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Equilibrio e squilibrio economico e normativo nel contratto, con particolare riferimento alle clausole vessatorie

Il contratto, in quanto negozio, può essere bilaterale o plurilaterale: i concetti di contratto, consenso, accordo, richiamano tutti una pluralità di parti, per quanto la pluralità di voleri che  lo pongono in essere, comporta sempre una bilateralità. Il negozio giuridico  può essere anche unilaterale, ma anche in questo caso sussiste una bilateralità, per gli effetti obbligatori che ne derivano. Se le prestazioni restano a carico di una sola parte, il negozio resta unilaterale e privo di corrispettività (donazione, mandato, fideiussione, mutuo, comodato, ecc.); di contro, il contratto è sinallagmatico laddove comporti contemporaneamente obblighi e diritti a prestazioni reciproche collegate tra loro da un rapporto di interdipendenza (permuta, compravendita, locazione, assicurazione, ecc.). Da parte di alcuni si parla di bilateralità imperfetta, come quella che ricorre in quelle fattispecie in cui esistono controprestazioni ma prive di valore economico, o prestazioni principali ed accessorie ma tutte a carico di una sola parte (mutuo oneroso, mandato, deposito).

Si definisce sinallagma proprio siffatto legame reciproco, che sorge tra prestazione e controprestazione e che rende, con la sua forza, le obbligazioni interdipendenti e non meramente coesistenti.

Trattasi di una distinzione essenziale ai fini degli effetti e delle conseguenze ad essa connessi, che non va confusa con quella tra contratti gratuiti o onerosi, in quanto tutti i contratti corrispettivi sono onerosi, ma non tutti i contratti onerosi sono necessariamente corrispettivi (come gli stessi tre tipi di contratto di cui sopra, infatti unilaterali).

Tale sinallagma può essere genetico, laddove si prenda in considerazione la formazione del vincolo e pertanto il rapporto di giustificazione causale che intercorre reciprocamente tra le obbligazioni al momento della stipulazione del contratto, o funzionale, laddove si prendano in considerazione la vita del rapporto e le reciproche prestazioni che hanno origine dal contratto nel loro atteggiarsi durante il perdurare del vincolo contrattuale e nella sua fase esecutiva.

Solo al momento dello scambio previsto dal contratto e quindi all’esecuzione di questo, si realizza in concreto la funzione economica del contratto stesso.

In tutti i casi ciò non avvenga esattamente o completamente, si ha alterazione del sinallagma e quindi della stessa causa del contratto, difetto funzionale e non genetico, in più diverso dalla mancanza o illiceità originaria della stessa.

L’equilibrio del contratto è quindi la normalità nel rapporto negoziale, lo squilibrio la patologia che lo vizia. L’equilibrio può riferirsi tanto al profilo normativo del contratto, inteso come sintesi delle posizioni normative dei contraenti, come assetto contrattuale allocativo di diritti, obbligazioni, oneri, responsabilità e rischi, quanto al profilo economico, che invece riguarda più specificamente il valore economico delle prestazioni oggetto di scambio, considerate non in se stesse, ma nel complesso dell’operazione economica cui accedono. Inoltre, l’equilibrio può essere riferito, oltre che agli elementi oggettivi del contratto (regole e prestazioni), anche alle persone dei contraenti. Si pensi  agli artt. 1537 e 1538 cod. civ., in tema di rettifica del prezzo nella compravendita a misura e a corpo, i quali hanno lo scopo di evitare sperequazioni non espressamente previste e volute. Le norme in questione intervengono nell’ipotesi in cui vi sia uno scarto tra misura reale del bene e quella indicata nel contratto, ma non impongono un rapporto di necessaria equivalenza tra i valori dei beni scambiati; infatti, le parti potrebbero legittimamente derogare alle disposizioni stesse, atteso il loro carattere dispositivo. La libertà riconosciuta alle parti di estendere l’alea normale del contratto o di trasformarlo in contratto aleatorio è ulteriore indice della inesistenza di un principio di equilibrio imperativo, idoneo, cioè, ad imporsi alle parti stesse. 

Tuttavia, il legislatore è intervenuto al precipuo scopo di fissare il limite entro il quale un’eventuale sproporzione tra prestazioni non rilevi rendendo il contratto appunto viziato, in modo non giustificato dal libero gioco del mercato, ma frutto dell’approfittamento di un contraente nei confronti dell’altro che si pone in posizione di supremazia realizzando una lesione ultra dimidium, come accade nel diritto penale quando si sanziona il reato di usura di cui all’art. 644 cod. pen. che punisce le ipotesi in cui, quale corrispettivo di una concessione di credito, vengano richiesti non soltanto interessi usurari, ma anche altri vantaggi usurari come le prestazioni di dare o di facere, diverse dalla corresponsione di interessi - nonché le ipotesi in cui, come corrispettivo di altra utilità, vengano richiesti vantaggi usurari). L’accostamento tra la sproporzione richiesta per l’usura e il superamento del limite dell’ultra dimidium richiesto per la rescissione perde ogni fondamento sulla base della lettera della nuova legge antiusura, nella quale la disparità economica, penalmente rilevante, tra le prestazioni delle parti nei contratti di mutuo o di finanziamento in genere, non è quella ultra dimidium prevista per la rescissione, ma quella superiore ad un terzo.

Se si considerano, poi, le altre due ipotesi di usura previste dalla nuova norma (ossia l’usura pecuniaria “in concreto” e quella “reale”), si nota che, concorrendo il requisito delle condizioni difficoltà economica o finanziaria, addirittura la sanzione penale è comminata anche se la sproporzione non raggiunga tale soglia, ma le concrete modalità del fatto e il prezzo medio praticato nelle operazioni di scambio di quel tipo, insieme alla situazione di disagio economico della vittima, comportino il giudizio di disvalore necessario per assegnare valenza impari alle prestazioni contrapposte e connotazione di usurarietà al loro scambio.

Si pensi inoltre al controllo legale sul contenuto del contratto di trasporto, laddove vengono colpite da nullità le clausole che limitano la responsabilità del vettore per sinistri che colpiscono il viaggiatore (art. 1681, comma 2, cod. civ.), nullità giustificata dalla rilevanza dell’interesse da tutelare, ovvero l’integrità della persona umana. Oppure si pensi ai contratti di assicurazione, e alla proporzione tra rischio e premio, laddove parte della dottrina osserva che nei contratti corrispettivi le prestazioni vengono stabilite come punto d’arrivo delle trattative al momento della conclusione del contratto, per cui ciascuno dei contraenti sa, fin dalla stipulazione del negozio, quale sarà l’ammontare della sua prestazione e quale sarà l’entità del corrispettivo, rilevando l’estraneità, rispetto al concetto di corrispettività, della corrispondenza soggettiva patrimoniale dei sacrifici cui sono tenute per contratto le parti.

A tutela della proporzionalità tra le prestazioni e quindi dell’equilibrio economico il codice civile prevede una serie di rimedi quali la rescissione e la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, con la differenza che mentre nelle ipotesi rescissorie si tratta di uno squilibrio originario, presente già al momento della conclusione del contratto, nella ipotesi risolutoria si tratta di inadeguatezza verificatasi successivamente alla sua conclusione, in conseguenza di accadimenti obiettivi, imprevisti ed imprevedibili, che hanno alterato il valore delle prestazioni. Gli istituti della rescissione e della risoluzione per eccessiva onerosità denotano che non necessariamente le parti sono tenute ad elaborare un assetto di interessi in cui le diverse prestazioni abbiano un equivalente valore economico e che anche in presenza di prestazioni non equivalenti il contratto concluso deve essere eseguito, in ossequio al principio “pacta sunt servanda”.

Ciò spiega il perché sia ritenuto conveniente anche un determinato assetto di interessi in cui la valutazione economica delle prestazioni potrebbe essere estremamente favorevole ad uno

dei contraenti (meritevole di tutela, ad esempio, un contratto di compravendita in cui una parte acquista un bene ad un prezzo anche di gran lunga superiore al suo valore intrinseco, qualora tale bene soddisfi un interesse morale della parte stessa).

In buona sostanza, il legislatore ha previsto in alcune ipotesi l’operatività di un criterio di oggettività tra il valore delle prestazioni, allorché una o entrambe non siano state sufficientemente determinate dalle parti; ma tale criterio ha solo funzione integrativa dell’elemento volontaristico, in quanto la sua funzione non è quella di attribuire alla prestazione indeterminata un valore corrispondente a quello della controprestazione, ma quello di “attribuire un valore certo, evitando l’inefficacia del contratto”.

L’ordinamento giuridico – almeno con riferimento alle norme codicistiche - tende a stabilizzare l’assetto di interessi concordato dalle parti al momento della stipulazione del contratto, rendendo così intangibile quanto da loro voluto mediante le reciproche manifestazioni di volontà.

Il contenuto delle prestazioni costituisce l’oggetto della volontà così come i contraenti l’hanno palesata, ed al giudice non è permesso sostituire il proprio criterio a quello adottato dalle parti per stabilire se lo scambio, così come voluto e realizzato, sia economicamente  equo. L’equilibrio oggettivo o equivalenza resta estraneo allo schema contrattuale, cedendo il passo alla adeguatezza, ossia alle reciproca convenienza, secondo le valutazioni soggettive delle parti; il contratto, pertanto, è lo strumento per la realizzazione non di esigenze di giustizia equitativa, bensì di interessi subiettivamente ritenuti rilevanti dai contraenti.

Al contrario, un’alterazione, liberamente scelta, dell’equilibrio economico risulta accettata dall’ordinamento che si preoccupa di salvaguardare soltanto un comportamento di correttezza e buona fede nella materia delle trattative contrattuali.

La buona fede (oggettiva, quale dovere generale di correttezza e reciproca lealtà di condotta nel rapporto e soggettiva, quale ignoranza incolpevole di ledere una situazione altrui giuridicamente protetta) e la correttezza sono infatti principi fondamentali a cui i soggetti obbligati devono attenersi fin dalla fase delle trattative e formazione dell’accordo (consenso nel caso dei contratti del consumatore o c.d. per adesione), in relazione alle esigenze del mercato e ai principi di solidarietà umana e sociale. Entrambi i principi  rispondono alla medesima esigenza di affidamento reciproco nel rapporto obbligatorio (artt. 1175, 1337, 1338 e 1375 cod. civ.), ma la loro violazione si misura e valuta diversamente a seconda che si tratti di contratti di diritto comune, di contratti coi consumatori o di contratti di impresa.

Nei primi - contratti di diritto comune, operano le norme di cui sopra fin dalla fase precontrattuale e le eventuali cause di invalidità sono quelle di nullità, annullabilità    e secondo la giurisprudenza anche di inesistenza ed inefficacia – del contratto in generale.

Nei contratti coi consumatori si va oltre i limiti previsti per quelli di diritto comune e la sanzione approntata dall’ordinamento incide sulla tutela, rafforzata in termini ad es. di rimborso, recesso, ecc., in capo al contraente debole, che patisce lo squilibrio.

Infine, nei contratti di impresa, non rilevano i limiti codicistici della diligenza, onerosità e convenienza – che si hanno per presupposti – ma il dolo commissivo e non operano i limiti previsti per quelli di diritto comune.

Invero, nella fase esecutiva del contratto questi principi rappresentano al contempo criterio di valutazione e parametri integrativi, suppletivi a carattere cogente, in quanto valori esterni al contratto ma determinabili, elevati a principi costituzionali limitati solo da un lato da norme di ordine pubblico, dall’altro dall’autonomia contrattuale.

In questa prospettiva acquistano significato le posizioni del c.d. contraente debole e contraente forte, preoccupandosi la legge di proteggere il primo, genus di cui il consumatore è una species. Il rapporto di proporzione che deve intercorrere tra le rispettive prestazioni non deve alterarsi, sicché qualsiasi difetto si riscontri si ripercuoterà sulla causa.

Quel che più rileva in questo percorso è chiedersi se buona fede e squilibro (significativo) costituiscano due criteri autonomi sufficienti ciascuno a determinare la nullità di una clausola o debbano entrambi concorrere per qualificare vessatoria una prescrizione legale.

Per quel che riguarda la nozione di squilibrio, il legislatore, ispirandosi alla direttiva comunitaria, ha voluto attribuire rilevanza giuridica unicamente al c.d. squilibrio “normativo”, escludendo che la verifica giudiziale (di cui all’art. 34 cod. consumo) possa sindacare anche il rapporto di equivalenza economica tra il valore delle prestazioni dedotte in contratto (squilibrio economico). Con questo approccio si evita il pericolo di un’interpretazione astratta e formalistica dei diritti e degli obblighi derivanti dal rapporto contrattuale e la regola della correttezza guida l’interprete verso una valutazione sostanziale e concreta dei vari interessi in causa. Per squilibrio economico si intende- come si è visto - la sproporzione valoristica tra le prestazioni. Esso ricorre nel caso ad esempio del contratto usurario, dove il contraente debole non è un consumatore, ma un soggetto debole nei confronti del cui stato di bisogno e difficoltà economica la controparte si approfitta (es. usura). La protezione si rivolge in questo caso direttamente all’alterazione della causa dello scambio o dell’attribuzione, in quanto come sottolineato dalla stessa Cassazione l’usura si realizza ogni volta che si è in presenza di uno scambio di prestazioni, cui consegue una sproporzione.

Giova in via preliminare riprendere le argomentazioni sulla buona fede e ricondurre ad un unico parametro la verifica di abusività/vessatorietà (caratteristica che di seguito verrà approfondita) affinché la valutazione diretta, volta a stabilire quando uno squilibrio è in realtà significativo, dovrà anch’essa procedere secondo gli schemi di applicazione concreta del principio di buona fede, principio che come si è visto non permette di dare rilievo a squilibri insignificanti o non in grado di pregiudicare in modo apprezzabile gli interessi del contraente debole. E’ sulla consistenza ed entità che si dovranno valutare le situazioni, potendosi - come extrema ratio - ipotizzare squilibri significativi, ma non consistenti e squilibri non significativi, ma consistenti.

Quel che più interessa nella presente disamina è 1) l’aspetto patologico del sinallagma (a livello genetico o funzionale che sia), alterazione che può in realtà verificarsi sia in fase precontrattuale che a contratto e vincolo ormai esistente, sia dal punto di vista normativo che economico, per cui più che di ripristino dello squilibrio/riequilibrio vero e proprio occorre riportare il rapporto contrattuale quanto meno ad equità (art. 1374 cod. civ. equità come  fonte di integrazione del contratto); di conseguenza 2) quale tipologia di squilibrio normativo od economico rilevi nel caso delle clausole vessatorie.

Circa il primo aspetto il contrasto tra buona fede ed equità e quello sul loro ruolo nel sistema normativo per quanto riguarda l’autonomia contrattuale hanno un indubbio valore dogmatico, di certo un assunto pacifico è quello che tale autonomia incontra oggi dei limiti contenutistici che in passato non esistevano. La tutela equitativa riconducibile, però, interviene soltanto in caso di mancanza di libertà nella valutazione del rapporto di corrispettività fra le prestazioni. Per dare una risposta al secondo quesito, risposta che sia supportata dal dato normativo sia formalmente che sostanzialmente, occorre in primis analizzare in cosa esse consistono e la ratio del loro trattamento dal punto di vista della recente normativa.

Con la legge comunitaria 1994 (L. 1996/52) si è data attuazione alla Direttiva CEE 93/13 concernente le clausole abusive nei contratti dei consumatori, inserendo nel Titolo II del Libro IV del codice civile un nuovo Capo, il XIV-bis, rubricato appunto “Dei contratti del consumatore”, applicabile a qualsiasi contratto, quale che ne sia la causa o l’oggetto, disciplina poi trasfusa quasi interamente – ad eccezione del solo art. 1469bis il cui contenuto è peraltro mutato – negli artt. 33-37 del codice del consumo. La ratio di tale intervento – formale dal punto di vista del codice civile, sostanziale nella normativa speciale, è da rinvenirsi nell’esigenza di approntare una forma di controllo “contenutistico” dei contratti per adesione. In generale nei contratti coi consumatori l’asimmetria informativa da un lato e la posizione economicamente più debole di questi ultimi genera uno squilibrio contrattuale sia normativo che economico, appunto la sintesi dei concetti espressi in precedenza, anche se  nello specifico delle clausole vessatorie lo squilibrio che costituisce il criterio di valutazione circa l’abusività della prescrizione è e può essere solo quello normativo.

La nozione di consumatore (persona che agisce al di fuori dell’attività imprenditoriale) non è univoca: la dottrina considera tale figura in forma più ampia di quella della giurisprudenza (Corte di giustizia europea e Cassazione), ricomprendendovi anche colui che compie acquisti in vista di una futura attività commerciale  che il piccolo imprenditore inesperto oppure un professionista – tipo medico o avvocato – che agisce nell’ambito della propria attività lavorativa in qualità di consumatore. Egli si presenta intrinsecamente più debole quanto a potere contrattuale nei rapporti con un professionista.

E l’ordinamento presuppone e richiede necessariamente che un professionista abbia la competenza necessaria per negoziare e informare la controparte, a meno che non si trovi egli stesso nella veste di acquirente-consumatore.

L’art. 33 del cod. consumo (“nel contratto concluso tra il consumatore e il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinino a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”) è stato interpretato dalla dottrina in modo controverso: secondo alcuni la funzione riequilibratrice del contratto risiede nella buona fede e non nell’equità con conseguente limite all’autonomia negoziale. Ma il testo normativo non sembra suffragare tale orientamento a causa dell’espressione “malgrado la buona fede”, da questo primo filone interpretato – appunto - con valore concessivo. Tanto che secondo altri, e sembrerebbe ad oggi l’orientamento maggioritario, il richiamo legislativo è invece alla buona fede oggettiva (“malgrado” inteso come “in contrasto”): una lettura soggettiva del precetto privererebbe la buona fede di rilievo giuridico in contrasto evidente con il ruolo che la stessa dovrebbe svolgere quale strumento di controllo contenutistico delle clausole vessatorie, più volte richiamato nel corso di questa trattazione.

Ferma restando la validità della restante parte del contratto (inefficacia parziale), esse si considerano nulle (né l’uso potrebbe servire ad integrarle) tanto che l’autorità giudiziaria, qualora investita di una controversia relativa ad un contratto di tale specie, può dichiarare, con sentenza di accertamento, tale nullità, anche laddove lo stesso consumatore le abbia specificamente approvate per iscritto (ad es. anatocismo bancario). Si applica pertanto l’art. 1419, comma 1, a solo vantaggio del consumatore.

E’ invero lo stesso art. 33, comma 2, cod. consumo, che facilita l’interprete nella ricostruzione della tipologia di tali clausole, il che significa che il consumatore dovrà solo allegarne in giudizio l’esistenza, mentre spetterà al professionista provarne la non vessatorietà. In questo caso si tratta della c.d. vessatorietà presunta in favore del professionista e in danno al consumatore, con conseguente inefficacia presunta pur se oggetto di trattativa, salvo prova contraria. 

Pertanto si possono distinguere clausole inefficaci in ogni caso (art. 34, comma 4, cod. consumo) e clausole vessatorie fino a prova contraria (art. 33 cod. consumo).

Sono considerate vessatorie le clausole che: a) stabiliscono a carico di colui che le ha predisposte limitazioni di responsabilità o facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione; b) sanciscono decadenze, prescrizioni, limitazioni a facoltà o libertà contrattuali con terzi; c) sanciscono proroga tacita o rinnovazione contratto; d) deferiscono ad arbitri rituali risoluzione di controversie o derogano alla competenza territoriale dell’autorità giudiziaria. Si pensi alla discussa questione circa la natura della clausola che stabilisce un foro diverso  da quello del consumatore: secondo alcuni sostanziale – con limitata incidenza sugli effetti del contratto, secondo altri processuale -  avendo la norma di cui all’art. 34, comma 2, lett. u) cod. consumo – introdotto un foro esclusivo valido per tutte le controversie tra consumatore e professionista.

Esse vanno approvate per iscritto (approvazione specifica richiesta ad substantiam), può essere anche cumulativa, ma le clausole di rinvio – meri richiami – vanno approvate e sottoscritte di nuovo sotto ogni rinvio. Non è necessaria l’approvazione scritta laddove le clausole sono frutto di negoziazioni specifiche; se il contratto ha la forma di atto pubblico; nei contratti collettivi di lavoro; in caso di disposizioni statutarie di una associazione, in tutte le ipotesi dove la comunanza di scopo escluda un conflitto di interessi.

Secondo una parte della giurisprudenza la clausola vessatoria non approvata, se conoscibile, si inserisce nel contratto, ma è da considerarsi nulla per difetto di forma (con applicazione dell’art. 1419, comma 1, cod. civ. e possibile nullità dell’intero contratto), mentre per altra parte si tratta di nullità relativa di cui potrebbe avvalersi la parte non predisponente.

Sussiste in capo alle associazioni dei consumatori, dei professionisti e delle camere di commercio la possibilità di agire in via di giudizio per far inibire l’uso delle clausole di cui sia accertata la vessatorietà in via inibitoria. L’urgenza in siffatta azione inibitoria (art. 37 cod. consumo, già art. 1469sexies cod. civ.) non si configura per il pregiudizio irreparabile di cui all’art. 700 cod. proc. civ., ma per l’idoneità della clausola abusiva di incidere su diritti soggettivi fondamentali.

La nullità delle clausole vessatorie è da ricondursi alla fattispecie delle cc.dd. “nullità di protezione”, speciali rispetto a quelle previste dall’art. 1418 e applicabili ai contratti di diritto comune (nullità di tipo virtuale, strutturale e testuale), in quanto espressione di squilibri tra le parti che perciò richiedono una diversa tutela e questa tutela si traduce appunto in “protezione” di quell’interesse specifico di un solo contraente e non di entrambi. Ed essendo tale interesse connesso ad un interesse della collettività al corretto funzionamento del mercato, esso è protetto da norma di rango costituzionale, la cui violazione comporta nullità, sanzione radicale e massima.

La Cassazione originariamente si è espressa escludendo la categoria della nullità virtuale per violazione di norme imperative non attinenti al contenuto del negozio e la dottrina ha ritenuto che tale orientamento eccessivamente ed ingiustificatamente restrittiva. Ad entrambe le posizioni si è replicato che il contenuto del contratto non si identifica né con la causa né con l’oggetto non essendo una categoria ordinante a livello normativo.

L’art. 36, comma 1, in particolare, disciplina le clausole (inserite in un contratto tra consumatore e professionista nelle condizioni generali così come in moduli o formulari) che risultino “vessatorie”, ovvero, nell’intenzione del legislatore, quelle che determinano uno squilibrio significativo dei diritti ed obblighi, in contrasto col principio di buona fede oggettiva, a norma dell’art. 33 cod. consumo, e non tutte quelle che rientrano nella previsione di cui all’art. 1341 cod. civ. e neanche tutte le clausole dei contratti del consumatore (art. 34, comma 2, cod. consumo).

In generale la vessatorietà va valutata in relazione alla natura del bene o del servizio, alle circostanze esistenti al momento della conclusione e all’insieme delle clausole contrattuali, non riguardando l’oggetto del contratto, né l’adeguatezza del prezzo. Ma le clausole devono essere chiare e comprensibili: in difetto di chiarezza la clausola è valida ed efficace, purtuttavia al giudice è consentita la valutazione di vessatorietà estesa  alla determinazione dell’oggetto e all’adeguatezza del corrispettivo. E in ogni caso nel dubbio l’interpretazione deve favorire il consumatore (art. 35 cod. consumo che riproduce il disposto dell’art. 1469quater cod. civ.).

Uno specifico problema era stato affrontato dalla giurisprudenza circa le condizioni generali di contratto predisposte da enti pubblici e dallo Stato, che erano stati inizialmente esclusi dall’applicazione dell’art. 1341 cod. civ. e ancor più risalente era l’assunto che il concetto di mala fede non fosse ad essi applicabile. Ciò suscitò critiche in quanto lo Stato ha la possibilità di imporsi con atti autoritativi laddove la legge gli consente di agire unilateralmente, ma quando agisce in ambito privato e con capacità di diritto privato deve sottoporsi alla disciplina codicistica (salvo espresse deroghe previste per legge). In materia di condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti (e di pattuizioni concluse mediante moduli o formulari), la necessità di specifica approvazione per iscritto delle clausole onerose, ai sensi dell’art. 1341, secondo comma, cod. civ., sussiste anche riguardo ai contratti stipulati dalla pubblica amministrazione, ma solo quando questa utilizzi la propria autonomia negoziale ed il rapporto giuridico venga instaurato non in base ad un provvedimento amministrativo, bensì per una manifestazione di volontà dei contraenti.

Tale indirizzo trova la sua giustificazione nella relatio perfecta, ovvero nella conoscenza bilaterale del documento integrativo (il capitolato speciale), il quale è stato sottoposto, attraverso lo strumento della pubblicità finalizzata all’espletamento della gara per l’individuazione del privato - contraente, all’attenzione di tutti i partecipanti alla competizione finalizzata all’aggiudicazione dei lavori pubblici; d’altro canto, è stato affermato, la sottoscrizione del capitolato d’appalto, spesso prevista dalle norme di gara, assolve alla stessa funzione della sottoscrizione delle clausole vessatorie nei contratti conclusi mediante moduli o formulari e cioè mira a far conoscere le condizioni del contratto ai partecipanti alla gara, anche allo scopo di verificare la serietà dell’offerta.

Alla luce di queste ampie argomentazioni si torni al quesito su quale squilibrio rilevi in questa tipologia di prescrizioni contrattuali, risposta che rappresenti un precipitato al contempo logico e conclusivo della disamina fin qui svolta. Lo squilibrio che rileva è il solo squilibrio normativo (1469bis, comma 1 cod. civ in raccordo con le fattispecie tipizzate al comma 3), in quanto la vessatorietà va valutata tenuto conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto  e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione e ad altre clausole del contratto stesso o do un altro collegato o da cui dipende. Ed è per questo che il legislatore – come si è visto - al terzo comma dell’art. 1469bis elenca una serie di clausole che si presuppongono vessatorie.

Non va dimenticato infatti che per accertare la vessatorietà di una clausola occorre dapprima interpretarla, mentre qualcuno non scinde l’interpretazione dalla qualificazione considerandole operazioni contestuali o quanto meno parallele, in quanto espressioni ed aspetti di un medesimo processo conoscitivo, le quali in ogni caso travalicano i confini del fenomeno contrattuale dando alla clausola uno spazio giuridico centrale e connessa all’intero complesso negoziale.

Al consumatore infatti è riconosciuto non solo un vero e proprio diritto ad essere adeguatamente informato ogniqualvolta si relazione col professionista, ma anche una sostanziale equità del rapporto attraverso un successivo controllo sul contenuto dell’accordo e l’eliminazione di tutte quelle clausole che determinano a suo carico uno sbilanciamento di diritti ed obblighi. 

Tale operazione, in sede giudiziale non sarà però identica, ma diversa a seconda del tipo di squilibrio in cui si versa. Nello squilibrio economico il ruolo del giudice non si limiterà ad attribuire forza negoziale al contraente debole dichiarando inefficaci (nulle) le clausole vessatorie e riequilibrando le posizioni negoziali dei paciscenti, ma il giudicante dovrà verificare se le pattuizioni, formalmente libere, siano state, in realtà, frutto di coartazione per la situazione contingente della vittima dell’usura, dichiarando rescisso, nullo o riportando ad equità il contratto sulla base dei parametri normativi dei tassi soglia. Le condizioni economiche del contratto sono considerate non ai fini di un riequilibrio delle posizioni della parti contraenti dal punto di vista patrimoniale, attraverso un intervento eteronomo del giudice, ma al fine di determinare il senso dei contenuti contrattuali in aderenza a quella che per l’interprete figura essere la comune intenzione delle parti ricercata anche attraverso indici extratestuali tra i quali possiamo annoverare il peso economico delle previsioni contrattuali.

Il contratto, in quanto negozio, può essere bilaterale o plurilaterale: i concetti di contratto, consenso, accordo, richiamano tutti una pluralità di parti, per quanto la pluralità di voleri che  lo pongono in essere, comporta sempre una bilateralità. Il negozio giuridico  può essere anche unilaterale, ma anche in questo caso sussiste una bilateralità, per gli effetti obbligatori che ne derivano. Se le prestazioni restano a carico di una sola parte, il negozio resta unilaterale e privo di corrispettività (donazione, mandato, fideiussione, mutuo, comodato, ecc.); di contro, il contratto è sinallagmatico laddove comporti contemporaneamente obblighi e diritti a prestazioni reciproche collegate tra loro da un rapporto di interdipendenza (permuta, compravendita, locazione, assicurazione, ecc.). Da parte di alcuni si parla di bilateralità imperfetta, come quella che ricorre in quelle fattispecie in cui esistono controprestazioni ma prive di valore economico, o prestazioni principali ed accessorie ma tutte a carico di una sola parte (mutuo oneroso, mandato, deposito).

Si definisce sinallagma proprio siffatto legame reciproco, che sorge tra prestazione e controprestazione e che rende, con la sua forza, le obbligazioni interdipendenti e non meramente coesistenti.

Trattasi di una distinzione essenziale ai fini degli effetti e delle conseguenze ad essa connessi, che non va confusa con quella tra contratti gratuiti o onerosi, in quanto tutti i contratti corrispettivi sono onerosi, ma non tutti i contratti onerosi sono necessariamente corrispettivi (come gli stessi tre tipi di contratto di cui sopra, infatti unilaterali).

Tale sinallagma può essere genetico, laddove si prenda in considerazione la formazione del vincolo e pertanto il rapporto di giustificazione causale che intercorre reciprocamente tra le obbligazioni al momento della stipulazione del contratto, o funzionale, laddove si prendano in considerazione la vita del rapporto e le reciproche prestazioni che hanno origine dal contratto nel loro atteggiarsi durante il perdurare del vincolo contrattuale e nella sua fase esecutiva.

Solo al momento dello scambio previsto dal contratto e quindi all’esecuzione di questo, si realizza in concreto la funzione economica del contratto stesso.

In tutti i casi ciò non avvenga esattamente o completamente, si ha alterazione del sinallagma e quindi della stessa causa del contratto, difetto funzionale e non genetico, in più diverso dalla mancanza o illiceità originaria della stessa.

L’equilibrio del contratto è quindi la normalità nel rapporto negoziale, lo squilibrio la patologia che lo vizia. L’equilibrio può riferirsi tanto al profilo normativo del contratto, inteso come sintesi delle posizioni normative dei contraenti, come assetto contrattuale allocativo di diritti, obbligazioni, oneri, responsabilità e rischi, quanto al profilo economico, che invece riguarda più specificamente il valore economico delle prestazioni oggetto di scambio, considerate non in se stesse, ma nel complesso dell’operazione economica cui accedono. Inoltre, l’equilibrio può essere riferito, oltre che agli elementi oggettivi del contratto (regole e prestazioni), anche alle persone dei contraenti. Si pensi  agli artt. 1537 e 1538 cod. civ., in tema di rettifica del prezzo nella compravendita a misura e a corpo, i quali hanno lo scopo di evitare sperequazioni non espressamente previste e volute. Le norme in questione intervengono nell’ipotesi in cui vi sia uno scarto tra misura reale del bene e quella indicata nel contratto, ma non impongono un rapporto di necessaria equivalenza tra i valori dei beni scambiati; infatti, le parti potrebbero legittimamente derogare alle disposizioni stesse, atteso il loro carattere dispositivo. La libertà riconosciuta alle parti di estendere l’alea normale del contratto o di trasformarlo in contratto aleatorio è ulteriore indice della inesistenza di un principio di equilibrio imperativo, idoneo, cioè, ad imporsi alle parti stesse. 

Tuttavia, il legislatore è intervenuto al precipuo scopo di fissare il limite entro il quale un’eventuale sproporzione tra prestazioni non rilevi rendendo il contratto appunto viziato, in modo non giustificato dal libero gioco del mercato, ma frutto dell’approfittamento di un contraente nei confronti dell’altro che si pone in posizione di supremazia realizzando una lesione ultra dimidium, come accade nel diritto penale quando si sanziona il reato di usura di cui all’art. 644 cod. pen. che punisce le ipotesi in cui, quale corrispettivo di una concessione di credito, vengano richiesti non soltanto interessi usurari, ma anche altri vantaggi usurari come le prestazioni di dare o di facere, diverse dalla corresponsione di interessi - nonché le ipotesi in cui, come corrispettivo di altra utilità, vengano richiesti vantaggi usurari). L’accostamento tra la sproporzione richiesta per l’usura e il superamento del limite dell’ultra dimidium richiesto per la rescissione perde ogni fondamento sulla base della lettera della nuova legge antiusura, nella quale la disparità economica, penalmente rilevante, tra le prestazioni delle parti nei contratti di mutuo o di finanziamento in genere, non è quella ultra dimidium prevista per la rescissione, ma quella superiore ad un terzo.

Se si considerano, poi, le altre due ipotesi di usura previste dalla nuova norma (ossia l’usura pecuniaria “in concreto” e quella “reale”), si nota che, concorrendo il requisito delle condizioni difficoltà economica o finanziaria, addirittura la sanzione penale è comminata anche se la sproporzione non raggiunga tale soglia, ma le concrete modalità del fatto e il prezzo medio praticato nelle operazioni di scambio di quel tipo, insieme alla situazione di disagio economico della vittima, comportino il giudizio di disvalore necessario per assegnare valenza impari alle prestazioni contrapposte e connotazione di usurarietà al loro scambio.

Si pensi inoltre al controllo legale sul contenuto del contratto di trasporto, laddove vengono colpite da nullità le clausole che limitano la responsabilità del vettore per sinistri che colpiscono il viaggiatore (art. 1681, comma 2, cod. civ.), nullità giustificata dalla rilevanza dell’interesse da tutelare, ovvero l’integrità della persona umana. Oppure si pensi ai contratti di assicurazione, e alla proporzione tra rischio e premio, laddove parte della dottrina osserva che nei contratti corrispettivi le prestazioni vengono stabilite come punto d’arrivo delle trattative al momento della conclusione del contratto, per cui ciascuno dei contraenti sa, fin dalla stipulazione del negozio, quale sarà l’ammontare della sua prestazione e quale sarà l’entità del corrispettivo, rilevando l’estraneità, rispetto al concetto di corrispettività, della corrispondenza soggettiva patrimoniale dei sacrifici cui sono tenute per contratto le parti.

A tutela della proporzionalità tra le prestazioni e quindi dell’equilibrio economico il codice civile prevede una serie di rimedi quali la rescissione e la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, con la differenza che mentre nelle ipotesi rescissorie si tratta di uno squilibrio originario, presente già al momento della conclusione del contratto, nella ipotesi risolutoria si tratta di inadeguatezza verificatasi successivamente alla sua conclusione, in conseguenza di accadimenti obiettivi, imprevisti ed imprevedibili, che hanno alterato il valore delle prestazioni. Gli istituti della rescissione e della risoluzione per eccessiva onerosità denotano che non necessariamente le parti sono tenute ad elaborare un assetto di interessi in cui le diverse prestazioni abbiano un equivalente valore economico e che anche in presenza di prestazioni non equivalenti il contratto concluso deve essere eseguito, in ossequio al principio “pacta sunt servanda”.

Ciò spiega il perché sia ritenuto conveniente anche un determinato assetto di interessi in cui la valutazione economica delle prestazioni potrebbe essere estremamente favorevole ad uno

dei contraenti (meritevole di tutela, ad esempio, un contratto di compravendita in cui una parte acquista un bene ad un prezzo anche di gran lunga superiore al suo valore intrinseco, qualora tale bene soddisfi un interesse morale della parte stessa).

In buona sostanza, il legislatore ha previsto in alcune ipotesi l’operatività di un criterio di oggettività tra il valore delle prestazioni, allorché una o entrambe non siano state sufficientemente determinate dalle parti; ma tale criterio ha solo funzione integrativa dell’elemento volontaristico, in quanto la sua funzione non è quella di attribuire alla prestazione indeterminata un valore corrispondente a quello della controprestazione, ma quello di “attribuire un valore certo, evitando l’inefficacia del contratto”.

L’ordinamento giuridico – almeno con riferimento alle norme codicistiche - tende a stabilizzare l’assetto di interessi concordato dalle parti al momento della stipulazione del contratto, rendendo così intangibile quanto da loro voluto mediante le reciproche manifestazioni di volontà.

Il contenuto delle prestazioni costituisce l’oggetto della volontà così come i contraenti l’hanno palesata, ed al giudice non è permesso sostituire il proprio criterio a quello adottato dalle parti per stabilire se lo scambio, così come voluto e realizzato, sia economicamente  equo. L’equilibrio oggettivo o equivalenza resta estraneo allo schema contrattuale, cedendo il passo alla adeguatezza, ossia alle reciproca convenienza, secondo le valutazioni soggettive delle parti; il contratto, pertanto, è lo strumento per la realizzazione non di esigenze di giustizia equitativa, bensì di interessi subiettivamente ritenuti rilevanti dai contraenti.

Al contrario, un’alterazione, liberamente scelta, dell’equilibrio economico risulta accettata dall’ordinamento che si preoccupa di salvaguardare soltanto un comportamento di correttezza e buona fede nella materia delle trattative contrattuali.

La buona fede (oggettiva, quale dovere generale di correttezza e reciproca lealtà di condotta nel rapporto e soggettiva, quale ignoranza incolpevole di ledere una situazione altrui giuridicamente protetta) e la correttezza sono infatti principi fondamentali a cui i soggetti obbligati devono attenersi fin dalla fase delle trattative e formazione dell’accordo (consenso nel caso dei contratti del consumatore o c.d. per adesione), in relazione alle esigenze del mercato e ai principi di solidarietà umana e sociale. Entrambi i principi  rispondono alla medesima esigenza di affidamento reciproco nel rapporto obbligatorio (artt. 1175, 1337, 1338 e 1375 cod. civ.), ma la loro violazione si misura e valuta diversamente a seconda che si tratti di contratti di diritto comune, di contratti coi consumatori o di contratti di impresa.

Nei primi - contratti di diritto comune, operano le norme di cui sopra fin dalla fase precontrattuale e le eventuali cause di invalidità sono quelle di nullità, annullabilità    e secondo la giurisprudenza anche di inesistenza ed inefficacia – del contratto in generale.

Nei contratti coi consumatori si va oltre i limiti previsti per quelli di diritto comune e la sanzione approntata dall’ordinamento incide sulla tutela, rafforzata in termini ad es. di rimborso, recesso, ecc., in capo al contraente debole, che patisce lo squilibrio.

Infine, nei contratti di impresa, non rilevano i limiti codicistici della diligenza, onerosità e convenienza – che si hanno per presupposti – ma il dolo commissivo e non operano i limiti previsti per quelli di diritto comune.

Invero, nella fase esecutiva del contratto questi principi rappresentano al contempo criterio di valutazione e parametri integrativi, suppletivi a carattere cogente, in quanto valori esterni al contratto ma determinabili, elevati a principi costituzionali limitati solo da un lato da norme di ordine pubblico, dall’altro dall’autonomia contrattuale.

In questa prospettiva acquistano significato le posizioni del c.d. contraente debole e contraente forte, preoccupandosi la legge di proteggere il primo, genus di cui il consumatore è una species. Il rapporto di proporzione che deve intercorrere tra le rispettive prestazioni non deve alterarsi, sicché qualsiasi difetto si riscontri si ripercuoterà sulla causa.

Quel che più rileva in questo percorso è chiedersi se buona fede e squilibro (significativo) costituiscano due criteri autonomi sufficienti ciascuno a determinare la nullità di una clausola o debbano entrambi concorrere per qualificare vessatoria una prescrizione legale.

Per quel che riguarda la nozione di squilibrio, il legislatore, ispirandosi alla direttiva comunitaria, ha voluto attribuire rilevanza giuridica unicamente al c.d. squilibrio “normativo”, escludendo che la verifica giudiziale (di cui all’art. 34 cod. consumo) possa sindacare anche il rapporto di equivalenza economica tra il valore delle prestazioni dedotte in contratto (squilibrio economico). Con questo approccio si evita il pericolo di un’interpretazione astratta e formalistica dei diritti e degli obblighi derivanti dal rapporto contrattuale e la regola della correttezza guida l’interprete verso una valutazione sostanziale e concreta dei vari interessi in causa. Per squilibrio economico si intende- come si è visto - la sproporzione valoristica tra le prestazioni. Esso ricorre nel caso ad esempio del contratto usurario, dove il contraente debole non è un consumatore, ma un soggetto debole nei confronti del cui stato di bisogno e difficoltà economica la controparte si approfitta (es. usura). La protezione si rivolge in questo caso direttamente all’alterazione della causa dello scambio o dell’attribuzione, in quanto come sottolineato dalla stessa Cassazione l’usura si realizza ogni volta che si è in presenza di uno scambio di prestazioni, cui consegue una sproporzione.

Giova in via preliminare riprendere le argomentazioni sulla buona fede e ricondurre ad un unico parametro la verifica di abusività/vessatorietà (caratteristica che di seguito verrà approfondita) affinché la valutazione diretta, volta a stabilire quando uno squilibrio è in realtà significativo, dovrà anch’essa procedere secondo gli schemi di applicazione concreta del principio di buona fede, principio che come si è visto non permette di dare rilievo a squilibri insignificanti o non in grado di pregiudicare in modo apprezzabile gli interessi del contraente debole. E’ sulla consistenza ed entità che si dovranno valutare le situazioni, potendosi - come extrema ratio - ipotizzare squilibri significativi, ma non consistenti e squilibri non significativi, ma consistenti.

Quel che più interessa nella presente disamina è 1) l’aspetto patologico del sinallagma (a livello genetico o funzionale che sia), alterazione che può in realtà verificarsi sia in fase precontrattuale che a contratto e vincolo ormai esistente, sia dal punto di vista normativo che economico, per cui più che di ripristino dello squilibrio/riequilibrio vero e proprio occorre riportare il rapporto contrattuale quanto meno ad equità (art. 1374 cod. civ. equità come  fonte di integrazione del contratto); di conseguenza 2) quale tipologia di squilibrio normativo od economico rilevi nel caso delle clausole vessatorie.

Circa il primo aspetto il contrasto tra buona fede ed equità e quello sul loro ruolo nel sistema normativo per quanto riguarda l’autonomia contrattuale hanno un indubbio valore dogmatico, di certo un assunto pacifico è quello che tale autonomia incontra oggi dei limiti contenutistici che in passato non esistevano. La tutela equitativa riconducibile, però, interviene soltanto in caso di mancanza di libertà nella valutazione del rapporto di corrispettività fra le prestazioni. Per dare una risposta al secondo quesito, risposta che sia supportata dal dato normativo sia formalmente che sostanzialmente, occorre in primis analizzare in cosa esse consistono e la ratio del loro trattamento dal punto di vista della recente normativa.

Con la legge comunitaria 1994 (L. 1996/52) si è data attuazione alla Direttiva CEE 93/13 concernente le clausole abusive nei contratti dei consumatori, inserendo nel Titolo II del Libro IV del codice civile un nuovo Capo, il XIV-bis, rubricato appunto “Dei contratti del consumatore”, applicabile a qualsiasi contratto, quale che ne sia la causa o l’oggetto, disciplina poi trasfusa quasi interamente – ad eccezione del solo art. 1469bis il cui contenuto è peraltro mutato – negli artt. 33-37 del codice del consumo. La ratio di tale intervento – formale dal punto di vista del codice civile, sostanziale nella normativa speciale, è da rinvenirsi nell’esigenza di approntare una forma di controllo “contenutistico” dei contratti per adesione. In generale nei contratti coi consumatori l’asimmetria informativa da un lato e la posizione economicamente più debole di questi ultimi genera uno squilibrio contrattuale sia normativo che economico, appunto la sintesi dei concetti espressi in precedenza, anche se  nello specifico delle clausole vessatorie lo squilibrio che costituisce il criterio di valutazione circa l’abusività della prescrizione è e può essere solo quello normativo.

La nozione di consumatore (persona che agisce al di fuori dell’attività imprenditoriale) non è univoca: la dottrina considera tale figura in forma più ampia di quella della giurisprudenza (Corte di giustizia europea e Cassazione), ricomprendendovi anche colui che compie acquisti in vista di una futura attività commerciale  che il piccolo imprenditore inesperto oppure un professionista – tipo medico o avvocato – che agisce nell’ambito della propria attività lavorativa in qualità di consumatore. Egli si presenta intrinsecamente più debole quanto a potere contrattuale nei rapporti con un professionista.

E l’ordinamento presuppone e richiede necessariamente che un professionista abbia la competenza necessaria per negoziare e informare la controparte, a meno che non si trovi egli stesso nella veste di acquirente-consumatore.

L’art. 33 del cod. consumo (“nel contratto concluso tra il consumatore e il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinino a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”) è stato interpretato dalla dottrina in modo controverso: secondo alcuni la funzione riequilibratrice del contratto risiede nella buona fede e non nell’equità con conseguente limite all’autonomia negoziale. Ma il testo normativo non sembra suffragare tale orientamento a causa dell’espressione “malgrado la buona fede”, da questo primo filone interpretato – appunto - con valore concessivo. Tanto che secondo altri, e sembrerebbe ad oggi l’orientamento maggioritario, il richiamo legislativo è invece alla buona fede oggettiva (“malgrado” inteso come “in contrasto”): una lettura soggettiva del precetto privererebbe la buona fede di rilievo giuridico in contrasto evidente con il ruolo che la stessa dovrebbe svolgere quale strumento di controllo contenutistico delle clausole vessatorie, più volte richiamato nel corso di questa trattazione.

Ferma restando la validità della restante parte del contratto (inefficacia parziale), esse si considerano nulle (né l’uso potrebbe servire ad integrarle) tanto che l’autorità giudiziaria, qualora investita di una controversia relativa ad un contratto di tale specie, può dichiarare, con sentenza di accertamento, tale nullità, anche laddove lo stesso consumatore le abbia specificamente approvate per iscritto (ad es. anatocismo bancario). Si applica pertanto l’art. 1419, comma 1, a solo vantaggio del consumatore.

E’ invero lo stesso art. 33, comma 2, cod. consumo, che facilita l’interprete nella ricostruzione della tipologia di tali clausole, il che significa che il consumatore dovrà solo allegarne in giudizio l’esistenza, mentre spetterà al professionista provarne la non vessatorietà. In questo caso si tratta della c.d. vessatorietà presunta in favore del professionista e in danno al consumatore, con conseguente inefficacia presunta pur se oggetto di trattativa, salvo prova contraria. 

Pertanto si possono distinguere clausole inefficaci in ogni caso (art. 34, comma 4, cod. consumo) e clausole vessatorie fino a prova contraria (art. 33 cod. consumo).

Sono considerate vessatorie le clausole che: a) stabiliscono a carico di colui che le ha predisposte limitazioni di responsabilità o facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione; b) sanciscono decadenze, prescrizioni, limitazioni a facoltà o libertà contrattuali con terzi; c) sanciscono proroga tacita o rinnovazione contratto; d) deferiscono ad arbitri rituali risoluzione di controversie o derogano alla competenza territoriale dell’autorità giudiziaria. Si pensi alla discussa questione circa la natura della clausola che stabilisce un foro diverso  da quello del consumatore: secondo alcuni sostanziale – con limitata incidenza sugli effetti del contratto, secondo altri processuale -  avendo la norma di cui all’art. 34, comma 2, lett. u) cod. consumo – introdotto un foro esclusivo valido per tutte le controversie tra consumatore e professionista.

Esse vanno approvate per iscritto (approvazione specifica richiesta ad substantiam), può essere anche cumulativa, ma le clausole di rinvio – meri richiami – vanno approvate e sottoscritte di nuovo sotto ogni rinvio. Non è necessaria l’approvazione scritta laddove le clausole sono frutto di negoziazioni specifiche; se il contratto ha la forma di atto pubblico; nei contratti collettivi di lavoro; in caso di disposizioni statutarie di una associazione, in tutte le ipotesi dove la comunanza di scopo escluda un conflitto di interessi.

Secondo una parte della giurisprudenza la clausola vessatoria non approvata, se conoscibile, si inserisce nel contratto, ma è da considerarsi nulla per difetto di forma (con applicazione dell’art. 1419, comma 1, cod. civ. e possibile nullità dell’intero contratto), mentre per altra parte si tratta di nullità relativa di cui potrebbe avvalersi la parte non predisponente.

Sussiste in capo alle associazioni dei consumatori, dei professionisti e delle camere di commercio la possibilità di agire in via di giudizio per far inibire l’uso delle clausole di cui sia accertata la vessatorietà in via inibitoria. L’urgenza in siffatta azione inibitoria (art. 37 cod. consumo, già art. 1469sexies cod. civ.) non si configura per il pregiudizio irreparabile di cui all’art. 700 cod. proc. civ., ma per l’idoneità della clausola abusiva di incidere su diritti soggettivi fondamentali.

La nullità delle clausole vessatorie è da ricondursi alla fattispecie delle cc.dd. “nullità di protezione”, speciali rispetto a quelle previste dall’art. 1418 e applicabili ai contratti di diritto comune (nullità di tipo virtuale, strutturale e testuale), in quanto espressione di squilibri tra le parti che perciò richiedono una diversa tutela e questa tutela si traduce appunto in “protezione” di quell’interesse specifico di un solo contraente e non di entrambi. Ed essendo tale interesse connesso ad un interesse della collettività al corretto funzionamento del mercato, esso è protetto da norma di rango costituzionale, la cui violazione comporta nullità, sanzione radicale e massima.

La Cassazione originariamente si è espressa escludendo la categoria della nullità virtuale per violazione di norme imperative non attinenti al contenuto del negozio e la dottrina ha ritenuto che tale orientamento eccessivamente ed ingiustificatamente restrittiva. Ad entrambe le posizioni si è replicato che il contenuto del contratto non si identifica né con la causa né con l’oggetto non essendo una categoria ordinante a livello normativo.

L’art. 36, comma 1, in particolare, disciplina le clausole (inserite in un contratto tra consumatore e professionista nelle condizioni generali così come in moduli o formulari) che risultino “vessatorie”, ovvero, nell’intenzione del legislatore, quelle che determinano uno squilibrio significativo dei diritti ed obblighi, in contrasto col principio di buona fede oggettiva, a norma dell’art. 33 cod. consumo, e non tutte quelle che rientrano nella previsione di cui all’art. 1341 cod. civ. e neanche tutte le clausole dei contratti del consumatore (art. 34, comma 2, cod. consumo).

In generale la vessatorietà va valutata in relazione alla natura del bene o del servizio, alle circostanze esistenti al momento della conclusione e all’insieme delle clausole contrattuali, non riguardando l’oggetto del contratto, né l’adeguatezza del prezzo. Ma le clausole devono essere chiare e comprensibili: in difetto di chiarezza la clausola è valida ed efficace, purtuttavia al giudice è consentita la valutazione di vessatorietà estesa  alla determinazione dell’oggetto e all’adeguatezza del corrispettivo. E in ogni caso nel dubbio l’interpretazione deve favorire il consumatore (art. 35 cod. consumo che riproduce il disposto dell’art. 1469quater cod. civ.).

Uno specifico problema era stato affrontato dalla giurisprudenza circa le condizioni generali di contratto predisposte da enti pubblici e dallo Stato, che erano stati inizialmente esclusi dall’applicazione dell’art. 1341 cod. civ. e ancor più risalente era l’assunto che il concetto di mala fede non fosse ad essi applicabile. Ciò suscitò critiche in quanto lo Stato ha la possibilità di imporsi con atti autoritativi laddove la legge gli consente di agire unilateralmente, ma quando agisce in ambito privato e con capacità di diritto privato deve sottoporsi alla disciplina codicistica (salvo espresse deroghe previste per legge). In materia di condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti (e di pattuizioni concluse mediante moduli o formulari), la necessità di specifica approvazione per iscritto delle clausole onerose, ai sensi dell’art. 1341, secondo comma, cod. civ., sussiste anche riguardo ai contratti stipulati dalla pubblica amministrazione, ma solo quando questa utilizzi la propria autonomia negoziale ed il rapporto giuridico venga instaurato non in base ad un provvedimento amministrativo, bensì per una manifestazione di volontà dei contraenti.

Tale indirizzo trova la sua giustificazione nella relatio perfecta, ovvero nella conoscenza bilaterale del documento integrativo (il capitolato speciale), il quale è stato sottoposto, attraverso lo strumento della pubblicità finalizzata all’espletamento della gara per l’individuazione del privato - contraente, all’attenzione di tutti i partecipanti alla competizione finalizzata all’aggiudicazione dei lavori pubblici; d’altro canto, è stato affermato, la sottoscrizione del capitolato d’appalto, spesso prevista dalle norme di gara, assolve alla stessa funzione della sottoscrizione delle clausole vessatorie nei contratti conclusi mediante moduli o formulari e cioè mira a far conoscere le condizioni del contratto ai partecipanti alla gara, anche allo scopo di verificare la serietà dell’offerta.

Alla luce di queste ampie argomentazioni si torni al quesito su quale squilibrio rilevi in questa tipologia di prescrizioni contrattuali, risposta che rappresenti un precipitato al contempo logico e conclusivo della disamina fin qui svolta. Lo squilibrio che rileva è il solo squilibrio normativo (1469bis, comma 1 cod. civ in raccordo con le fattispecie tipizzate al comma 3), in quanto la vessatorietà va valutata tenuto conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto  e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione e ad altre clausole del contratto stesso o do un altro collegato o da cui dipende. Ed è per questo che il legislatore – come si è visto - al terzo comma dell’art. 1469bis elenca una serie di clausole che si presuppongono vessatorie.

Non va dimenticato infatti che per accertare la vessatorietà di una clausola occorre dapprima interpretarla, mentre qualcuno non scinde l’interpretazione dalla qualificazione considerandole operazioni contestuali o quanto meno parallele, in quanto espressioni ed aspetti di un medesimo processo conoscitivo, le quali in ogni caso travalicano i confini del fenomeno contrattuale dando alla clausola uno spazio giuridico centrale e connessa all’intero complesso negoziale.

Al consumatore infatti è riconosciuto non solo un vero e proprio diritto ad essere adeguatamente informato ogniqualvolta si relazione col professionista, ma anche una sostanziale equità del rapporto attraverso un successivo controllo sul contenuto dell’accordo e l’eliminazione di tutte quelle clausole che determinano a suo carico uno sbilanciamento di diritti ed obblighi. 

Tale operazione, in sede giudiziale non sarà però identica, ma diversa a seconda del tipo di squilibrio in cui si versa. Nello squilibrio economico il ruolo del giudice non si limiterà ad attribuire forza negoziale al contraente debole dichiarando inefficaci (nulle) le clausole vessatorie e riequilibrando le posizioni negoziali dei paciscenti, ma il giudicante dovrà verificare se le pattuizioni, formalmente libere, siano state, in realtà, frutto di coartazione per la situazione contingente della vittima dell’usura, dichiarando rescisso, nullo o riportando ad equità il contratto sulla base dei parametri normativi dei tassi soglia. Le condizioni economiche del contratto sono considerate non ai fini di un riequilibrio delle posizioni della parti contraenti dal punto di vista patrimoniale, attraverso un intervento eteronomo del giudice, ma al fine di determinare il senso dei contenuti contrattuali in aderenza a quella che per l’interprete figura essere la comune intenzione delle parti ricercata anche attraverso indici extratestuali tra i quali possiamo annoverare il peso economico delle previsioni contrattuali.