x

x

Grotte rifugio e città perduta: digressioni latinoamericane

America latina
America latina

Questa, lo so bene, è una rubrica sull’Asia (lo dice anche il nome). Tuttavia, spero che per una volta mi verrà concesso di narrare d’altro. Lo faccio, anche in questa circostanza, ricorrendo alle pagine del mio diario.

Occorre che io mi sposti in un altro continente, l’America meridionale, e precisamente in Ecuador e Colombia. Come attenuante di questa digressione posso addurre il fatto che le popolazioni native delle Americhe provenivano dall’Asia, e lì erano giunte in periodo neolitico attraversando a piedi lo Stretto di Bering, all’epoca ricoperto da ghiaccio.

 

Le caverne degli Inca

La fine degli Inca è avvolta in un mistero. Quello che si sa è che gli spagnoli li sconfissero grazie alle armi da fuoco, ai cavalli e, soprattutto, agli inganni. La croce venne imposta con la spada. Al sovrano Atahualpa, preso prigioniero, venne chiesto oro in riscatto della sua vita. Si dice che alzò la mano per mostrare a che livello avrebbe riempito del prezioso metallo il locale nel quale era tenuto prigioniero. Mantenne la parola, ma in cambio fu garrotato.

Gli Inca si ritirarono verso l’Antisuyu, la porzione orientale del loro impero popolata da genti alleate che procuravano loro erbe per i riti religiosi. Era quella la terra oggi conosciuta con il nome di Amazzonia. Sparirono nel nulla.

Ma si sono veramente estinti? mi chiedo ripensando a quanto visto pochi giorni orsono a Cuenca, in Ecuador.

In un mercato rionale donne quecha avevano effettuato antichi riti di purificazione su bambini e ragazze, percuotendoli con mazzetti di un’erba velenosa, la Datura Pendiforme, e spruzzandoli con acqua vaporizzata con la bocca.

Adesso sono qui, ad Archidona.

Ci sono arrivato quasi per caso, seguendo una informazione ottenuta in viaggio da una ragazza locale. Mi ha detto che qui, in una località chiamata Jumandì, sono le grotte nelle quali gli Inca cercarono rifugio nella loro fuga.

La zona è gestita da una comunità indigena. Vi arrivo e, come altri, anche io mi spoglio, perché le caverne sono molto lunghe e, a tratti, attraversate da torrenti. Avanziamo fendendo il buio con le torce elettriche, percorrendo zone completamente invase dall’acqua. Una delle sale sotterranee asciutte create dal tempo è il luogo dove il nativo che ci guida voleva condurci.

Nella semi oscurità risuona la sua voce che invoca gli antenati. Sterminati per la brama di oro.

 

Gli sciamani della Ciudad Perdida

In un tempo remoto la città, conosciuta dalle sue genti come Teyuna, aveva prosperato nell’ambito di una ampia confederazione che dalla costa arrivava all’interno della regione.

In seguito, oltre 400 anni orsono, tutto era cambiato con l’arrivo degli spagnoli. Questi all’inizio avevano ottenuto oro dai Tayrona scambiandolo con le loro merci. Tuttavia, la loro sete del prezioso metallo, invece di placarsi, con il tempo era aumentata e le pretese avevano assunto carattere anche violento.

Probabilmente c’erano stati abitanti che dalla costa avevano pensato di rifugiarsi nella città nascosta sulle alture della Sierra Nevada e questa era stata la causa della fine. Alcuni di loro, secondo la ricostruzione che gli archeologi ritengono la più probabile, avevano contratto un virus e, senza saperlo, lo avevano diffuso nell’estremo rifugio.

Nella città, resa prospera anche dalle eccellenti capacità di orafi e ceramisti, si era sviluppata una rapidissima e letale epidemia, che ne aveva sterminati gli abitanti. La zona era poi stata invasa dalla vegetazione e dimenticata dagli uomini.

Questo, fino al momento in cui alcuni tombaroli, negli anni ’70 del secolo passato, avevano rinvenuto degli oggetti d’oro e li avevano venduti a collezionisti privati. In breve si era scatenata una competizione condotta anche a colpi di arma da fuoco.

Questo fino a che il governo colombiano era stato informato della cosa ed aveva inviato archeologi e soldati.

Adesso l’area è abitata da quattro gruppi etnici affini (Kogui, Arhuaco-Wintukua, Wiwa-Arsario, Kankuamo) che si ritengono discendenti dei Tayrona e praticano culti sciamanico animistici. Adorano Serankua, il Creatore dell’Universo, e la Dea Madre (dai Kogui chiamata Java).

Le loro capanne sono tonde, a simboleggiare il Sole, e differenziate per uomini e per donne, che vivono separati. È proibito compiere atti sessuali nelle abitazioni e la gente ha i propri incontri amorosi nella foresta.

I Kogui vestono di bianco e portano cappelli a punta. Per loro l’oggetto più importante da possedere è il poporro, strumento un tempo fabbricato in oro. Lo utilizzano per l’assunzione della coca e più è usato e più diventa ai loro occhi prezioso, in quanto connesso con la loro esperienza.

L’armonia sociale e le esigenze sanitarie della popolazione vengono assicurate dagli sciamani, che hanno il compito di ristabilire l’equilibrio naturale a volte alterato e la connessione tra i vari mondi: il superiore, abitato da divinità e antenati; l’intermedio, popolato dagli uomini; l’inferiore, dove risiedono gli animali veicolo utilizzati dagli sciamani.

Fra questi, il pipistrello rappresenta il veicolo verso il mondo onirico e così pure gli uccelli, che richiamano il volo di esplorazione sciamanico; la rana, animale d’acqua, è simbolo di fertilità; il giaguaro è emblema di forza e abilità nella caccia.

Tra i gioielli, ricorre la rappresentazione della spirale, che significa il ricorso dei cicli e viene realizzata in oro, metallo che ricorda la lucentezza del Sole. Lungo il percorso per arrivare alla Ciudad Perdida ho la fortuna di conoscere un Kogui che mi descrive il proprio mondo culturale e mi invita a porgli domande. Sebbene lui non lo abbia detto, capisco che si tratta di uno sciamano dal suo nome, che tradotto significa “Colui che ripristina l’equilibrio”.

Insieme a Josè, la mia guida, percorro poi sentieri montani di fango e pietre ed il terzo giorno di marcia arriviamo finalmente alla meta. Per compiere l’ultimo tratto saliamo i 1.200 gradini sconnessi o distrutti dal tempo.

In cima mi invade un senso di ebbrezza nell’ammirare quello che rimane della Città Perduta. Al ritorno, una mia imprudenza causa un ritardo di alcune ore nella marcia, originando una situazione che rischia di diventare drammatica. Il pomeriggio infatti, puntuali come sempre, arrivano forti precipitazioni che trasformano i sentieri in un acquitrino e gonfiano il torrente Buritaca.

Quando a sera raggiungiamo il fiume, l’acqua che normalmente sarebbe arrivata al ginocchio è profonda almeno un metro e mezzo. Ci spogliamo per evitare di essere appesantiti dai vestiti e, aiutandoci con una fune che unisce le due rive, tentiamo il guado al buio. Sull’altra sponda una catena umana, chiamata in soccorso da Josè con una radio, è entrata fin dove possibile nel fiume nel tentativo di aiutarci.

Le mie braccia sono allenate, ma quando le acque impetuose mi sollevano come un fuscello mi rendo conto di essere solo una piccola cosa di fronte alla forza della natura. Nel buio scorgo una mano, mi ci aggrappo e percepisco in essa lo sforzo di aiuto di tante persone. Non credo che dimenticherò.