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Il diritto a non nascere se non sano: il dilemma giuridico continua

Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civile, Sentenza n. 25767/15 - depositata il 22 dicembre 03 gennaio 2016
Il diritto a non nascere se non sano: il dilemma giuridico continua
Il diritto a non nascere se non sano: il dilemma giuridico continua

In data 23 febbraio 2015, con ordinanza interlocutoria numero 3569, la terza sezione della Suprema Corte di Cassazione rimetteva al vaglio delle Sezioni Unite due questioni giuridiche relative al risarcimento del danno da nascita indesiderata: l'onere probatorio e la legittimazione ad agire del nato malformato.

Nella vicenda in esame i genitori di una bimba portatrice di handicap convenivano in giudizio la struttura sanitaria, il ginecologo e il direttore del laboratorio analisi domandando il risarcimento del danno da nascita indesiderata per mancata informazione sull’esistenza di malformazioni congenite del feto.

Con sentenza del 22 dicembre 2015 numero 25767 le Sezioni Unite interrogate sul punto sciolgono la riserva.

La fase diagnostica rappresenta una delle vicende giudiziarie più controverse della responsabilità medica, infatti, l’errore medico nell’attività professionale e la conseguente omissione delle corrette informazioni determina una lesione del diritto all’autodeterminazione.

Il rapporto tra professionista e paziente è incentrato su due obblighi fondamentali: il medico deve sempre informarlo sul suo stato di salute ed eseguire, inoltre, la propria professione nel rispetto della deontologia adottando la diligenza professionale richiesta nella prestazione intellettuale.

Il punto centrale della nostra analisi deve focalizzarsi sull’ultimo baluardo possibile di esclusione della responsabilità invocata da parte del medico che è quella del richiamo del concetto del diritto al non nascere se non sani.

Il diritto a non nascere per gravi malformazioni fetali non è forse un interesse meritevole di tutela?

Un clamoroso caso giurisprudenziale che ha appassionato, oltre che diviso i giuristi francesi e non solo, riguarda la decisione della Cour de Cassation che, in Assemblée plénière (arret Perruche) ha ammesso il diritto al risarcimento del danno subito, con la nascita, da un bambino affetto da gravi malformazioni dovute al contagio della rosolia contratta dalla madre durante la gravidanza, ove i medici, colposamente, avevano mancato di diagnosticare.

All’indomani della pronuncia della Cour de Cassation le prime impressioni negative si sono incentrate sull’approccio adottato dai giudici d’Oltralpe, apparso disponibile al sacrificio degli schemi canonici che regolano la disciplina dell’illecito civile pur di offrire riparazione al piccolo Nicholas.

Sotto il profilo giuridico sostanziale ciò che desta le maggiori preoccupazioni è la riparazione di un danno in assenza di nesso eziologico. Il nesso causale è elemento che ovviamente non può mancare nei giudizi di responsabilità.

Il medico nell’interpretare erroneamente gli esami diagnostici omette di rilevare la patologia, ma non cagiona la malformazione e, quindi, se si vuole a tutti i costi cercare una responsabilità diretta di qualcuno verso il concepito si dovrebbe citare dinanzi all’autorità precostituita la natura crudele.

In Italia tra i primi casi di azioni per wrongful life si segnalano tre pronunce di merito, in cui i giudici escludono la configurabilità del diritto dedotto facendo leva sula carenza di legittimazione del figlio ad agire in giudizio ed, in un solo caso, entrando nel merito e riconoscendo l’assenza di un nesso di causalità tra l’operato (inadempiente del medico in ordine all’omessa diagnosi di malformazioni) e il bambino nato malformato.

I principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in una pronuncia del 2004 poi confermata dalla Suprema Corte nel 2006 hanno ampiamente ribadito che non esiste nel nostro ordinamento un «diritto a non nascere se non sano». Nell'alternativa fra il nascere ed il nascere malati, la seconda eventualità non può dunque essere considerata dall'ordinamento come fatto lesivo.

In tale prospettiva un non nato non può essere titolare di diritti e, pertanto, il “diritto a non nascere” sarebbe un diritto adespota per la mancata esistenza del suo titolare anche nell'ipotesi in cui il medesimo diritto venga esercitato.

In conclusione, quale argomentazione favorevole per il professionista, la nascita di un bambino malformato non deve di per sé equivalere ad un riconoscimento automatico di responsabilità, specie ove il medico abbia diagnosticato quanto doveva secondo le linee guida e i protocolli seguiti dalla prassi e dalla comunità scientifica.

 Diversa la questione del diritto a nascere sano del concepito.

Nelle ipotesi, infatti, in cui il nascituro era sano e la malformazione è addebitabile sotto il profilo eziologico ad una condotta diretta del sanitario (a titolo esemplificativo si pensi alla somministrazione errata di farmaci in corso di gravidanza) non vi sono dubbi non solo sull’imputabilità della responsabilità in capo al professionista, ma anche sulla legittimazione attiva ad agire della madre e del figlio. L’ordinamento nella sua unitarietà riconosce il nascituro dotato di autonoma soggettività giuridica, in quanto portatore di alcuni interessi personali. Rispetto a questi interessi l’avverarsi della condicio iuris della nascita, di cui all’articolo 1 del codice civile, non può costituire un limite per la protezione degli interessi dell’individuo.

Fatta eccezione per le ipotesi di cui agli articoli 462,784 e 254 del codice civile, dunque, il lieto evento della nascita si pone come limite all’acquisto della capacità in senso stretto riflettendosi sull’esercizio dei diritti, ma non sulla loro titolarità.

Tutela della vita nascente e soggettività del concepito nella legalità costituzionale sono il binomio che rispecchia l’idea di un ordinamento che pone al centro la persona.

Pertanto, eventuali lesioni verificatesi prima della nascita, quale conseguenza di attività diretta (etiologicamente) riconducibile al medico e concretizzatesi dopo di questa legittimano la risarcibilità di danni subiti nella vita pre-natale.

A riguardo le Sezioni Unite hanno proceduto alla risoluzione del contrasto riguardante la legittimazione del nato malformato alla richiesta risarcitoria, ovvero il cosiddetto diritto a non nascere se non sano.

Ciò posto, secondo i giudici di legittimità, non risulta possibile estendere il diritto risarcitorio anche in capo al nato malformato, poiché risulterebbe, alquanto complesso, estendere al nascituro una facoltà che è concessa, dal quadro normativo, alla gestante, oltreché porsi in contrasto con il diritto alla vita.

Sul punto risulta ascrivibile un bilanciamento tra il diritto a nascere o a non nascere, ovvero, il diritto alla vita e il diritto alla morte, ma il suesposto interesse a non nascere se non sano forse metterebbe in crisi l’intero sistema risarcitorio del danno da nascita indesiderata, laddove il nostro ordinamento non riconosce il diritto alla non vita in stretta correlazione al diritto alla morte, ovvero, all’eutanasia, ma in questo caso sconfineremmo in un altro campo e su altre particolari questioni complesse di manifestazione positiva di volontà. A riguardo giova rilevare un altro interessante ragionamento non approfondito dalla Suprema Corte, ovvero la capacità giuridica anticipata all’evento della nascita.

A ben vedere al nascituro viene riconosciuta una capacità giuridica particolare, il quale può altresì risultare titolare a concorrere alla successione mortis causa. Ebbene, nonostante tale riconducibilità il nostro sistema giuridico non qualifica in favore dello stesso alcun diritto risarcitorio a seguito del fatto illecito alla nascita.

Nei giudizi di responsabilità l’accertamento del nesso di causa è ineludibile, pertanto, la storica sentenza Franzese cerca di consegnare agli occhi dell’interprete una chiave di volta unica su di un rapporto eziologico basato sulla certezza della legge scientifica anziché probabilistica, c.d. “more likely that not”, ovvero “più probabile che non”.

Per quanto concernono le regole di accertamento del nesso di causa, quest’ultime variano in ambito civile e penale.

La più recente dottrina si è orientata in maniera molto pragmatica, esprimendo fiducia verso la scienza attraverso la ricerca dell’esistenza del nesso di causalità in base alle leggi scientifiche. Una data condotta umana può essere configurata come condizione necessaria di un certo evento solo se essa rientra nel novero di quegli antecedenti che, secondo un modello condiviso dotato di validità scientifica, noto come legge generale di copertura, porta all’evento del tipo di quello verificatosi. Seguendo questo indirizzo è possibile ricondurre la causa dell’evento secondo criteri di certezza assoluta.

L’evoluzione giurisprudenziale ha affermato negli anni che il nesso di causalità non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accetti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi con elevato grado di credibilità razionale, l’evento non avrebbe avuto luogo, ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Il codice civile italiano è privo di una definizione legislativa di causalità, nonché di coordinate precise sui criteri con cui procedere all’accertamento del rapporto eziologico. Si è prontamente considerato a tal proposito che mentre la causalità penale richiede la dimostrazione a carico dell’accusa che l’evento sia addebitabile alla condotta dell’agente secondo criteri prossimi alla certezza, in ambito civile è possibile un temperamento. Tali norme vanno, dunque, adeguate alla specificità della responsabilità civile, rispetto a quella penale, perché muta la regola probatoria; mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre ogni ragionevole dubbio», al contrario, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non».

Il modello di nesso causale, così come consacrato dalla pronuncia Franzese e correttamente applicato in sede penale dovrebbe già di per sé offrire adeguate garanzie per l’esercente la professione sanitaria.

Tra i profili propulsivi nell’evoluzione del settore concernente la responsabilità civile si è notato l’alleggerimento dei parametri di riscontro del nesso causale sempre più orientato a radicarsi verso il “more likely that not”, ma tra le finalità perseguite dal legislatore negli ultimi anni, assume un rilievo preminente l’obiettivo di contenere il contenzioso giudiziario e il conseguente fenomeno della medicina difensiva.

Nella fattispecie in esame i giudici di legittimità hanno sottolineato il tema della presunzione legale e, ai sensi dell’articolo 2729 del codice civile, si è rilevato che il ricorso al consulto medico da parte della madre deve essere qualificato, di per sé, idoneo per la conoscenza delle condizioni di salute del nascituro. Tale prova presuntiva risulta desumibile dai fatti allegati in corso di causa e, pertanto, i giudici di merito hanno erroneamente omesso la loro presa in carico ai fini probatori.

Alla luce di quanto sopra emerso la Suprema Corte ha dato una risposta chiara e precisa in merito alle due questioni poste dall’ordinanza interlocutoria, ovvero la legittimazione ad agire e l’onere probatorio del danno. A tal fine giova rilevare che nel medesimo accertamento occorre domandarsi non solo se è stato violato o meno un diritto di scelta a seguito dell’omessa diagnosi, così come evidenziato dai giudici di legittimità, ma risulta anche necessario porsi ulteriori interrogativi in merito alle ripercussioni del danno stesso sulla vita futura dei genitori.

In data 23 febbraio 2015, con ordinanza interlocutoria numero 3569, la terza sezione della Suprema Corte di Cassazione rimetteva al vaglio delle Sezioni Unite due questioni giuridiche relative al risarcimento del danno da nascita indesiderata: l'onere probatorio e la legittimazione ad agire del nato malformato.

Nella vicenda in esame i genitori di una bimba portatrice di handicap convenivano in giudizio la struttura sanitaria, il ginecologo e il direttore del laboratorio analisi domandando il risarcimento del danno da nascita indesiderata per mancata informazione sull’esistenza di malformazioni congenite del feto.

Con sentenza del 22 dicembre 2015 numero 25767 le Sezioni Unite interrogate sul punto sciolgono la riserva.

La fase diagnostica rappresenta una delle vicende giudiziarie più controverse della responsabilità medica, infatti, l’errore medico nell’attività professionale e la conseguente omissione delle corrette informazioni determina una lesione del diritto all’autodeterminazione.

Il rapporto tra professionista e paziente è incentrato su due obblighi fondamentali: il medico deve sempre informarlo sul suo stato di salute ed eseguire, inoltre, la propria professione nel rispetto della deontologia adottando la diligenza professionale richiesta nella prestazione intellettuale.

Il punto centrale della nostra analisi deve focalizzarsi sull’ultimo baluardo possibile di esclusione della responsabilità invocata da parte del medico che è quella del richiamo del concetto del diritto al non nascere se non sani.

Il diritto a non nascere per gravi malformazioni fetali non è forse un interesse meritevole di tutela?

Un clamoroso caso giurisprudenziale che ha appassionato, oltre che diviso i giuristi francesi e non solo, riguarda la decisione della Cour de Cassation che, in Assemblée plénière (arret Perruche) ha ammesso il diritto al risarcimento del danno subito, con la nascita, da un bambino affetto da gravi malformazioni dovute al contagio della rosolia contratta dalla madre durante la gravidanza, ove i medici, colposamente, avevano mancato di diagnosticare.

All’indomani della pronuncia della Cour de Cassation le prime impressioni negative si sono incentrate sull’approccio adottato dai giudici d’Oltralpe, apparso disponibile al sacrificio degli schemi canonici che regolano la disciplina dell’illecito civile pur di offrire riparazione al piccolo Nicholas.

Sotto il profilo giuridico sostanziale ciò che desta le maggiori preoccupazioni è la riparazione di un danno in assenza di nesso eziologico. Il nesso causale è elemento che ovviamente non può mancare nei giudizi di responsabilità.

Il medico nell’interpretare erroneamente gli esami diagnostici omette di rilevare la patologia, ma non cagiona la malformazione e, quindi, se si vuole a tutti i costi cercare una responsabilità diretta di qualcuno verso il concepito si dovrebbe citare dinanzi all’autorità precostituita la natura crudele.

In Italia tra i primi casi di azioni per wrongful life si segnalano tre pronunce di merito, in cui i giudici escludono la configurabilità del diritto dedotto facendo leva sula carenza di legittimazione del figlio ad agire in giudizio ed, in un solo caso, entrando nel merito e riconoscendo l’assenza di un nesso di causalità tra l’operato (inadempiente del medico in ordine all’omessa diagnosi di malformazioni) e il bambino nato malformato.

I principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in una pronuncia del 2004 poi confermata dalla Suprema Corte nel 2006 hanno ampiamente ribadito che non esiste nel nostro ordinamento un «diritto a non nascere se non sano». Nell'alternativa fra il nascere ed il nascere malati, la seconda eventualità non può dunque essere considerata dall'ordinamento come fatto lesivo.

In tale prospettiva un non nato non può essere titolare di diritti e, pertanto, il “diritto a non nascere” sarebbe un diritto adespota per la mancata esistenza del suo titolare anche nell'ipotesi in cui il medesimo diritto venga esercitato.

In conclusione, quale argomentazione favorevole per il professionista, la nascita di un bambino malformato non deve di per sé equivalere ad un riconoscimento automatico di responsabilità, specie ove il medico abbia diagnosticato quanto doveva secondo le linee guida e i protocolli seguiti dalla prassi e dalla comunità scientifica.

 Diversa la questione del diritto a nascere sano del concepito.

Nelle ipotesi, infatti, in cui il nascituro era sano e la malformazione è addebitabile sotto il profilo eziologico ad una condotta diretta del sanitario (a titolo esemplificativo si pensi alla somministrazione errata di farmaci in corso di gravidanza) non vi sono dubbi non solo sull’imputabilità della responsabilità in capo al professionista, ma anche sulla legittimazione attiva ad agire della madre e del figlio. L’ordinamento nella sua unitarietà riconosce il nascituro dotato di autonoma soggettività giuridica, in quanto portatore di alcuni interessi personali. Rispetto a questi interessi l’avverarsi della condicio iuris della nascita, di cui all’articolo 1 del codice civile, non può costituire un limite per la protezione degli interessi dell’individuo.

Fatta eccezione per le ipotesi di cui agli articoli 462,784 e 254 del codice civile, dunque, il lieto evento della nascita si pone come limite all’acquisto della capacità in senso stretto riflettendosi sull’esercizio dei diritti, ma non sulla loro titolarità.

Tutela della vita nascente e soggettività del concepito nella legalità costituzionale sono il binomio che rispecchia l’idea di un ordinamento che pone al centro la persona.

Pertanto, eventuali lesioni verificatesi prima della nascita, quale conseguenza di attività diretta (etiologicamente) riconducibile al medico e concretizzatesi dopo di questa legittimano la risarcibilità di danni subiti nella vita pre-natale.

A riguardo le Sezioni Unite hanno proceduto alla risoluzione del contrasto riguardante la legittimazione del nato malformato alla richiesta risarcitoria, ovvero il cosiddetto diritto a non nascere se non sano.

Ciò posto, secondo i giudici di legittimità, non risulta possibile estendere il diritto risarcitorio anche in capo al nato malformato, poiché risulterebbe, alquanto complesso, estendere al nascituro una facoltà che è concessa, dal quadro normativo, alla gestante, oltreché porsi in contrasto con il diritto alla vita.

Sul punto risulta ascrivibile un bilanciamento tra il diritto a nascere o a non nascere, ovvero, il diritto alla vita e il diritto alla morte, ma il suesposto interesse a non nascere se non sano forse metterebbe in crisi l’intero sistema risarcitorio del danno da nascita indesiderata, laddove il nostro ordinamento non riconosce il diritto alla non vita in stretta correlazione al diritto alla morte, ovvero, all’eutanasia, ma in questo caso sconfineremmo in un altro campo e su altre particolari questioni complesse di manifestazione positiva di volontà. A riguardo giova rilevare un altro interessante ragionamento non approfondito dalla Suprema Corte, ovvero la capacità giuridica anticipata all’evento della nascita.

A ben vedere al nascituro viene riconosciuta una capacità giuridica particolare, il quale può altresì risultare titolare a concorrere alla successione mortis causa. Ebbene, nonostante tale riconducibilità il nostro sistema giuridico non qualifica in favore dello stesso alcun diritto risarcitorio a seguito del fatto illecito alla nascita.

Nei giudizi di responsabilità l’accertamento del nesso di causa è ineludibile, pertanto, la storica sentenza Franzese cerca di consegnare agli occhi dell’interprete una chiave di volta unica su di un rapporto eziologico basato sulla certezza della legge scientifica anziché probabilistica, c.d. “more likely that not”, ovvero “più probabile che non”.

Per quanto concernono le regole di accertamento del nesso di causa, quest’ultime variano in ambito civile e penale.

La più recente dottrina si è orientata in maniera molto pragmatica, esprimendo fiducia verso la scienza attraverso la ricerca dell’esistenza del nesso di causalità in base alle leggi scientifiche. Una data condotta umana può essere configurata come condizione necessaria di un certo evento solo se essa rientra nel novero di quegli antecedenti che, secondo un modello condiviso dotato di validità scientifica, noto come legge generale di copertura, porta all’evento del tipo di quello verificatosi. Seguendo questo indirizzo è possibile ricondurre la causa dell’evento secondo criteri di certezza assoluta.

L’evoluzione giurisprudenziale ha affermato negli anni che il nesso di causalità non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accetti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi con elevato grado di credibilità razionale, l’evento non avrebbe avuto luogo, ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Il codice civile italiano è privo di una definizione legislativa di causalità, nonché di coordinate precise sui criteri con cui procedere all’accertamento del rapporto eziologico. Si è prontamente considerato a tal proposito che mentre la causalità penale richiede la dimostrazione a carico dell’accusa che l’evento sia addebitabile alla condotta dell’agente secondo criteri prossimi alla certezza, in ambito civile è possibile un temperamento. Tali norme vanno, dunque, adeguate alla specificità della responsabilità civile, rispetto a quella penale, perché muta la regola probatoria; mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre ogni ragionevole dubbio», al contrario, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non».

Il modello di nesso causale, così come consacrato dalla pronuncia Franzese e correttamente applicato in sede penale dovrebbe già di per sé offrire adeguate garanzie per l’esercente la professione sanitaria.

Tra i profili propulsivi nell’evoluzione del settore concernente la responsabilità civile si è notato l’alleggerimento dei parametri di riscontro del nesso causale sempre più orientato a radicarsi verso il “more likely that not”, ma tra le finalità perseguite dal legislatore negli ultimi anni, assume un rilievo preminente l’obiettivo di contenere il contenzioso giudiziario e il conseguente fenomeno della medicina difensiva.

Nella fattispecie in esame i giudici di legittimità hanno sottolineato il tema della presunzione legale e, ai sensi dell’articolo 2729 del codice civile, si è rilevato che il ricorso al consulto medico da parte della madre deve essere qualificato, di per sé, idoneo per la conoscenza delle condizioni di salute del nascituro. Tale prova presuntiva risulta desumibile dai fatti allegati in corso di causa e, pertanto, i giudici di merito hanno erroneamente omesso la loro presa in carico ai fini probatori.

Alla luce di quanto sopra emerso la Suprema Corte ha dato una risposta chiara e precisa in merito alle due questioni poste dall’ordinanza interlocutoria, ovvero la legittimazione ad agire e l’onere probatorio del danno. A tal fine giova rilevare che nel medesimo accertamento occorre domandarsi non solo se è stato violato o meno un diritto di scelta a seguito dell’omessa diagnosi, così come evidenziato dai giudici di legittimità, ma risulta anche necessario porsi ulteriori interrogativi in merito alle ripercussioni del danno stesso sulla vita futura dei genitori.