Discriminazione e scelte datoriali
Il Tribunale di Milano, nella ordinanza (Tribunale di Milano 19 dicembre 2017, ordinanza estensore Colosimo) in commento, affronta una casistica molto interessante.
Una lavoratrice per molti anni ha seguito, come venditrice, la clientela di lingua russa che acquistava i prodotti di una impresa. Nel tempo tale clientela si era andata assottigliando sempre più, con ciò riducendo significativamente il fatturato della società.
A questo punto il datore di lavoro intimava alla ricorrente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo in quanto “la nostra società, in un’ ottica di riduzione dei costi causata dall’attuale situazione di mercato, resasi necessaria dall’andamento negativo registrato nell’ultimo anno…. e dal conseguente calo di attività connesso alla perdita di clientela russa a seguire la quale Lei è quasi esclusivamente addetta, calo di attività che certamente proseguirà nei prossimi mesi, ha deciso di sopprimere la mansione di Venditrice a lei attribuita».
La lavoratrice eccepiva di essere stata discriminata a causa della lingua e nazionalità che le erano proprie.
In questo licenziamento il Giudice ha ravvisato una discriminazione per la ragione che” il nesso di causalità tra fattore di protezione ( lingua e nazionalità) e trattamento sfavorevole (licenziamento) è addirittura documentale, poiché è la stessa società ad aver dato conto di aver licenziato quella commessa, e non un’altra dipendente, in ragione del calo di attività connesso alla perdita di clientela russa a seguire la quale Lei è quasi esclusivamente addetta”.
Ora, a parere dello scrivente, il giudizio del Tribunale di Milano non è condivisibile.
Sempre a parere nostro nel caso non sussiste alcuna discriminazione nella fattispecie in quanto la lavoratrice in oggetto è stata licenziata non per ragione di “lingua e nazionalità”, come da lei allegato e dal giudice ritenuto, ma per il fatto di essere addetta alla clientela russa in forte calo e sarebbe stata licenziata per la stessa causale (l’essere addetta alla clientela russa in calo) anche se fosse stata di lingua e nazionalità italiana.
A sostegno della sua tesi il Giudice aveva portato, tra l’altro, le seguenti argomentazioni.
“Qualora il lavoratore soddisfi l’onere della prova posto a suo carico, è onere del datore di lavoro provare la ricorrenza di cause di esclusione, tenuto conto che non può ritenersi discriminatoria la scelta datoriale che penalizzi il dipendente portatore di un fattore di protezione- ove lo stesso, in ragione della peculiare natura dell’attività svolta o del contesto in cui la stessa viene resa, assurga a requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività medesima (articolo 3, comma 3, Decreto Legislativo 215/2003 “nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona, qualora, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”).
Ci pare di dovere dissentire anche da tale interpretazione.
Che la lavoratrice sia stata assunta con tale finalità “cura della clientela di lingua russa”, tuttavia non risulta dalla ordinanza ma comunque deve ammettersi che sicuramente, nel tempo, progressivamente, essa si specializzò per trattare la clientela russa comprendendone i gusti e i modi di relazionarsi, specializzazione che la rese differente, disomogenea, infungibile rispetto alle colleghe italiane.
Da notarsi del resto che il testo normativo su riportato non richiede che il soggetto presunto discriminato sia stato necessariamente assunto con riguardo al “fattore protetto”, ma richiede piuttosto che “per la natura di un’attività” o “per il contesto in cui essa viene espletata” non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima.
Né può certo negarsi che, nel contesto in cui operava la lavoratrice, la conoscenza, se non la nazionalità, della lingua russa costituisse un requisito essenziale e determinante e lo sarebbe stato anche se a quella attività fosse stata adibita una commessa di nazionalità italiana che avrebbe dovuto, per ciò stesso, impratichirsi della lingua russa.
Può senz’altro notarsi che il convenuto, forse, avrebbe dovuto svolgere il suo onere probatorio con più attenzione, ma dal contenuto della ordinanza dobbiamo dedurre che il giudice era in possesso di sufficienti elementi per pronunciarsi ,considerato che: “va da sé che, una volta acquisita una prova al processo (non importa se introdotta dal ricorrente o dal resistente), il giudice potrà utilizzarla indifferentemente a favore dell’una o dell’altra parte, non essendo obbligato a valutarla solo a favore della parte che l’ha richiesta ed articolata” (Leanza, Il processo del lavoro, Giuffrè, 2005, pagina 339; v. Cassazione Sezioni Unite, 23 dicembre 2005 n.28498.
Ora la giurisprudenza per individuare il concetto di fungibilità tra lavoratori parla di mansioni sostanzialmente omogenee. Con tale termine non vuol significare certo “mansioni equivalenti” nel senso di cui all’articolo 2103 Codice Civile novellato dalla Legge n.81/2015, ma esso può certo interpretarsi in linea di massima come mansione comprendente compiti similari e intercambiabili, il che non ci pare avvenire nel caso di specie.
Ma anche a volere considerare omogenee le posizioni in oggetto, ricordiamo che l’orientamento della Suprema Corte (da ultimo v. Cassazione 30 agosto 2018 n. 21438) prevede: “va quindi ribadito che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ravvisato nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili perché occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, ove non sia utilizzabile il criterio dell’impossibilità di ‘repechage’, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede e, in questo contesto l’articolo 5 della Legge n. 223 del 1991 offre uno ‘standard’ idoneo ad assicurare una scelta conforme a tale canone, ma non può escludersi l’utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati (Cass. 07/12/2016 n. 25192, 08/07/2016 n. 14021)”.
Ora, nel caso di specie, ci pare rispondere ai criteri di correttezza e buona fede l’avere adoperato il criterio di scelta su indicato, l’avere cioè scelto proprio quella venditrice che era addetta alla clientela che si stava perdendo, senza nessun intento discriminatorio da parte del datore di lavoro, anche se, come noto, nella discriminazione si prescinde comunque dall’elemento soggettivo.
Ora, la soluzione più vantaggiosa e meno costosa per la società era certo quella, dato per provato il calo del fatturato, di espellere la lavoratrice che mal si sarebbe adattata a trattare con clienti italiani o di altre nazionalità,meglio conosciuti dalle colleghe commesse.
Per un caso analogo (a prescindere dalla discriminazione che fu allegata non per “fattore protetto” – eppertanto non sovrapponibile – ma non riconosciuta dal giudice), vedi Corte di Appello di Genova (Presidente Aicardi, Relelatore Ponassi 12 marzo 2019 n.69), dove, a seguito della perdita di importante cliente, con conseguente calo del fatturato, a fronte di posizioni fungibili, era stato confermato il licenziamento della lavoratrice, che curava personalmente tale cliente, per giustificato motivo oggettivo, in tal caso dopo un tentativo di rèpèchage non riuscito.
*L’ordinanza è reperibile nel sito dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.