Il divieto di annullamento della transazione per errore di diritto
Il divieto di annullamento della transazione per errore di diritto
Abstract
L’art. 1969 c.c., il quale vieta alla parte – la quale sia incorsa in un errore di diritto – di chiedere l’annullamento della transazione per tale ragione, contrasta con l’art. 1442 comma 2 c.c., il quale stabilisce che il termine per proporre domanda di annullamento del contratto decorre dalla data in cui l’errore è stato scoperto, anziché dalla data della stipula del contratto.
Esso, inoltre, contrasta con il principio generale previsto dall’art. 2041 c.c., il quale attribuisce alla parte il diritto di far accertare dal Giudice che la controparte si è arricchita “senza una giusta causa”.
Art. 1969 c.c., which prohibits the party - who has committed an error of law – of asking the annulment of the contract for this reason, goes against art. 1442 comma 2 c.c., that establishes the deadline within wich it is possibile ask the annulment run from the date on wich the error has been discovered, instead of from the date on wich the contract was concluded.
Art. 1969 c.c., also, goes against general principle required by art. 2041 c.c., that gives to the part the the right of ascertaining by the judge that counterparty has been enriched “without a just cause”.
L’art. 1965 c.c. definisce la transazione come quel “contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro”.
Ai sensi dell’art. 1969 c.c., “la transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti”.
Tizio e Caio hanno stipulato una compravendita, in merito alla quale Tizio reclama determinati diritti e Caio ne rivendica altri. Le parti non vogliono nè andare in contenzioso nè risolvere consensualmente il contratto, e quindi decidono di fare una transazione, che consiste in questo: Tizio rinuncia a far valere i propri diritti alla condizione che anche Caio rinunci (reciprocità delle concessioni), e Caio accetta, ragion per cui la transazione si perfeziona.
Dopo la stipula, però, Tizio si è accorto che i diritti rivendicati da Caio erano giuridicamente infondati, nel senso che nessuna norma li prevedeva, e quindi Tizio è incorso in “errore di diritto”, ossia egli ha (erroneamente) ritenuto che la pretesa della sua controparte fosse giuridicamente fondata, cosa che invece non era. Quindi in realtà Tizio, nel rinunciare, mediante la transazione, ai propri diritti, ha concesso a Caio un qualcosa che a questi per legge non spettava.
Ebbene, l’art. 1969 c.c. prevede che Tizio, pur essendo incorso nel suddetto “errore di diritto”, non può chiedere l’annullamento della transazione, ossia l’annullamento di quel suo atto di rinuncia.
L’orientamento della giurisprudenza è quello di ritenere che sia rilevante il solo errore di diritto sulla situazione costituente presupposto della res controversa (e, quindi, antecedente logico della transazione) e non anche quello che cade su una questione che sia stata oggetto di controversia o che avrebbe potuto formare oggetto di controversia; non è quindi annullabile la transazione con la quale le parti abbiano convenuto un determinato corrispettivo come incentivo all'esodo e a tacitazione di tutti i diritti del lavoratore in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro, in quanto, in tal caso, l'errore, incidendo sulle reciproche concessioni, attiene direttamente all'oggetto della transazione e non già a un suo presupposto (Cassazione civile sez. lav. 02 agosto 2007 n. 17015).
Stesso concetto è stato espresso anche successivamente dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. sez. II, 03.01.2011 n. 72).
Quale può essere la ratio della norma?
La transazione, come abbiamo detto, è un atto di rinuncia ai propri diritti.
La rinuncia dovrebbe presupporre ed implicare la piena consapevolezza della legittimità dei diritti rivendicati dalla controparte: una parte decide di rinunciare ad esercitare i propri diritti contrattuali perché ha, presumibilmente, accertato che la pretesa della controparte è giuridicamente fondata, altrimenti essa non rinuncerebbe.
Nel codice civile vi è una norma dalla quale si ricava un generale obbligo, per la parte contrattuale, di dover conoscere gli effetti degli atti negoziali che si compiono. Si tratta dell’art. 1341 comma 1 c.c., il quale così dispone: “le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell'altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza”. Quando le clausole contrattuali siano state predisposte da Tizio, tali clausole sono efficaci, e quindi vincolanti nei riguardi di Caio, nel caso in cui risulti che quest’ultimo avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza.
Quindi si potrebbe dire: l’onere della parte di dover conoscere gli effetti di ciò che si stipula, se sussiste per le clausole le quali sono state preparate dalla controparte e che quindi non sono state concordate con la parte medesima, a maggior ragione dovrebbe sussistere quando è la parte stessa che, deliberatamente, sceglie di rinunciare all’esercizio dei propri diritti contrattuali, in quanto la rinuncia presuppone appunto una valutazione diretta, e quindi consapevole, dei pro e dei contro delle proprie scelte negoziali. Mentre, nel caso dell’art. 1341 comma 1 c.c., chi deve approfondire la liceità delle clausole apposte dalla controparte è un soggetto (ossia, la parte) che alla predisposizione delle medesime non ha mai partecipato, invece nel caso della transazione chi rinuncia è un soggetto (nell’esempio di cui sopra, Tizio) che ha partecipato attivamente, al pari della controparte, alla stipula del contratto e quindi al confezionamento di tutte le clausole atte a garantire la salvaguardia dei propri diritti.
Si presume, pertanto, in questo secondo caso, che tale soggetto abbia ormai raggiunto un adeguato grado di consapevolezza in merito all’effettiva legittimità delle proprie pretese e di quelle della controparte, e che dunque egli, rinunciando ai propri diritti, sia pressochè certo della legittimità delle richieste della controparte stessa. Quindi, in sostanza, è ragionevole presumere che la parte, nel decidere, mediante la transazione, di rinunciare ai propri diritti, non cada in un “errore di diritto”: se ciò dovesse accadere, le conseguenze rimarrebbero a suo carico, e ciò anche al fine di tutelare il ragionevole affidamento della controparte in merito alla stabilità delle situazioni giuridiche sorte dalla rinuncia.
Va, tuttavia, osservato quanto segue.
L’accordo transattivo è comunque un contratto, e pertanto anche ad esso si applica la disciplina generale dell’annullamento dei contratti, annullamento che può essere chiesto, tra l’altro, anche nel caso in cui una delle parti, al momento della stipula, sia incorsa in un “errore di diritto”, ai sensi dell’art. 1427 c.c. .
L’errore di diritto costituisce un vizio del consenso: Tizio, quando ha stipulato la transazione, pensava che Caio avesse determinati diritti, quando invece non li aveva; pertanto, il consenso che Tizio ha prestato alla transazione è stato viziato appunto da tale errore.
Ebbene, l’art. 1442 comma 2 c.c. prevede che, quando l'annullabilità dipende da vizio del consenso, il termine per proporre azione di annullamento “decorre dal giorno in cui … è stato scoperto l'errore”, mentre, quando l’annullabilità deriva da altre cause, tale termine decorre dal giorno in cui il contratto è stato stipulato.
Pertanto, la parte, quando in sede di stipula della transazione sia incorsa in un errore di diritto, può legittimamente scoprire, accertare, tale errore anche dopo che siano decorsi 5 anni dalla conclusione della transazione stessa, e pertanto essa deve ritenersi legittimata a chiedere l’annullamento della transazione entro i 5 anni da quando abbia scoperto di essere stata in errore, e non già da quando abbia stipulato quest’ultima.
Pertanto, non può essere accolta la tesi secondo cui la transazione, siccome costituisce un atto di rinuncia ai propri diritti, determina in capo alla parte rinunciante l’onere di verificare attentamente, prima della stipula, la presenza di eventuali vizi del consenso consistenti in un errore di diritto, ossia nel ritenere (erroneamente) come sussistenti i diritti della controparte. Il fatto che si tratti di un atto di rinuncia non toglie che comunque la transazione sia un contratto (anche perché essa si caratterizza per la reciprocità delle concessioni che le parti si fanno), e che quindi al negozio transattivo debbano applicarsi le norme generali in materia di decorrenza del termine per l’azione di annullamento.
Di conseguenza, l’art. 1969 c.c., il quale vieta alla parte – la quale sia incorsa in un errore di diritto – di chiedere l’annullamento della transazione per tale ragione – si sarebbe potuto giustificare solo se l’art. 1442 comma 2 c.c. avesse stabilito che, nei contratti implicanti la rinuncia all’esercizio dei propri diritti, l’annullamento per errore si deve chiedere entro 5 anni dalla conclusione del contratto, anziché dalla scoperta dell’errore.
In questo caso, effettivamente, si sarebbe potuto ricavare dall’art. 1442 comma 2 c.c. il principio generale in base al quale, in tali casi, la parte rinunciante deve accertare l’eventuale presenza di vizi del proprio consenso (errore) entro un certo termine, pena l’impossibilità di chiedere l’annullamento dopo la scadenza di tale termine, al fine di tutelare il ragionevole affidamento della controparte in merito alla stabilità delle situazioni giuridiche sorte dalla rinuncia.
Ma così non è, in quanto l’art. 1442 comma 2 c.c. non prevede tale eccezione.
Altra osservazione.
L’art. 2041 c.c. disciplina l’“arricchimento senza causa”, e prevede quanto segue: “chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.
La “giusta causa” di cui parla la norma sta ad indicare la sussistenza dei presupposti giuridici previsti per l’attribuzione del diritto all’arricchimento. Essa sta a significare non già l’esistenza di principi di ordine etico, la cui applicazione è rimessa alla sensibilità della parte contrattuale, bensì la presenza delle condizioni stabilite dalla legge affinchè un soggetto possa ricevere, dalla prestazione contrattuale fornita da un altro soggetto, determinati vantaggi patrimoniali (l’arricchimento, per l’appunto).
L’essere caduti in un “errore di diritto” – ossia l’aver ritenuto erroneamente che la controparte avesse determinati diritti contrattuali, cosa che ha indotto la parte a compiere un atto di rinuncia – ha fatto emergere la totale assenza dei presupposti giuridici previsti affinchè la controparte potesse ricevere determinati vantaggi, e quindi ha fatto accertare la mancanza della “giusta causa” di cui sopra.
Pertanto, l’art. 1969 c.c., il quale vieta alla parte – la quale sia incorsa in un errore di diritto – di chiedere l’annullamento della transazione per tale ragione – contrasta con il principio generale previsto dall’art. 2041 c.c., il quale attribuisce alla parte il diritto di far accertare dal Giudice che la controparte si è arricchita “senza una giusta causa”.