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Il diario di Ciano: perché l'ha scritto

Galeazzo Ciano
Galeazzo Ciano

Quando, nel 1946, vennero pubblicati i volumi del Diario di Ciano relativi al periodo 1939-1943, tra i molti articoli suscitati dalla pubblicazione, ce ne fu uno, particolarmente acuto, che comparve sull’«Avanti!», di Gaetano Salvemini. L’articolo era intitolato: Perché l’ha scritto?

 

E difatti, in esso, lo storico pugliese appuntava la sua indagine, essenzialmente, sul perché Ciano per lunghi anni, aveva, giorno per giorno, annotato fatti e giudizi che, in sostanza, testimoniavano non soltanto contro il regime fascista e Mussolini, ma anche, in parte, contro di lui; aveva redatto il documento d’accusa più grave che esista contro tutto il sistema politico di cui egli era creatura e rappresentante.

 

Il Salvemini avanzava varie congetture, per rispondere alla domanda messa in capo al suo articolo. Ed erano congetture che si avvicinavano alla realtà, ma non la colpivano a pieno. Prima di tutto mancava all’autore la chiave vera; e cioè la conoscenza diretta, personale, dell’uomo di cui parlava. E poi, la pubblicazione del 1946, su cui Salvemini ragionava, comprendeva soltanto una parte del Diario: all’ingrosso, la seconda metà. In questa Ciano appariva già in un atteggiamento critico, nei confronti di Mussolini. Ci trovavamo di fronte a un documento prezioso per le informazioni di fatto che dava, ma che ci lasciava all’oscuro sui sentimenti di Ciano verso il suocero nei primi anni, in quelli degli apparenti successi.

Il ritrovamento della prima parte del Diario, relativa al periodo 1937-1938, ritrovamento di cui abbiamo letto sui giornali una versione che ci lascia assai perplessi e la pubblicazione di questa parte permette a tutti di farsi una idea più precisa della mentalità dello sventurato autore, e offre a noi l’occasione di fornire qualche elemento di risposta alla domanda salveminiana, che è del resto la domanda di molti.

Ciano, fino da quando (1935) era stato nominato Commissario per la Stampa e Propaganda, e si era insediato a Palazzo Balestra in Via Veneto, incominciò a prendere appunti sui colloqui più interessanti che aveva avuti. E questo, per una necessità pratica, sentita dai ministri di tutti i regimi, che devono riferire sui colloqui avuti; ma sentita da lui più che dagli altri, per il carattere dell’uomo con cui trattava. Egli doveva andare a rapporto da Mussolini; questi si compiaceva di rivolgere talvolta ai suoi collaboratori domande minuziose, tale quale aveva letto in Taine che faceva, nelle sue udienze, Napoleone: si compiaceva di chiedere quando, in quale giorno preciso, avessero veduto il tale o il tal altro. E Ciano, nuovo in ufficio, e giovanilmente desideroso di farsi vedere atto all’ufficio stesso, appuntava per rispondere con precisione.

L’uso di tale espediente fu mantenuto, naturalmente, quando egli passò agli Esteri, e quando i suoi incontri assunsero una importanza sempre maggiore. Ma nel primo anno, anche agli Esteri, gli appunti erano, proprio, soltanto appunti, buttati giù per ritenere un nome o un argomento.

Il proposito di dare ad essi forma sistematica di diario sorse nella mente di Ciano nell’agosto 1937, durante il periodo più grave della impresa spagnola. Fu un proposito derivante dalla convinzione – del resto non errata, relativa- mente al momento – che i colloqui diplomatici che si svolgevano al suo tavolo potessero avere una portata di grande rilievo; e che gli convenisse fissare con ordine tutto ciò che a quel tavolo si diceva. Peraltro, chi legge il Diario degli ultimi mesi del 1937, e di tutto il 1938, vede che esso continua ad avere, in sostanza, il carattere di una serie di notazioni molto scarne sugli affari in corso. Lo scrivente pensa già ai lettori avvenire; egli è troppo convinto della propria capacità e importanza, per non prevedere che le sue notazioni saranno attentamente studiate.

Però il pensiero dei lettori avvenire non è ancora dominante.

Ciano si serve, ancora, effettivamente, del diario; non serve, lui, il diario. E difatti in quell’epoca iniziale – che noi ricordiamo – egli non ne parlava, neppure con gli intimi non civettava mai con accenni al suo diario. Era ancora, per lui un aide mémoire. Può darsi che la rapidità e secchezza delle notazioni appaiano oggi un po’ accresciute di qualche taglio derivante da un caritatevole pensiero degli editori di non nuocere ad alcuno, ma in sostanza, secche le notazioni sono. Questo fatto rende la lettura della prima parte del Diario meno interessante di quella già raccolta in volume. In compenso, questa prima parte chiarisce bene l’animo di Ciano, nei primi due anni che fu a Palazzo Chigi. Il giovane ministro, in quegli anni della Spagna, era ancora intimamente convinto della onniveggenza e della lungimiranza di Mussolini, e lieto di essere suo primo collaboratore e di questo stato di spirito troviamo la conferma nel Diario.

Le frasi: “Lo riferirò al Duce”, “ne parlerò al Duce”, vi ricorrono spessissimo; e rendono bene l’atteggiamento di assoluta deferenza che egli ha per il suocero. Le parole: “La sacra persona del Duce”! che noi troviamo in data 29 novembre 1937, non sono una formula stereotipata, messa là per figura; sono la espressione enfatica di ciò che allora Ciano sinceramente pensava; quando, alla data 27 maggio 1939, leggiamo, nella descrizione del ricevimento di Percy Loraine a Palazzo Venezia che “il Duce... è stato durissimo” e che “il suo volto si è chiuso nella più assoluta impenetrabilità; sembrava quello di un idolo orientale scolpito nella pietrapossiamo essere certi che qui Ciano ammira ancora moltissimo suo suocero, è “mussoliniano” nel profondo dell’anima. E possiamo essere certi anche, che se Mussolini avesse letto questa notazione, ne sarebbe stato molto contento. Egli aveva la mania letteraria, e romagnolescamente letteraria, di apparire duro, inesorabile, crudele; e qui Ciano, col confrontare il suo volto con quello di un idolo orientale, lo serviva a dovere.

Nel complesso, il Diario del 1937-1938 è il diario di “un fedele”; questa qualifica, che vi incontriamo spesso applicata all’uno o all’altro gerarca (tra gli altri, a Pavolini...) come indicativa della devozione del gerarca al diarista, si può anche applicare al diarista, per esprimere la sua devozione a Mussolini.

Chi vide Ciano nei giorni della sua imprudente e qualche volta insolente prosperità, ne ricorda la mutevolezza di accenti e di giudizi, e la apparente labilità della attenzione. Pareva un uomo incapace di tenere regolarmente un diario, sia pure sommario. Invece, egli annotò per anni, con precisione e costanza, gli avvenimenti della sua giornata. In mezzo alla dispersione della sua giornata, egli fu sempre puntualissimo all’appuntamento con la pagina bianca, che lo attendeva. Si può osservare che il diario – ogni diario – una volta iniziato, è un gioco che attira sempre più il diarista; che impegna il diarista più di quanto si sia voluto impegnare in principio; che finisce per diventare una obiettivazione necessaria delle sue riflessioni; che ciò accade spesso; e che accadde anche a Ciano. Giusto: ma non tutti riescono a “farsi prendere” così dalla abitudine al diario. Quante volte noi abbiamo cominciato un diario, senza riuscire a condurlo innanzi! Ora, il fatto che Ciano abbia acquistato l’abitudine del diarista, è un buon numero, nel giudizio sul suo carattere; deve mettere sulla via di discernere certe sue qualità originarie, di piccolo borghese laborioso, ordinato e rangé, che non avevano potuto svilupparsi e irrobustirsi, perché soverchiate e soffocate da una vertiginosa e disastrosa fortuna.

La prima volta che Ciano ci accennò del diario fu dopo il ritorno da Monaco. noi gli esprimemmo appunto i nostri dubbi sulla sua capacità di annotare regolarmente, ogni giorno, i suoi “incontri e scontri”; ed egli un po’ piccato, ci rispose, press’a poco, che era, in fatto di carte e di scrittura, più ordinato e costante di quanto gli facessimo l’onore di crederlo. Era vero. Lo vediamo.

Il diario cominciò, invece, ad affiorare nei discorsi confidenziali di Ciano dopo il viaggio a Salisburgo, nell’agosto 1939; e cioè dopo che egli aveva, in un’intuizione precisa e spontanea, misurata tutta la catastrofe cui la Germania si avviava, e cui trascinava anche l’Italia.

E fu menzionato con sempre maggiore frequenza nel periodo della non belligeranza, man mano che Ciano comprendeva che tutti i suoi propositi, espressi subito, nella notte successiva al primo colloquio salisburghese con Ribbentrop, a persona fidata, e poi riconfermati a Roma, negli ombrosi e freschi saloni di Palazzo Chigi, o nei salotti amici, erano stati sogni di una notte di estate, non altro. Allora, in certi giorni in cui il contrasto tra ciò che il suo ingegno gli suggeriva e le risoluzioni cui vedeva avviarsi Mussolini, erano troppo gravi; in certi momenti in cui la malinconia di non sentirsi la forza di agire lo coglieva improvvisamente, e non era ancora dissipata dalle agevoli distrazioni della giornata o della serata, il diario compariva in ballo: “Ma io, sai, a buon conto, ho messo tutto nel diario! Tu leggessi, quello che ho scritto ieri sera!”.

Questo rinvio al diario era spesso la conclusione di tutto un discorso, da cui era trasparito chiaro che Ciano, in una determinata situazione, aveva ceduto, aveva ancora una volta obbedito.

Troppo intelligente per non comprendere, a sbalzi, la falsità della sua situazione politica, troppo fine di intuizione per non sentire che egli, rassegnandosi a obbedire, aveva deluso tutti coloro che, nel- l’agosto e nel settembre del 1943, avevano sperato qualcosa di più da lui, perpetuamente tenuto sospeso da velleità, che non si irrigidivano mai in volontà, e da vanità che non si concretavano mai in ambizione, Ciano – era chiaro – finiva per considerare il diario come uno sfogatoio. Debolissimo e incerto sotto le apparenze di esuberante sicurezza di sé, egli “metteva tutto nel diario”; e credeva con questo, in qualche modo, di compensare le acquiescenze e le rassegnazioni di tutta la giornata. Il Diario diventava quasi una specie di alibi morale, che egli riteneva sufficiente per continuare ad avere alta stima di sé.

Man mano poi che gli eventi di guerra si aggravavano, e Ciano scorse con più balzante nettezza la fine tragica della faccenda, il Diario acquistò ai suoi occhi un altro valore. Egli vi vide, prima di tutto, un documento atto a dimostrare che non aveva voluto la guerra, e si illuse che, essendo ufficialmente compromesso come era, la lettura delle sue riserve, delle sue esitazioni, di certi suoi apprezzamenti spregiudicati, confidati alla carta, potesse dissipare lungi dalla sua testa qualunque accusa di responsabilità politica, e bloccare quei procedimenti di sanzioni contro i responsabili del conflitto di cui fin da allora si cominciava a parlare. Vi vide, anche, un’arma con cui, domani, avrebbe potuto imporsi a Mussolini, intimorirlo, minacciarlo, qualora questi lo avesse voluto colpire per il suo atteggiamento frondista e per la sua opposizione da salotto, e, qualche volta, da anticamera. Vi vide – ma questa era una prospettiva più lontana: nella mutabilità del suo umore, le prospettive nere e lugubri, quando si affacciavano, dileguavano ben presto, cacciate da una battuta allegra e da una risata – una testimonianza approntata, nel caso gli fosse capitata qualche sciagura, a difesa del proprio nome e della propria reputazione, anzi addirittura a esaltazione della propria acutezza di giudizio presso i venturi. Ma tutto ciò, egli ve lo vedeva non nettamente, né distintamente; così, sempre nel vago. In realtà, anche per il suo diario, Ciano non ebbe mai un’idea, un proposito preciso; ebbe soltanto delle velleità e dei sogni, che si intrecciavano insieme, e che erano confusi ai suoi stessi occhi. Strano a dirsi, e pur vero: la ipotesi che il testo del suo diario potesse essere assunto, non come prova a favore, ma contro di lui; che quelle pagine, in cui era così chiaramente documentata la ambiguità della sua condotta, la debolezza sua, potessero, un giorno, essere citate per suo aggravio, e non per sua discolpa, non crediamo gli sfiorasse la mente, mai...

Non bisogna credere peraltro che Ciano, nel periodo di Salisburgo in poi, pur considerando il diario come il proprio sfogatoio, pur riservandosi di servirsene un giorno anche contro Mussolini, fosse sincero fino in fondo nella stesura di esso. Non lo fu.

Non lo fu, prima di tutto, per la preoccupazione che lo dominò sempre, e che egli ebbe sempre presente ogni volta che si accinse a scrivere su quei quaderni famosi, che il diario potesse andare a cadere nelle mani di Mussolini.

Negli ultimi anni di sua vita, Ciano fu animato, nei confronti di Mussolini, da sentimenti estremamente complessi, che dovettero essere dolorosi per lui che li provava, e che sono quasi dolorosi ad essere ricordati, da chi conobbe la bontà e generosità native dell’animo suo.

Il dissenso col suocero, apertosi nell’agosto del 1939 dinanzi al baratro della guerra, risvegliò ben presto, nel giovane, altre ragioni latenti, da tempo, di opposizione e di ostilità verso l’anziano, ragioni derivanti dal carattere, dalla formazione spirituale, e dai rapporti familiari; si incattivì quindi, si invelenì, e portò gradatamente il giovane a un sentimento di ostilità, che in certe fasi, in certi momenti, assumeva la virulenza dell’odio. Questo odio non si scompagnava mai, a dir vero, da un senso oscuro di soggezione involontaria dinanzi alla persona e al prestigio dell’altro; ma la venatura di soggezione non faceva altro che acuire quell’odio ancora di più, e dargli una intensità più tragica. E la quotidiana evidenza dei grandi benefici ricevuti, la ammissione che, pur nell’intimo, doveva fare, di dovere tutto all’altro, di essere, nel significato pieno della parola, una sua creatura, il ricordo della stessa devozione sua di un tempo, e della fedeltà incrollabile del padre a quell’uomo, tutto ciò, lungi dall’essere una remora, erano un aculeo per lui; e gli facevano apparire l’odio contro Mussolini come una tal quale sua rivincita, come una sua affermazione di indipendenza. Se egli, in queste sue fasi di ostilità acuta, diceva che avrebbe riferito a Mussolini, che ne avrebbe parlato a Mussolini non lo diceva più, no, col tono del 1937-1938; la fiducia nella onniveggenza del suocero era dileguata, e quelle parole erano pronunciate con un tono spregiativo; come per indicare una cosa del tutto inutile. E quanto alla espressione “la sacra persona del Duce”, da lui usata seriamente nel 1937, se ricorreva ancora nel suo discorso, era soltanto con accento ironico. Noi pensiamo che nodi psicologici simili siano possibili soltanto là dove gli effetti del potere personale assoluto si intrecciano con i rapporti di parentela; e ci pare di avere intraveduto qualcosa di simile nelle antiche cronache delle Signorie italiane. Se ne stupisca chi vuole; darà segno, con ciò, di essere un apprendista, nella conoscenza del cuore umano. Né il Guicciardini né il Varchi, per esempio, se ne sarebbero stupiti.

Ora, Ciano, questi suoi sentimenti, non aveva ritegno né timore di esprimerli a voce alle persone ammesse alla sua intimità (che furono, per vero, troppe); e talvolta in termini così drastici, con analisi così penetranti e spietate delle azioni e dei moventi di Mussolini, da lasciare sconcertati e quasi spaventati gli uditori, cui quel giovane uomo, nato per godere la vita e terribilmente viziato dalla fortuna, appariva ad un tratto come travolto da una passione troppo forte per il suo petto; troppo grossa per il suo fiato.

Ma viceversa, questi suoi sentimenti non figurano affatto nel Diario, seconda parte, per la ragione detta sopra, che Ciano non osò mai confidarsi alla carta, temendo qualche colpo di mano da parte dell’altro, o comunque complicazioni tali, per cui il Diario cadesse sotto gli occhi di Mussolini. Tanto egli era temerario nelle conversazioni, tanto egli era prudente nella scritturazione.

Anzi, Ciano, pur esprimendo nel diario frequenti disapprovazioni e dissensi dalla politica del suocero, pure mettendo in rilievo, con inesorabile precisione, tutte le illusioni e le fissazioni di lui, prende le proprie precauzioni. E quale è la prima? È facile vederlo. È la puntuale relazione di tutti gli accessi e di tutti gli scatti antitedeschi di Mussolini. 17 gennaio 1940: “Oggi il  Duce è piuttosto ostile ai tedeschi”. 10 giugno 1941: “Strano anniversario dell’entrata in guerra! Mussolini... ha pronunciato contro la Germania la più dura requisitoria che io abbia mai sentito”. 11 aprile 1942: “Il  Duce... dà a questa sua affermazione un netto carattere di polemica anti-tedesca”. 24 luglio 1942: “Sempre più antitedesco il tono dei discorsi del duce”. E via, e via; e Ciano fa seguire, spesso, il testo delle parole di Mussolini. Con questa sua minuta documentazione dell’“antitedeschismolatente del duce, Ciano sapeva che, in parte, “bloccavail  Duce stesso; Mussolini non avrebbe potuto mai colpirlo, lui, per avere avuto sentimenti ch’egli stesso, in parte, e a momenti, condivideva. Anzi: Ciano, in caso di scoperta del suo diario, avrebbe potuto dire: “Ma io,  Duce, sono il primo testimonio della vostra intima avversione alla Germania, e quindi posso esservi utile, domani, se le cose si mettessero male”. E qualche cosa di simile, difatti, disse in certe discussioni avute con Mussolini nel giugno ’43. Le testimonianze dell’“antitedeschismo” di Mussolini sono da considerarsi, tutte, come paracadute preparati là per il caso di una scoperta del Diario.

Ma chi legge attentamente, vede che, di paracadute, ce n’è approntati anche degli altri. Per esempio, certi accenni al disinteresse personale di Mussolini (7 agosto 1942: “Si è indignato perché i familiari avevano preso dai contadini un cesto di roba alimentare”; 3 gennaio 1943: “Il disinteresse personale del  Duce è commovente”) per quanto rispondenti a constatazioni di fatto, si può ritenere che furono insinuati nel racconto a ragion veduta: Ciano sapeva quanto Mussolini teneva a distinguersi dai profittatori, da cui era circondato; sapeva quindi, con certezza, che se quelle precisazioni fossero state lette da Mussolini, lo avrebbero lusingato moltissimo; sarebbero bastate a far “passarecinquanta o cento pagine di dubbi e di previsioni pessimistiche sulla guerra. Il diario di Ciano, nella sua seconda parte, contiene parecchie di queste frasi premeditate in vista del caso che potesse capitare sotto quegli occhi temuti. Il lettore, scor rendolo, deve sempre tener presente questo accorgimento pratico dello scrivente. Ma che? La stessa frase con cui si chiude il Diario: A Mussolini voglio bene, molto bene; e la cosa che più mi mancherà sarà il contatto con lui”, si può considerare come l’esempio tipico di queste frasi paracadute. Anche ammettendo che, nel momento in cui egli lasciava Palazzo Chigi, Ciano potesse avere un “ritorno su se stesso”, e ricordare commosso i tempi in cui aveva servito Mussolini con devozione, è certo che egli, in quel febbraio 1943, aveva vere esplosioni di iroso rancore contro Mussolini; che la “liquidazione” subita rafforzò la sua convinzione, che bisognava fare qualcosa per finirla “con quello là”; e che la frase succitata non corrisponde affatto alla “media quotidiana” o alla “media oraria” dei suoi sentimenti.

Il timore che il diario fosse letto da Mussolini fu dunque una delle ragioni che imbrigliarono la sincerità assoluta di Ciano. Ma poi, ce ne fu un’altra, opposta: la speranza che fosse letto da una gran quantità di gente, meno, s’intende, Mussolini.

Man mano che procedeva nella stesura, infatti, Ciano si convinceva sempre più che, un giorno, il suo diario, come documento a difesa o puramente come documento storico, sarebbe stato pubblicato. Era sempre più ipnotizzato dal miraggio di tanti diaristi del pubblico postumo dinanzi a cui comparire. Aumentava le sue speranze di poter passare alla posterità se non come un ministro degli Esteri fortunato, almeno come un memorialista di grande acutezza.

Quindi c’è, verso la fine, una maggior cura della forma, una maggior tendenza a un certo effetto epigrammatico, una maggiore larghezza nell’accogliere l’aneddoto o nel riferire le boutades. Non c’è dubbio che Ciano, talvolta, certe cose le scrisse nel diario per arricchirlo, per renderlo più interessante; e viene il sospetto che certa gente la ricevesse precisamente per avere qualcosa da mettere su carta. Ma che diciamo: “viene”? “venne”, questo sospetto, fin da allora, a chi conosceva l’uomo; noi sappiamo di persone che si astennero dal toccare certi argomenti con lui, perché sapevano che c’era il rischio, la sera, di aver registrati i propri giudizi su un diario che non si sapeva dove sarebbe mai andato a finire. Contrariamente poi alla opinione diffusa, per cui Ciano era inetto a tener la penna in mano, e attribuiva addirittura a questo o quello dei suoi collaboratori il compito di “fargli” i discorsi, Ciano era uomo di penna facile e non priva di eleganza; chi viaggiò con lui, gli vide stendere rapidamente, in treno rapporti lunghi e complessi, per la cui stesura molti diplomatici di fama avrebbero sudato sette camicie inamidate. E nel Diario, ultima parte, egli di questa sua capacità di “bravo in componimento” si ricorda, anche troppo spesso; e nonostante la sua protesta iniziale, di volere torcere il collo alla letteratura, certe pagine svelano scopertamente propositi letterari, come quella che Ciano dedica al padre morto. Chi la legge, sente subito che Ciano aveva subìto il destino di molti diaristi, ed era passato, dal “servirsi del diario”, al “servire il diario”.

Questo compiacimento di autore, negli ultimi tempi della permanenza a palazzo Chigi, lo induceva talvolta a voler gustare in vita, e subito, il giudizio del pubblico. Mentre nei primi tempi del dissenso col suocero s’era accontentato di dire: L’ho messo nel diario. Tu leggessi quello che ho scritto ieri sera!”, egli diceva addirittura: “Ora ti leggerò quello che ho scritto ieri sera”. E tratta dal taschino una chiavetta americana, si alzava dal tavolo, andava alla cassaforte, e ne prendeva questo o quello dei volumi di agenda da lui utilizzati per scriverci sopra; e senz’altro dava lettura del “pezzoche gli stava a cuore. Poi, come sorpreso dal pensiero che, facendo così con quel suo visitatore, ancora una volta finiva per togliere al suo diario l’aureola di mistero che gli piaceva fosse conservata, s’interrompeva bruscamente, e richiudeva il volume. E poi, soppesandolo con la mano, chiedeva: “Eh, cosa ne dici? Lo sarebbe un colpetto giornalistico, questo, di poter pubblicare questa roba? Che cosa darebbe, secondo te, il «New York Times», per poterne avere i diritti? A quanto credi che arriverebbero, di dollari?”. Erano domande scherzose. Ciano non faceva, in quei momenti, certamente calcolo di denaro. Non gli dispiaceva invece che il visitatore gli facesse i suoi complimenti per la vivacità della stesura, e gli tirasse fuori nomi celebri di diplomatici diaristi, cui riavvicinare il suo. Tanto meno gli dispiaceva se, uscendo, il visitatore faceva menzione, in quei sotto-voce tanto più efficaci del clamore, che Ciano teneva un diario. “Badi, Eccellenza – gli dicemmo un giorno – che il suo diario segreto è la favola di tutta Roma”. “Bravo – ci rispose lui con quella facilità di replica ch’era una delle sue doti più speciose e più rovinose. – Bravo. Tu non sai che le cose segrete si fanno perché siano risapute così, perché restino così a mezz’aria. Il diario è lì – e accennava alla cassaforte –; ma ci deve essere l’incubo del diario di Ciano, sulla testa di tutti...”.

E non sapeva, egli così terribilmente inesperto, nonostante le sue arie di uomo vissuto e pratico di tutte le corruzioni del mondo, non sapeva, diciamo, che l’incubo più grosso era quello che incombeva su di lui...

Arrivato ai due terzi della sua carriera di diarista, e dopo aver già scritto, in venticinque anni, con la sua calligrafia minuta, novantasei quinterni del suo Journal intime, il ginevrino Federico Amiel in data 23 maggio 1869 riteneva necessario chiarire a se stesso gli scopi della sua impresa. Si chiedeva dunque a cosa dovesse servire un diario. E rispondeva: “Primo, a sgonfiare il proprio cuore; secondo, ad accorgersi della propria vita; terzo, a chiarire il proprio pensiero; quarto, a preparare qualcosa di interessante per la vecchiaia, se si deve pervenire a questa età; quinto, a interessare forse gli amici ai quali lo si lascerà in testamento; e sesto, a fornire forse qualche riflessione utile agli amici sconosciuti che esistono nel pubblico”.

Se la stessa domanda se la fosse posta Ciano, egli non avrebbe potuto certo rispondere con la finezza analitica di Amiel; troppe doti gli mancavano, e troppe altre gli soprabbondavano, per assomigliare al più famoso dei diaristi dell’Ottocento. E tuttavia, in sostanza, gli scopi ai quali egli pensava sono gli stessi che elenca Amiel; non escluso l’ultimo. Anzi, soprattutto l’ultimo. Ciano si illudeva, infatti, di avere “amici sconosciuti”, molti “amici sconosciuti”. nel Diario sono frequenti accenni alla sua popolarità...

Ma gli uomini, nelle loro azioni, si propongono certi scopi, e ne raggiungono certi altri, che soltanto Iddio conosce. Così Ciano, scrivendo il diario, tra tanti scopi a cui mirava, non vide l’unico e vero cui Iddio destinava quei fogli orgogliosi; che era quello di assicurare, un giorno, la sussistenza alla vedova sua, ed ai figli percossi e dispersi dalla catastrofe. Né sapeva che quella sua domanda scherzosa: “A quanto credi che arriverebbero di dollari?”, la vedova sua doveva farla, lui fucilato, lei profuga, col tono ansioso, di chi deve apprendere a misurare il denaro alle necessità della vita.

Tanto dovrebbe valere a far pronunciare, a proposito del Diario di Ciano, la domanda: “Perché l’ha scritto?” con quel tono di rispetto che non va mai negato alla sventura; con quel tono stesso con cui noi abbiamo cercato di rispondervi.

 

* Il presente saggio è tratto dal volume di Giovanni Ansaldo "In viaggio con Ciano", pubblicato nel 2005 dalla Casa Editrice Le Lettere.