Il limite come condizione dell’essere
Il limite come condizione dell’essere
Pensieri e Riflessioni leggendo la Lettera Pastorale del Vescovo Pompili
Ho letto la Lettera Pastorale del Vescovo di Verona, Domenico Pompili, alla sua Diocesi, i cui il Vescovo scrive "Il limite non è condanna, ma vocazione".
E’ la terza lettera che il Vescovo di Verona propone ai suoi fedeli , dopo “Sul Silenzio” nel 2023, “Sulla Luce” nel 2024” ora questa terza riflessione “Sul Limite”. A legare le tre lettere in sequenza ne esce un itinerario chiaro, un monito a riscoprire l’essenza dello stare nella chiesa e nel mondo.
“Il limite non è condanna, ma vocazione”, scrive il Vescovo, proponendo una “pedagogia dell’imperfezione” che riconosce nella fragilità la condizione in cui la grazia può manifestarsi più autenticamente. “In una cultura che promette tutto subito e che pretende efficienza a ogni costo – aggiunge – oggi vivere e non censurare il limite è un’opera quasi rivoluzionaria”.
Leggendo la Lettera del Vescovo ho avuto occasione di ripensare la mia condizione di detenuto, il limite di una esistenza segnata dall’errore, dalla sconfitta, da una pena da espiare e la volontà di rimettersi in cammino. L’errore e la pena da scontare ti impongono una riflessione sul modo di essere, il modo di essere stati nei confronti degli altri. Ti impone il confronto con l’errore, con il dolore che l’errore provoca non solo nell’altro ma anche per te stesso. E’ nel dolore e nella limitazione della condizione imposta con la privazione della libertà che emerge in tutta la sua durezza il senso del limite, in questo confronto non ci sono scorciatoie non ci sono alibi, occorre andare oltre. Ma il senso del limite porta con se la sapienza del limite. E’ importante cioè essere consapevoli dei propri limiti, delle proprie fragilità. Significa avere la capacità di riconoscere i propri limiti. Accettarli. Per evitare di andare oltre e se non si è preparati, andare verso l’abisso.
Il termine “limite” deriva dalla parola latina limes ed è interessante notare come originariamente il termine stesse a indicare un sentiero, una strada delimitante due campi. Ma esso deriva anche dalla parola latina limen, ovvero soglia, ingresso. È dunque possibile cogliere una sorta di dicotomia, ambivalenza, del termine a partire dalla sua radice etimologica, la quale ci consente di non guardare al limite nella sola accezione negativa, ovvero inteso come circoscrizione, delimitazione e chiusura. Perché se da una parte la parola “limite” indica chiusura, dall’altra indica anche potenziale apertura e possibilità.
«La condizione umana è inscritta dentro dei limiti», una certezza indiscutibile, un dato antropologico, se si vuole, poiché la potenza dell’uomo non è illimitata e questi, per poter sopravvivere, è stato costretto a darsi dei limiti. La stessa convivenza è possibile grazie ai limiti che circoscrivono l’ambito di azione e di relazione: la mia libertà inizia e termina dove inizia quella del vicino.
Esiste il limite laddove si presenta una norma, tacita e non, che consente all’uomo di regolare la propria azione. Per poter sopravvivere il soggetto, quindi, ha dovuto accettare di buon grado dei limiti, ovvero il rispetto di quelle norme che gli consentono di non cadere nella dismisura e di non eccedere nel desiderio. Ma le nostre società, animate dall’ideale di eterna abbondanza e fomentate dall’iperconsumo, hanno iniziato a portare avanti una battaglia per la tutela del diritto all’illimitato godimento. Sul piano del desiderio l’uomo può oggi liberamente desiderare ciò che vuole, non esiste limite. L’etica della mesotes per praticare la moderazione è rifiutata, perché è stata sostituita con quella dell’illimitato godimento: «volli, e volli sempre, e fortissimamente volli». Ciò ha portato a negare le norme su cui si basa la società e a trasgredire ogni imperativo, tanto che oggi «la trasgressione è proclamata come un diritto, se non come un dovere»
La cultura in cui il soggetto si trova immerso è dunque una “cultura dell’efficienza”, che lo spinge a raggiungere livelli sempre più alti di efficienza proposti dalla società, la quale non ammette errori, difetti e manchevolezze.
L’uomo contemporaneo è un “uomo della prestazione”, dell’iperattività, che si affanna per realizzare se stesso, rispettando ciò che la società della performance gli richiede. La società in cui viviamo è dunque soggetta a un processo di “positivizzazione” che elimina totalmente ogni tipo di obbligo, ostacolo o divieto per l’uomo. La “società della prestazione” è una società che, per mostrarsi libera, ha eliminato la “negatività dei divieti”, «il verbo modale che caratterizza la società della prestazione non è il freudiano “dovere”, bensì il verbo “potere” . Ma dietro questa positività si cela una violenza che deriva dall’eccesso di prestazione e di comunicazione, una violenza alla quale il soggetto risponde non più con una reazione immunologica, quindi con ostilità, bensì attraverso un’abreazione digestivo-neuronale e un rifiuto.
Il delirio di onnipotenza della ragione umana sembra acuirsi e la dimostrazione più grande è data dalla volontà di superare il “limite invalicabile dell’esistenza”, la morte, segno dell’intrinseca finitezza del suo essere. La più grande esperienza del limite che il singolo, nolente o volente, è costretto a fare è quella della morte, la quale si costituisce come il “limite dei limiti”, ovvero piena incarnazione del limite nell’esperienza umana. La mortalità, difatti, è ciò che consente al soggetto di individuarsi e di concepirsi come umano. La morte diventa quindi l’essenza ontologica che determina l’essenza della vita: essa è cifra autentica della vita umana.
Il limite rappresenta il mezzo attraverso cui il soggetto riesce a cogliere la propria essenza, è una sponda esistenziale che ci consente di ricercare il significato e di accettarsi “per come si è naturalmente”. Se il limite è cifra autentica dell’umanità, la sua mancata accettazione rappresenta l’uscita dell’uomo dall’umanità. Questo è ciò che la società odierna promuove, attraverso il falso mito del perfettismo, generando una “nevrosi della perfezione” senza precedenti. Gli errori, i fallimenti, la fragilità, fanno parte della vita umana, sono elementi che scaturiscono dalla limitatezza ma che rendono l’individuo pienamente umano; accettarli in se e negli altri significa sperimentare il senso di coesione, di perdono, di solidarietà.
L’auto-accettazione, intesa come accettazione della propria finitezza e quindi della propria carenza ontologica, restituisce all’uomo la grandezza, così come ci insegna Pascal, le sue stesse miserie provocano la sua grandezza.
L’uomo non basta a se stesso, il suo è un essere relativo, ed è proprio il suo “essere ontologicamente manchevole” che lo spinge a ricercare un grado d’essere migliore. Senza la sua limitatezza, intesa come struttura della propria condizione, l’uomo non avrebbe il bisogno di trascendersi e di relazionarsi con l’“altro generico”, inteso in tutte le sue forme, di camminare insieme lungo il sentiero che conduce alla soglia-ingresso attraverso la quale si realizza una società solidale.
«Nel campo morale, l’esperienza del limite e delle situazioni-limite determina la relazione dinamica tra compiutezza dell’autodeterminazione della ragion pratica (l’uomo divino che è in noi) e la fondazione radicale della finitudine umana, della presa di coscienza dei propri limiti. Attraverso il continuo riconoscimento soggettivo dei propri limiti, l’uomo prende coscienza di se stesso e, allo stesso tempo, può tendere verso un potenziale, possibile, continuo miglioramento e superamento dei propri limiti». Il riconoscimento della finitezza umana e della natura segnata dal limite, consentono all’uomo di essere educato a una “postura morale”, di cogliere l’importanza dell’alterità, del “tu” e dell’ambiente, per poter cogliere la più grande verità circa se stesso, ovvero che «la finitudine consapevole di se stessa rimane il tratto costitutivo della specie che pensa» .