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Il caminetto

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Dalla crisi totale, globale, dallo sfrangiamento dei poteri e dei valori che quarantuno anni fa attraversarono l’intero mondo, l’evocazione delle stufe e del caminetto assume un tono quasi magico, il racconto di un avo. Diverse le crisi, le persone, i paesi; identici i risultati, simili le paure.

 

Sotto Natale, il discorso tende a farsi retorico, si panneggia nelle pose didascaliche, vibra di tentazioni ideologiche. Divenuto sagra annuale dei consumi nell’Occidente industriale, per questa ragione è anche il bersaglio prediletto dei nuovi anabattisti, predicatori da strapazzo, che i disagi più acuti e gli agi più sfacciati contemplano e anatemizzano dall’alto di pulpiti cartacei, galleggianti sopra oceani di sprechi e debiti, pubblici e privati.

Che il Natale sia il ventre molle del calendario occidentale, sembrano averlo imparato non soltanto gli speculatori indigeni, che vi sferrano le loro offensive finali, ma perfino quelli internazionali, i nuovi ricchi del petrolio, che stanno celebrando, nel festino di Caracas, il quinto anniversario della grande crisi.

Cinque anni fa, ci trovammo a tremare sotto lo choc della misera energetica, rivelatasi all’improvviso. L’embargo, l’aumento dei prezzi del petrolio, misero in moto la valanga da tempo sospesa delle democrazie industriali. Nessuno ci aveva avvertito.

Cinque anni fa, Henry Kissinger poteva ancora divertirsi allo spettacolo dell’Europa nei guai, alle prese con una penuria di benzina e gasolio che ancora non toccava l’America: giusta punizione, gli pareva, per l’egoismo, vile e vano, che gli europei avevano mostrato nell’ora del pericolo, lasciando sola come un’appestata la piccola Olanda che, dopo la guerra del Kippur, aveva avuto un quarto d’ora di dignità e fierezza.

Ora, tutto questo è lontano, la crisi colpisce tutti allo stesso modo, e se cinque anni fa un presidente americano che si chiamava Ford avvertiva che l’accesso alle fonti elementari della vita come il cibo e l’acqua (e oggi il petrolio) fu sempre ragionevole motivo di guerra, oggi sembra che nessuno la prenda più sul tragico e prevalga una rassegnazione, da struzzi, che neppur si domandano che cosa faranno.

In certi negozi eleganti ricompaiono le stufe. Verniciate di verde e d’argento, hanno l’aspetto fido e rugoso dell’antica ghisa. Conforta, dopo tanta latta lucente e plastica traditora. Vengono, stranamente, dall’America, dalla Germania. Sembrano obbedire agli appelli con cui garruli ecologici ci hanno narrato la pura e sana bellezza del fuoco che scoppietta nel caminetto: l’onesta e cara legna dei tempi che Berta filava lana vera e non fibre acriliche.

Si dice che vi sia, legna accumulata, non tagliata per trent’anni di sbornia petrolifera, da riscaldare la Penisola fatale, per generazioni. Sarà vero? Dalla parte opposta ribattono che il suolo, montano e collinare, è già un colabrodo, e a tirar via quei milioni di alberi, ci finirebbero per franare addosso le Alpi e gli Appennini. Come sempre, la verità è un’ardua conquista, in questo paese.

Io so che se la legna è stagionata (altrimenti non brucia) e tagliata al modo voluto, costa, a parità di rendimento e ai prezzi di oggi, il doppio del petrolio. So ancora che in città potrebbero adoperarla ormai soltanto le esigue minoranze di privilegiati che abitano nelle case più vecchie, prive di riscaldamento centrale, costruite prima dell’ultima guerra. Quando si usava ancora fare le canne fumarie. Chi ne ha più costruite, di canne fumarie, da trent’anni in qua? Se anche riuscissimo a procurarci la legna, e se anche trovassimo i luoghi dove ammucchiarla, magari in capannoni eretti sotto apposite tettoie nelle pubbliche piazze, scopriremmo di non sapere dove bruciarla. Dovremmo far passare i tubi delle stufe attraverso le finestre. A tal punto abbiamo tagliato alle nostre spalle i ponti per il ritorno verso alla vita agreste, che una zuccherosa falsificazione ci fa apparire come un’età dell’oro, mai esistita.

Il caminetto, sento dire in casa, noi l’abbiamo. Abbiamo anche la legna. È vero, ce ne sarebbe per un inverno intero, e forse due. Stagionata è, la comperammo forse sei anni fa, e ne abbiamo consumate poche ceste, per qualche fiammata. Nessuno si ricorda di aggiungere che l’abbiamo a un centinaio di chilometri di qua, e il giorno che ci mancasse il petrolio da bruciare in città, non l’avremmo neppure per andare in campagna a veder bruciare la legna nel caminetto. Dovremmo andarci in bicicletta. Le candeline dell’albero brilla, questa fine d’anno, su fastidiosi teoremi davvero.

 

Da “In casa e fuori”, Il Giornale, 21 dicembre 1979