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Europa, addio

Unione Europea
Unione Europea

Dopo la prima guerra mondiale, Paul Valéry s’interrogava sulla sorte del Continente: “Diverrà l’Europa ciò che essa è in realtà, una piccola appendice del Continente asiatico? O riuscirà a rimanere ciò che pare, ossia la parte preziosa dell’Universo, la perla della sfera, il cervello del vasto corpo?”

Già nei Persiani di Eschilo si affaccia il motivo dell’Europa (che di poco oltrepassava, allora, i confini dell’Ellade), come compendio di valori umani opposti alla barbarie dell’Asia, l’esaltazione della autonomia personale dell’uomo europeo contro la soggezione dispotica degli asiatici.

Tra ottimismo e disperazione, il motivo si svolge lungo duemila e cinquecento anni. Scompare, ingoiata dalla fornace delle immani scorrerie asiatiche, la minaccia dei Persiani, incubo secolare dell’Impero romano. Il loro posto è preso dai Turchi. Un umanista, Coluccio Salutati, lancia il grido d’allarme della nuova età, che un Papa umanista e battagliero come Enea Silvio raccoglie. Tra l’attivismo di chi combatte e resiste e il disfattismo degli abati illuministi, trascorre anche la minaccia dei Turchi. Il collasso dell’impero ottomano del 1919 è la rivelazione di un disfacimento che durava, per linee interne, da molto tempo. 

L’antica minaccia si è appena dissolta, che già si drizza alle frontiere quella nuova, la russa. E intanto, la potenza che fu lascia le rive d’Europa e si trasferisce di là dall’Oceano. “Pensare che abbiamo dovuto ricorrere a quelli lì”, esclama Philippe Berthelot, il vero autore della politica estera francese, quando l’intervento americano nella prima guerra mondiale fu sicuro: “L’Europa la pagherà cara!”.

Alla fine l’Europa non era già più un fattore autonomo di storia

La Germania aveva vinto la guerra europea. Per batterla ci volle l’intervento americano, che fracassò per sempre i vecchi, precari equilibri. La seconda volta, la resistenza inglese e il rinnovato intervento degli Stati Uniti non sarebbero bastati ad evitare un’egemonia tedesca sul Continente, senza l’apporto, questo sì decisivo, della potenza sovietica. 

Il prezzo fisico fu la mutilazione del Continente, che fu tagliato lungo un confine che, con timore, Carlo Marx aveva indicato un secolo prima all’impero russo: da Stettino a Trieste. Prezzo morale, fu l’eclissi totale dello spirito europeo. È ormai inutile recriminare sulle cause di quelle che ci appaiono come le due immense guerre civili in cui la vecchia Europa commise suicidio. Dalla prima l’Europa uscì ferita; dalla seconda, distrutta.

Perché rievoco queste cose, da un osservatorio solitamente riservato ad altri panorami? 

Perché un ragazzo di diciassette anni, richiesto di scrivere un “tema” sull’Europa, mi ha pregato di indicargli, qui, le idee di uno svolgimento “originale”. Originale, sarà difficile. Ma forse, gli servirà l’irresponsabilità del dilettante, con cui io scrivo. 

Tutti hanno capito che, come osservò Helmut Schmidt ad Aquisgrana l’anno scorso, l’idea di Europa “sta andando indietro, invece che avanti”. Avrebbe potuto aggiungere che durissimi colpi le inferse la Ostpolitik del suo predecessore Willy Brandt, che lungo quattro anni distrusse la più preziosa conquista di Adenauer, la fiducia nell’Occidente della nuova Germania.

Ma Brandt potrebbe rispondere che gli americani, per correre dietro ai russi, avevano già distrutto la fiducia della nuova Germania nell’Occidente; da quando, un certo giorno dell’ottobre 1966, il presidente Johnson aveva detto all’impietrito Erhard: non s’illuda, la ricerca di una sistemazione con l’Urss è il primo obiettivo dell’America, della vostra unità tedesca non importa a nessuno. E tutti avrebbero potuto volgersi ancora più indietro e dar la colpa a De Gaulle, che fece naufragare la CED, cui l’Europa affidava le migliori speranze. 

Non si finirebbe più.

Io credo, caro Marco, che le origini del collasso, cui assistiamo, dell’idea europea, fossero già implicite in una illusione e in un errore dei padri fondatori. Illusione fu che l’unità economica fosse sufficiente fondamento su cui costruire una unità politica: mentre economia e politica, nonostante la coabitazione forzata in una logora endiadi, e nonostante la fede dei semplici, appartengono a due ordini diversi.

L’errore fu nella prospettiva storica, e il decorso del tempo lo rende visibile. 

Si credette, negli anni Cinquanta e dintorni, che il generale infiacchimento del sentimento nazionale nei diversi paesi europei, producendo un allentamento delle rivalità nazionaliste, fosse utile presupposto al formarsi di un sentimento sostitutivo più maturo, un patriottismo continentale.

E invece, la perdita del sentimento nazionale ha dirottato la rivalità verso altri obiettivi, ha moltiplicato divisioni ideologiche, gelosie economiche, campanilismi settoriali sempre più miseri e sordidi, ma non ha fatto avanzare d’un passo l’Europa verso l’unità politica: il solo traguardo che possa restituire significato alla vitalità dei paesi maggiori, e speranza al boccheggiare del nostro. 

 

Da “Il Giornale”, 30 novembre 1979