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Elezione del Capo dello Stato e “smarrimento” dei partiti

un “classico” italiano
Sergio Mattarella
Sergio Mattarella

È indiscutibile che le ultime Presidenze della Repubblica risultino accumunate dalla notevole difficoltà delle forze politiche di pervenire ad un’intesa in merito alla figura istituzionale più autorevole. Come quella in corso, anche l’elezione di Giorgio Napolitano del 2006 è avvenuta nel quadro di un’animata contrapposizione tra maggioranza ed opposizione, con 543 voti su 990 (54, 8%). Egli, dunque, necessitava di ottenere un ampio consenso tra i partiti, ponendosi da promotore della “pacificazione nazionale”, nonché garante del rapporto tra maggioranza ed opposizione. Nella prima parte del settennato, Napolitano opera per la maturazione ed il consolidamento dell’assetto bipolare; negli ultimi anni, invece, esercita funzioni di supplenza sia dell’Esecutivo, sia dell’opposizione parlamentare. A tale proposito, occorre precisare che la destrezza del Presidente non prende le mosse dalla vulnerabilità delle forze politiche, bensì da due circostanze: l’ampio riconoscimento popolare, raggiunto nel 2011 e la legittimazione internazionale acquisita nella gestione della crisi libica.

In uno scenario ancor più drammatico e privo di certezze si svolse l’elezione del 2013: per la prima volta nella storia repubblicana, si concretizzava l’ipotesi della rielezione presidenziale; il vuoto costituzionale venne interpretato in chiave permissiva. In passato, alcuni Presidenti si erano limitati meramente ad “accarezzare” l’idea di un secondo mandato: nel 1955, Luigi Einaudi chiese ai leaders democristiani di essere rieletto; nel 1962, l’ipotesi di una conferma di Giovanni Gronchi era stata realisticamente considerata dal segretario DC Aldo Moro.

Su tale lunghezza d’onda si muovono due messaggi scritti inviati alle Camere il 17 settembre 1963 dal Presidente Antonio Segni ed il 15 ottobre 1975 dal Presidente Giovanni Leone, nei quali si invocava una revisione costituzionale al fine di prevedere la non rieleggibilità del Capo dello Stato. Accantonando tale questione, la risalita al Colle di Napolitano si contraddistinse per l’incapacità delle Camere neo-elette di scegliere un nuovo Presidente della Repubblica, a crisi di governo aperta.

In realtà, il problema avrebbe potuto essere risolto, tenuto conto che il Presidente della Repubblica è stato eletto al sesto scrutinio e le votazioni avrebbero potuto proseguire sino alla scadenza del 15 maggio. Il disorientamento dei partiti è stato riscontrato e marcato dallo stesso Capo dello Stato – dimissionario e rieletto – in occasione del messaggio di insediamento. In particolare, egli rivolgeva alle forze politiche un rigido monito, nel quale richiamava l’urgenza di una serie di riforme istituzionali (in primis, della legge elettorale), già segnalata nel corso della XVI legislatura.

Il Capo dello Stato, altresì, sollecitava le componenti politiche ad assumersi le responsabilità derivanti dalla situazione politica, ponendo l’accento sulla necessità di pervenire ad intese finalizzate alla formazione di un Governo di “solidarietà nazionale”. La rielezione di Giorgio Napolitano segna l’apice del comando presidenziale nella determinazione dell’indirizzo politico: il Capo dello Stato è “motore di riserva” della forma di governo parlamentare italiana. Nell’ultimo tradizionale discorso di fine anno, il Presidente Napolitano riserva talune riflessioni al suo successore, auspicando che quest’ultimo potesse accompagnare il Parlamento, il Governo e le forze politiche sino al traguardo delle riforme, al fine di ricucire i fondamentali legami di solidarietà politica, economica e sociale. Del resto, il Capo dello Stato, dimessosi in anticipo per motivi di salute, aveva scommesso sulla capacità di tornare alla normalità, venuta meno ad inizio legislatura. Da qui la necessità di indicare un solo nome, nonché una personalità politica esperta e non un tecnico, dotata di moderazione e politicamente distaccata dal suo predecessore.

La salita al Colle di Sergio Mattarella sembra restituire dignità alla politica: alla quarta votazione, egli ottiene ben 665 preferenze, un quorum che sfiora la maggioranza qualificata e colloca al nono posto il costituzionalista nella classifica dei Presidenti della Repubblica conquistanti la più elevata percentuale di voto, con al vertice l’indimenticabile Sandro Pertini. La coesione sulla candidatura del successore di Napolitano testimonia la particolare considerazione di cui gode il Presidente Mattarella in politica e nella società, quale figura rigorosa e riservata, avente il complicato compito di ridare credibilità alle istituzioni italiane. Cinque anni dopo, è la stessa politica a sminuire la Presidenza Mattarella, accusando ripetutamente il Capo dello Stato di avere violato giuridicamente il suo dovere di fedeltà alla Repubblica, invocando così il c.d. impeachment. Sebbene la linea della messa in stato di accusa del Capo dello Stato da parte del Parlamento in seduta comune per alto tradimento e attentato alla Costituzione sia stata accantonata, permane l’errore politico ed il conseguente caos istituzionale (senza precedenti). Ove il Parlamento avesse provveduto alla messa in stato di accusa, si sarebbe trattato di un rischio irragionevole, senza ottenere il risultato auspicato: la Corte costituzionale non solo avrebbe dichiarato il ricorso “inammissibile”, ma si sarebbe preoccupata di segnalare i noti precedenti, riferendo le disposizioni costituzionali giustificanti l’azione presidenziale.

Quella in corso si presenta come un’elezione ancora più complessa, sia per il delicato periodo storico, sia per la sussistenza di una maggioranza non compatta.

Tale ultimo aspetto assume particolare rilevanza, in quanto la scelta del Capo dello Stato è espressione di una decisione politica; di conseguenza, il mandato presidenziale è condizionato dai “numeri” con cui è stato eletto.

La storia repubblicana insegna che l’elezione a larga maggioranza rafforza la posizione della figura in esame: a differenza di Pertini, al quale era concesso di sostituirsi al Governo, Leone era considerato un estraneo da parte del suo stesso partito. Vi è chi, poi, riesce a conquistare la stima delle forze politiche più diffidenti (come Napolitano).

È opportuno sottolineare un altro elemento che – ad avviso di chi scrive – contraddistingue notevolmente l’elezione presidenziale del 2022: per la prima volta nella storia repubblicana, le forze politiche sono chiamate a scegliere un Capo dello Stato in presenza di un “Governo del Presidente, ossia di un Esecutivo che, oltre alla fiducia resa dal Parlamento, si poggia sulla fiducia del Colle. I partiti (e i loro leader), dunque, dovranno considerare congiuntamente due campi di “battaglia”, il Quirinale e Palazzo Chigi, e specialmente gli effetti dell’una sull’altra;

la situazione appena delineata genera inevitabilmente un senso di “smarrimento” tra i partiti. È ormai tempo di rimischiare le “carte”: a causa dell’inadeguato funzionamento del sistema istituzionale e della costante instabilità governativa, la figura presidenziale è diventata la vera “colonna portante” del Paese, non solo in termini di politica interna, ma anche (e soprattutto) in termini di politica estera.

Alla luce di ciò, l’elezione in corso dovrà portare al Colle una personalità dotata di stabilità e credibilità internazionale.