x

x

Enzo Tortora disse solo tre categorie di persone non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati

Enzo Tortora il 18 maggio 1988 muore: la sua storia è rimasta un simbolo degli errori giudiziar
Adelaide Aglietta con Enzo Tortora alla Marcia contro la Fame, Roma, da piazza Trinità dei Monti a piazza san Pietro.
Adelaide Aglietta con Enzo Tortora alla Marcia contro la Fame, Roma, da piazza Trinità dei Monti a piazza san Pietro.

Enzo Tortora disse solo tre categorie di persone non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati 

Enzo Tortora nei sette mesi trascorsi in carcere scrisse numerose lettere alla compagna Francesca Scopelliti, nella prima Enzo Tortora scrive: "È stato atroce, Francesca. Uno schianto che non si può dire. Ancora oggi, a sei giorni dall'arresto, chiuso in questa cella 16 bis, con altri cinque disperati, non so capacitarmi, trovare un perché. Trovo solo un muro di follia".

Filodiritto ha scelto di ripubblicare una di queste lettere testimonianza che sembra scritta oggi.

Enzo Tortora un breve excursus della vicenda giudiziaria: L' inchiesta nei riguardi di Enzo Tortora cominciò nei premi mesi del 1983, quando Pasquale Barra e Giovanni Pandico, personaggi di rilievo della ''Nuova Camorra Organizzata'' (Nco), capeggiata da Raffaele Cutolo, decisero di dissociarsi dall'organizzazione e di collaborare con gli inquirenti.

I due ''pentiti'' indicarono Tortora, ''quello di Portobello'' - il popolare programma televisivo che conduceva - quale appartenente alla "Nco" con l'incarico di corriere di stupefacenti, per cui Enzo Tortora fu arrestato a Roma il 17 giugno di quell' anno, nel corso di un'operazione diretta dalla Procura di Napoli per l'esecuzione di 856 ordini di cattura.

Tortora fu bloccato all'alba in un albergo di Roma, ma fu portato in carcere in tarda mattinata, solo quando - secondo i difensori - fotografi e cineoperatori furono pronti a ritrarre l'imputato in manette. Fin dal primo momento Tortora si disse innocente, nonostante crescesse continuamente il numero dei pentiti che lo accusavano.

Dopo sette mesi di detenzione in carcere, l'imputato ebbe gli arresti domiciliari dal tribunale della libertà, quasi in coincidenza con il pentimento di un rapinatore, Gianni Melluso, detto "Gianni il bello", che raccontò di consegne di stupefacenti da lui fatte a Tortora per conto del boss milanese Francis Turatello. Enzo Tortora fu eletto eurodeputato radicale il 17 giugno 1984.

Il 20 luglio 1984 tornò in libertà ed annunciò che avrebbe chiesto al Parlamento europeo di concedere l'autorizzazione a procedere nei suoi riguardi; autorizzazione che fu data il 10 dicembre.

Rinviato a giudizio, il 4 febbraio 1985 comparve davanti al Tribunale di Napoli, ribadendo ai giudici la sua innocenza, in contrasto con le accuse dei pentiti. Il 17 settembre arrivò la sentenza di primo grado: condanna a dieci anni di reclusione per associazione per delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti.

Un anno dopo, il 15 settembre 1986, la Corte di Appello di Napoli rovesciò il verdetto: Tortora fu assolto con formula piena, ed i pentiti furono giudicati non credibili. "E' la fine di un incubo", disse Enzo Tortora.

L'innocenza dell' imputato fu definitivamente confermata il 13 giugno 1987 dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione.

Meno di un anno dopo, il 18 maggio 1988, Enzo Tortora morì per un cancro ai polmoni.
 

Enzo Tortora: la lettera

L’operazione dialettica è molto semplice. Se un cittadino, sbattuto in galera innocente, processato e condannato a pene enormi sulla sola parola di criminali “pentiti”, se dunque, osa protestare, urlare alla vergogna, chiedere un tipo di giustizia diverso e degno dell’Occidente, allora salta su, da una delle correnti della nostra beneamata Magistratura il solito (disinformato) colonnello in toga che accusa (la citazione è testuale) “di screditare l’immagine di una giustizia impegnata sul difficile fronte della criminalità organizzata” (Sic!).

Ma che c’entra? Vien voglia di dirgli. Voi mi parlate di giustizia. Io grido all’ingiustizia, io vi parlo dei diritti di ogni cittadino e voi mi rispondete gargarizzando retorica.

È proprio dal peccaminoso mondo dello spettacolo che voglio trarre un’adeguata immagine.

Nel vecchio varieté, quando la sciantosa era in crisi, e lo spettacolo faceva acqua, si dava ordine ai macchinisti di buttar giù il fondale con l’immagine dell’Italia, turrita e regolarmente cinta del tricolore. “Evviva Trento e Trieste” si gridava allora: e si otteneva un applauso “spontaneo” irrefrenabile, un applauso che salvava lo spettacolo e metteva fine alla imbarazzante situazione. La gente, uscendo, dimenticava quasi che lo spettacolo faceva schifo. Certe abitudini gli italiani, o meglio certe corporazioni, le hanno conservate. Alcuni mettono fine ad una discussione, facendo scendere oggi dal fondale l’immagine della Magistratura, cinta di lauri, la bilancia (assai sbilanciata e con pesi ahimè falsi) in mano, e all’inno “viva la Magistratura”, che si impegna sul difficile fronte…. eccetera eccetera, si attacca la fanfara consueta. È il tipo di operazione irritante, demagogica, ma pesantemente avanzata quando si tenta da noi di discutere sulla tematica, atroce, del processo di tipo sovietico-napoletano, “felicemente” conclusosi (per il 1° troncone) l’altro giorno. Osereste voi mettere in dubbio… eccetera eccetera!?

Sì, bisogna dirlo: osiamo metterlo in dubbio. Osiamo negare, per esempio, che magistrati incapaci, o palesemente, pervicacemente immersi in un dialogo privilegiato coi “loro” pentiti, magistrati che disprezzano le prove, la ricerca dei riscontri più grossolani, e gli stessi diritti della difesa, mietano gli stessi applausi, godano degli stessi consensi, usufruiscano dello stesso rispetto di cui godono invece magistrati onesti, scrupolosi, professionalmente preparati. Ce ne sono ancora, per fortuna. Ma la sceneggiata napoletana mostra invece le sue vistose crepe. Nessun “viva l’Italia”, gridato dal capoclaque di qualche “corrente” riuscirà mai a far dimenticare al pubblico l’indecenza di quello spettacolo. Figuriamoci se potranno dimenticarlo le vittime. Ora, si dice, una volta stabilito che la camorra è un fenomeno essenzialmente milanese capeggiata da un ligure come il sottoscritto, un uomo cancellato dalla vita, e dal suo lavoro, e coperto di infamia, bisogna attendere la motivazione”.

In Italia bisogna attendere sempre qualche cosa. Una volta è il tram, una volta il rimborso Iva, una volta (e qui si rivela la cultura del disprezzo nella quale il Paese è immerso) che la libertà, la dignità, la salute, l’onore di un uomo o di una donna sottoposte a strazio abbiano giustizia e risarcimento. Ma dopo una sentenza che rappresenta una vergogna, cosa ci si può attendere di più da una motivazione” che non può che ripercorrere i sentieri “logici”, ma di una logica aberrante e stravolta che ha condotto a quella vergogna? Una volta che si è solennemente affermato che zero più zero fa dieci, cosa può contenere di nuovo, di rivoluzionario se non l’ancor più agghiacciante mappa del pensiero “matematico” di certi giudici”? Naturalmente per attendere questa mirabile opera pitagorica occorreranno mesi. Dico mesi. La legge, per la verità, la richiederebbe in quindici giorni. Ma si può chiedere il rispetto della legge a una “magistratura impegnata sul difficile fronte…” eccetera eccetera?

Perfino le cento e più assoluzioni di quel processo mostruoso (e che suonano per l’istruttoria bocciatura solenne dopo anni di carcere per gli interessati) sono state nei commenti napoletani, giustificati da carenze degli uffici”, eccetera eccetera.

Un avvocato, di quelli a vongole, di quelli che festeggiano offrendo il caffè al pm, ha persino osato dire che “se si fosse dedicato meno tempo alle indagini su Tortora, forse gli errori sarebbero stati minori”. È il colmo! Su di me (e qui sta una delle tante vergogne) non si è fatto il minimo accertamento. Benchè fosse addirittura, dai miei difensori, implorato. Ma l’uomo che parlava di una “giustizia impegnata sul fronte”, non ha torto. Si tratta proprio di “fronte”, di terminologia militare.

È giustizia per campagne, giustizia all’ingrosso, che può concedersi tutto, anche il massacro del diritto, in nome della nobiltà del fine. Machiavelli, un Machiavelli mal letto, in certe procure e, con la sanguinose scorciatoie dei pentiti, fa strage di civiltà. Giustizia di guerra, dunque. E quindi, plotoni di esecuzione.

La mia pallottola era già in canna dal 17 giugno 1983. Anzi, da qualche mese prima, mentre lavoravo spensierato, onesto e felice. Quello che avete fatto a me, signori napoletani, è enorme. Ma non tanto quello che avete fatto “di me”. Ma “dentro di me”. La vostra arroganza crudele, la vostra supponenza spocchiosa resterà indimenticabile nella storia dell’anti-diritto. E chi mai, tra le vestali che si squassano le vesti dinanzi al grido di radicali e di socialisti contro il metodo napoletano ha letto una, dico una sola pagina di questo processo? Essi ci accusano di “lesa Maestà”, di vilipendio. Del resto, io stesso sono stato denunciato per aver replicato con un “è un’indecenza” agli insulti del pubblico ministero.

Dicendo “indecenza” mi contenni. Se qualcosa, caso mai, di questa motivazione mi interessa è il sapere dove sono finite le lettere che dimostravano, e storicamente, l’impossibilità della lunare accusa che mi è costata 10 anni. Erano misteriosamente scomparse (a Napoli succede anche questo). Ricordate il “giallo delle lettere”? Noi gridammo, ancora una volta, all’inciviltà. “Le lettere ci sono” assicurò il Presidente. Ma il giorno dopo fece marcia indietro: “non si trovano proprio”. E con quella bella coerenza, entrò in camera di consiglio: “sarà una cosetta veloce” ebbe la bontà di prevenirci.

Io auguro a quei giudici di assaggiare sulla loro pelle, un giorno, i morsi di uno o più pentiti. Di vedere crollare in un giorno la loro vita, la loro fatica, il loro onore. Sul nulla. Per nulla. Ma non si rivolgano quel giorno ai radicali che, da soli, conducono, in un paese sordo, distratto, superficiale, questa immensa battaglia di riforma.

Rischierebbero di trovare la nostra porta sbarrata, con la scritta: “Chiuso per lutto. La giustizia è ormai morta”.