibile ai sensi dell’art 2059 c.c., a condizione che il diritto leso abbia rilevanza costituzionale”.

La sentenza in commento, in verità, analizza anche il c.d. danno da ritardo della p.a nell’emanazione di atti o provvedimenti richiesti o dovuti ma su tema il decisum si allinea alle precedenti posizioni giurisprudenziali.

Ribadita, infatti, la giurisdizione del g.a. in materia di interessi legittimi pretesivi si riconosce il danno da ritardo, sulla linea della giurisprudenza consolidata, poiché risulta dagli atti del processo che il ricorrente aveva diritto al “bene della vita” al quale aspirava. Anche la stessa quantificazione del danno, sotto questo profilo, non risulta di difficile calcolo dal momento che per il periodo lavorativo successivo alla richiesta di pensionamento il Comune viene condannato al pagamento delle differenze del trattamento pensionistico e dell’indennità per lavoro straordinario effettuato.

Maggiori spunti di riflessione induce, invece, il riconoscimento nel caso specifico della liquidazione di una somma a titolo di danno esistenziale (Euro 15.000 nel caso concreto). Se sul piano logico il Consiglio di Stato sposa il solito percorso tracciato dalla dottrina favorevole alla sussistenza di tale voce di danno (lettura costituzionalmente orientata dell’art 2059 c.c. al di là dunque dei limiti posti dalla sussistenza anche di un reato) l’approdo finale suscita qualche perplessità.

Un breve passo della sentenza de qua, infatti, afferma “Nella fattispecie che ci occupa è evidente la violazione di una posizione tutelata dall’ordinamento (che l’illecita condotta dell’amministrazione ha leso, ostacolando le attività realizzatrici della persona umana libera dall’impegno e dal logorio dell’attività lavorativa”.

Ancora “Nel caso in esame, il fatto della (forzata) protrazione dell’attività lavorativa consente di risalire al fatto ulteriore del peggioramento della qualità dell’esistenza”.

La nozione di danno esistenziale, ormai recepita, lo descrive come quel danno afferente al danno no patrimoniale e che distinguendosi da quello biologico e morale non costituisce la lesione dell’integrità psicofisica o il patimento transeunte bensì di quegli interessi ed attività che pur essendo areddituali concorrono alla realizzazione della persona umana.

D’altronde, più in generale, non si può non rilevare come lo stesso concetto di danno non faccia che riferimento alla lesione di quei beni, siano essi materiali od immateriali, preesistenti e che compongono il patrimonio del danneggiato.

Nello specifico, poi, non si può non tenere conto che un medesimo fatto può i fronte a diversi soggetti causare o meno un danno esistenziale a seconda che il presunto danneggiato eserciti o meno un’attività o abbia un interesse che in concreto concorra a realizzarne la personalità.

Anche il richiamo ala precedente sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato, poi, sembra valere nella misura in cui si abbia effettiva cognizione della profonda diversità del fatto rispetto a quello oggetto della sentenza in commento. Nella prima ipotesi, infatti, il contendere riguardava la lesione subita da un soggetto invalido che, risultato vincitore nell’apposito ed indetto concorso, non vedeva messa in atto la dovuta procedura di assunzione da parte della p.a. che rimaneva inadempiente.

Che lo svolgimento di un’attività lavorativa costituisca una modalità di soddisfacimento e di realizzazione della persona umana appare di per sé evidente e lapalissiano sulla base di una serie di ovvie considerazioni.

Ad esempio l’art 35 Cost. tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, l’art 36 Cost. afferma che anche gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale. Si consideri, inoltre, che in tema di mantenimento dei figli la giurisprudenze dominante ritiene che il detto obbligo a carico dei genitori sussista finchè il figlio, anche se maggiorenne, non abbia ancora ottenuto, ovviamente senza che gli sia imputabile negligenza alcuna a titolo di colpa, una sistemazione professionale adeguata e proporzionata al percorso di studio svolto ed alle competenze eventualmente acquisite.

Appare contraddittorio, dunque, come possa una medesima attività, di fronte anche allo stesso soggetto, essere font di danno esistenziale nella prima ipotesi in caso di mancato svolgimento e nella seconda circostanza in cui detto svolgimento si protragga oltre il tempo dovuto.

La stessa utilità della nozione di danno esistenziale si apprezza compiutamente nel momento in cui la medesima funga da collante di tutta una serie di interessi che preesistono e che sulla base di criteri oggettivi e presuntivi confluiscano poi nella definizione, appunto, di danno all’esistenza del danneggiato. In altre parole si deve ritenere che non si può risalire a ritroso (attraverso un procedimento inverso) da una presunta lesione di danno esistenziale ricercare, nella migliore delle ipotesi, in un secondo momento attività od interessi che sono venuti meno o che non possono essere più esercitati.

Un tale modus procedendi, peraltro, pare dare la stura alle critiche di tutti coloro i quali ritengono che, in realtà, l danno esistenziale sia un guscio vuoto e un meccanismo perverso di duplicazione delle poste risarcitorie che possono essere già comprese nella nozione, ormai acquisita, del danno biologico.

Di fronte a tali applicazioni, del resto, sembra venire meno l’argomento contrario teso a valorizzare la funzione di filtro selettivo e di minimo comune denominatore del danno esistenziale che è riuscito a superare i limiti posti dall’art 2059 c.c.

Dalla stessa lettura della sentenza citata, inoltre, non emerge alcun elemento che faccia presumere un minimo di istruzione probatoria da parte del ricorrente in ordine allo svolgimento in concreto di una presunta attività degna di essere tutelata sotto il riparo del danno esistenziale.

Si registra, infatti, soltanto l riferimento ad una generica lesione dei valori costituenti la personalità umana lesi dall’impegno e dal logorio dell’attività lavorativa. Il decisum appare, dunque, il frutto di una mera petizione di principio. Un’ulteriore riflessione induce a ritenere che un risarcimento di tale tenore corra il rischio di trattare allo stesso modo situazioni che potrebbero essere differenti con tutto quello che ne consegue in ordine al rispetto del principio di uguaglianza sostanziale.

Sembra incongruo, allora, porre sullo stesso piano il soggetto che, a causa dell’indebita protrazione dell’attività lavorativa, non possa sviluppare ulteriormente ed adeguatamente quelle attività (che ovviamente devono relazionarsi a valori costituzionalmente tutelati) realizzatrici della personalità umana rispetto a colui che, invece, non abbia esercitato o non eserciti attività di tale tenore.

In sostanza la decisione della sezione del Consiglio di Stato sembra voler risarcire un presunto danno per il futuro (detto in altri termini ora per allora), per il futuro rispetto all’insorgere dell’evento lesivo costituito dall’indebita prosecuzione dell’attività lavorativa. In conclusione non va dimenticato che la sentenza sopra citata sembra aver accantonato la funzione selettiva del danno esistenziale e soprattutto che l’onere probatorio incomba sul presunto danneggiato.

C’è da aspettarsi, dunque, che i critici del danno esistenziale di fronte ad una decisione di questo tipo abbiano forti argomenti per sostenere il timore concreto di duplicazione dei meccanismi risarcitori.