Il nuovo Codice dell’amministrazione digitale e alcune questioni di metodo
Il D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 (GU 10.01.2011, n. 6 - SO 8/L) ha apportato una fitta serie di modificazioni e di integrazioni di ampia portata al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, contenente il Codice dell’amministrazione digitale.
Va subito precisato che il testo così riformulato risulta di gran lunga più soddisfacente dei due precedenti e anzi pone rimedio ad alcune situazioni paradossali. Per dare il senso della manovra, ricordiamo che si tratta di un testo di ben 57 articoli, che ribaltano buona parte degli articoli del vecchio testo. Sicuramente un testo coordinato e aggiornato in coda, però, sarebbe stato gradito.
Non si è trattato dunque di un’operazione semplice, ma di una rivisitazione complessiva che ha migliorato senza dubbio la materia, pur lasciando qua e là refusi, rinvii sbagliati, sviste concettuali e forzature che meriterebbero di essere chiarite con maggiore efficacia e che affronteremo in altra sede a breve.
Ora, però, risulta necessario proporre al legislatore una contumacia almeno quinquennale. L’informatica nelle amministrazioni pubbliche, infatti, non si introduce attraverso norme generali, peraltro già presenti nel nostro ordinamento, ma attraverso quelle norme tecniche previste, ad esempio, ormai da alcuni anni dall’art. 71 e che ora dovrebbero uscire entro dodici mesi (art. 57, comma 16).
2. Esaustività, sistematicità e stabilità del Codice
Annotiamo, innanzitutto, la terza versione ufficiale in sei anni (2005-2010), una media di una ogni biennio, visto che il testo originario contenuto nel D.Lgs. 82/2005 era stato già modificato, a poco più di un anno di distanza e a soli tre mesi dalla sua entrata in vigore, dal D.Lgs. 4 aprile 2006, n. 159. Fu, allora, un esempio di chiara instabilità legislativa.
Abbiamo scritto “versione ufficiale” a ragion veduta, nel senso che nel corso degli ultimi cinque anni il legislatore italiano ha ripetutamente introdotto novellati inerenti all’amministrazione digitale in altri contesti legislativi o addirittura in normative secondarie, che hanno comunque apportato significative novità in materia.
Restano infatti al di fuori del Codice una pluralità di norme inserite nelle finanziarie o in normative omnibus, che hanno modificato il CAD senza incidervi ufficialmente. La normativa sulla PEC, ad esempio, si trova principalmente nel DPR 11 febbraio 2005, n. 68, ma anche negli articoli 16 e 16-bis del decreto anticrisi (convertito nella Legge 28 gennaio 2009, n. 2), nonché nel DPCM 6 maggio 2009.
Lo stesso dicasi per il sistema di gestione documentale e del protocollo informatico, che rimane enucleato (probabilmente, per fortuna) nel titolo IV in quel che resta del DPR 28 dicembre 2000, n. 445.
E, ancora: la pubblicità legale digitale, conosciuta come albo on-line, è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (articoli 32 e 67, in particolare). È entrata in vigore il 1° gennaio 2011, ma nell’assenza più totale di regole tecniche, nonostante la richiesta di proroga al 1° luglio 2011 e soprattutto nonostante una proposta di regole tecniche avanzata da ANORC (www.anorc.it).
La conseguenza è un’amministrazione digitale fai-da-te, il disorientamento tra gli operatori, alcune soluzioni organizzative affrettate e i principi di efficacia dell’azione amministrativa che in ambiente digitale faticano ad essere compresi, se non di rado sacrificati in nome dell’efficienza e dell’applicazione formalistica di una norma che meriterebbe ben altra sorte [G. Penzo Doria, L’informaticrazia e il Codice dell’amministrazione digitale, «AIDAInformazioni», XXIV/3-4 (2006), pp. 81-97; ripubblicato e aggiornato come ID., L’informaticrazia e il Codice dell’amministrazione digitale, in Le carte future, La gestione della sicurezza dei documenti e degli operatori d’archivio: riflessioni e proposte a trent’anni dal terremoto del Friuli, Trieste, ANAI Friuli Venezia Giulia, 2008, pp. 43-59].
Si tratta di un indubbio effetto nocebo, perché le continue modifiche e il persistere dell’assenza di regole tecniche portano inevitabilmente al differimento della sua applicazione concreta, come in realtà è avvenuto.
Infatti, l’instabilità del quadro normativo provoca in chi deve applicarlo o farlo applicare una disaffezione che scaturisce dall’inaffidabilità intrinseca. A riprova, basti pensare al solo fatto che anche il quadro sulle firme elettroniche è mutato sei volte in poco più di dieci anni [Rinvio, in questa stessa rivista a: G. Penzo Doria, La firma elettronica del quinto tipo].
Da ciò consegue il fatto che il CAD non è più un “Codice” in senso strettamente giuridico. Il Consiglio di Stato, Parere 30 gennaio 2006, n. 31, § 2, dunque, descrive un codice come una norma complessa che deve essere strutturalmente e ontologicamente votata all’esaustività, alla sistematicità e alla stabilità.
Partiamo da quest’ultima. Nel presentare il nuovo CAD, il Ministero ha pubblicato sul sito informatico alcune slides. Premesso che le slides in luogo del testo normativo approvato (nel caso di specie, il 19 febbraio 2010), per giunta prive di data, sono un segno di trasparenza mediocre, vi si trova testualmente scritto: «Le tecnologie informatiche si sono evolute con una tale rapidità da rendere necessaria l’approvazione di un nuovo testo normativo».
Questo rappresenta l’errore metodologico più grave, perché la normativa dovrebbe sempre astenersi dal regolare la tecnologia, dal momento che i piani concettuali e fattuali sono profondamente distinti. La prima, infatti, dovrebbe tendere alla stabilità, la seconda tende per vocazione all’esatto contrario, altrimenti non avremmo l’altra faccia dell’obsolescenza tecnologica che è il progresso.
In buona sostanza, non si può ingabbiare l’informatica in una norma, ma anzi, proprio in adesione al principio comunitario della neutralità della norma rispetto alla tecnologia, si rende necessaria una norma di principio generalista e mai generica. Infatti, come è stato ampiamente dimostrato negli ultimi anni dai provvedimenti sulla conservazione sostitutiva, da AIPA prima e da CNIPA poi, appena una norma “tecnologica” viene pubblicata in Gazzetta ufficiale diviene di conseguenza già vecchia e superata dalla tecnologia stessa, che avanza a una velocità di anni luce superiore a quella del legislatore.
Qualora continuassimo in questo accanimento normativo, saremmo di fronte a un insieme magmatico di norme sempre più stratificatesi nel tempo e che risentirebbe, per forza di cose e indipendentemente dalla volontà del legislatore, di una mancanza di una visione globale e sincronica dell’amministrazione digitale.
Non servono più, dunque, nuove rivisitazioni del Codice, nonostante qualche ritocco indispensabile, ma il varo di norme tecniche e applicative. Quest’ultime non dovranno essere calate dall’alto, ma riviste insieme agli operatori del settore, a chi si occupa di diritto dell’informatica e di informatica giuridica, di archivistica e di diplomatica, di informatica generale e di diritto nel senso più ampio. Né va dimenticato il ruolo delle associazioni che permettono con i loro contributi di far attecchire le nuove tecnologie nelle amministrazioni pubbliche e che in questi anni hanno svolto un ruolo determinante per la disseminazione dell’amministrazione digitale applicata con rigore metodologico.
3. Tre nodi irrisolti e il nuovo ruolo di DigitPA
Al di là di precisazioni più o meno puntuali, questa riforma lascia sul tappeto tre nodi irrinunciabili per la riforma digitale collegati alla conservazione affidabile di documenti. Si badi: di documenti, non di informazioni, né di comunicazioni.
Essi riguardano la corretta individuazione di 1) modelli concettuali, 2) metadati e 3) formati idonei alla conservazione affidabile a lungo termine.
Mi riferisco ad esempio ai modelli e ai progetti Open archival information system (ISO 14721:2003), InterPares, Moreq, Premis, Mets, Pronom, Global Digital Format Registry, DROID, etc., dei quali non vi è traccia nella nostra regolamentazione tecnica, nonostante l’inerte riferimento al «processo di standardizzazione tecnologica a livello internazionale», contenuto proprio nell’art. 71 [Una delle poche eccezioni è rappresentata da CIVIT - Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, Deliberazione 23 settembre 2010, n. 105, Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (articolo 13, comma 6, lettera e, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150), nella quale si fa riferimento ai metadati previsti dallo standard Dublin Core (ISO 15836:2003)].
Chi vigilerà sull’amministrazione digitale italiana, DigitPA? Il CAD gli affida formalmente ruoli strategici, ma pare sovrastato dall’infatuazione del ministro per DDI e progressivamente esautorato dalla trasformazione da Autorità a Centro nazionale e ora a ente pubblico non economico.
A mio parere, serve al nostro Paese un’“autorità garante” com’era AIPA, indipendente e forte, ma soprattutto - cose sulle quali avrebbe dovuto migliorare la stessa AIPA - aperta e permeabile al confronto interdisciplinare e multidisciplinare.
In questo potrebbe tornare a trasformarsi DigitPA, perché si tratta di un soggetto imprescindibile per la rivoluzione dell’amministrazione digitale, che non possiamo dimenticare in un angolo, ma che anzi dovrebbe essere riqualificato ridefinendogli un ruolo che preveda prima di tutto la terzietà e il controllo su tutta l’amministrazione pubblica, nessuno escluso.
Purtroppo, non va in questa direzione la previsione dell’art. 2, comma 6, soprattutto per quel che riguarda i “limiti”: «Con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, tenuto conto delle esigenze derivanti dalla natura delle proprie particolari funzioni, sono stabiliti le modalità, i limiti ed i tempi di applicazione delle disposizioni del presente Codice alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché all’Amministrazione economico-finanziaria»; né l’art. 56, comma 21, che prevede un altro DPCM per determinare «i limiti e le modalità di applicazione delle disposizioni dei titoli II e III del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, al personale del Ministero dell’economia e delle finanze e delle Agenzie fiscali».
La prima regola aurea, viceversa, è quella di dimostrare che l’innovazione funziona applicandola a se stessi, senza ricorrere al richiamo di “particolari funzioni” che ogni amministrazione pubblica ha di per sé e senza eccezioni.
Così agendo, invece, si mina la credibilità di un sistema ancora acerbo e da alcuni ancorato tuttora alla replica del mondo cartaceo nel mondo digitale, che in molti casi ancora non c’è, né mai ci potrà essere. Mi riferisco, ad esempio, alle quattro nuove definizioni di exemplum introdotte nell’art. 1 alle lettere i-bis, i-ter, i-quater e i-quinquies, laddove vengono sistematicamente confusi i contenuti con i documenti. Mi riferisco ancora all’art. 25, comma 2, sulla firma autenticata, laddove la firma elettronica viene equiparata all’acquisizione digitale della firma autografa. È pur vero che esiste già nel nostro ordinamento a causa della recentissima modifica introdotta dall’art. 52-bis della legge notarile (legge 16 febbraio 1913, n. 89), ma siamo di fronte a un’operazione che fa passi incerti sul fronte dell’innovazione (ritorneremo a breve su questo tema molto complesso).
Insomma, il digitale può essere ibrido, ma mai promiscuo. Il volere a tutti costi introdurre il digitale attraverso meccanismi collaudati in ambito tradizionale alla fine finirà con il risultare un’arma a doppio taglio che non gioverà ad alcuno, men che meno all’amministrazione digitale.
Da ultimo, purtroppo, non va nemmeno in questa direzione la previsione dell’art. 57, comma 19, che recita: «DigitPA e le altre amministrazioni pubbliche interessate provvedono all’attuazione del presente decreto legislativo con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
È il solito problema: grandi princìpi che cozzano con lo zero assoluto dei finanziamenti. Invece, l’innovazione costa e va messa in conto, anche in quello economico. Si tratta di investimenti iniziali che, a parità di efficacia, hanno però un loro ritorno in termini di efficienza e di economicità. Viceversa, avremmo da un lato una realtà normativa e contestualmente dall’altro l’impossibilità di applicarla, come del resto avverrà per la premialità del pubblico impiego, che sta per essere affossata dalla mancanza di risorse economiche. Non ritengo si voglia questo davvero, ma gli indizi appena indicati vanno purtroppo in questa direzione. E tre indizi fanno una prova.
Il D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 (GU 10.01.2011, n. 6 - SO 8/L) ha apportato una fitta serie di modificazioni e di integrazioni di ampia portata al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, contenente il Codice dell’amministrazione digitale.
Va subito precisato che il testo così riformulato risulta di gran lunga più soddisfacente dei due precedenti e anzi pone rimedio ad alcune situazioni paradossali. Per dare il senso della manovra, ricordiamo che si tratta di un testo di ben 57 articoli, che ribaltano buona parte degli articoli del vecchio testo. Sicuramente un testo coordinato e aggiornato in coda, però, sarebbe stato gradito.
Non si è trattato dunque di un’operazione semplice, ma di una rivisitazione complessiva che ha migliorato senza dubbio la materia, pur lasciando qua e là refusi, rinvii sbagliati, sviste concettuali e forzature che meriterebbero di essere chiarite con maggiore efficacia e che affronteremo in altra sede a breve.
Ora, però, risulta necessario proporre al legislatore una contumacia almeno quinquennale. L’informatica nelle amministrazioni pubbliche, infatti, non si introduce attraverso norme generali, peraltro già presenti nel nostro ordinamento, ma attraverso quelle norme tecniche previste, ad esempio, ormai da alcuni anni dall’art. 71 e che ora dovrebbero uscire entro dodici mesi (art. 57, comma 16).
2. Esaustività, sistematicità e stabilità del Codice
Annotiamo, innanzitutto, la terza versione ufficiale in sei anni (2005-2010), una media di una ogni biennio, visto che il testo originario contenuto nel D.Lgs. 82/2005 era stato già modificato, a poco più di un anno di distanza e a soli tre mesi dalla sua entrata in vigore, dal D.Lgs. 4 aprile 2006, n. 159. Fu, allora, un esempio di chiara instabilità legislativa.
Abbiamo scritto “versione ufficiale” a ragion veduta, nel senso che nel corso degli ultimi cinque anni il legislatore italiano ha ripetutamente introdotto novellati inerenti all’amministrazione digitale in altri contesti legislativi o addirittura in normative secondarie, che hanno comunque apportato significative novità in materia.
Restano infatti al di fuori del Codice una pluralità di norme inserite nelle finanziarie o in normative omnibus, che hanno modificato il CAD senza incidervi ufficialmente. La normativa sulla PEC, ad esempio, si trova principalmente nel DPR 11 febbraio 2005, n. 68, ma anche negli articoli 16 e 16-bis del decreto anticrisi (convertito nella Legge 28 gennaio 2009, n. 2), nonché nel DPCM 6 maggio 2009.
Lo stesso dicasi per il sistema di gestione documentale e del protocollo informatico, che rimane enucleato (probabilmente, per fortuna) nel titolo IV in quel che resta del DPR 28 dicembre 2000, n. 445.
E, ancora: la pubblicità legale digitale, conosciuta come albo on-line, è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (articoli 32 e 67, in particolare). È entrata in vigore il 1° gennaio 2011, ma nell’assenza più totale di regole tecniche, nonostante la richiesta di proroga al 1° luglio 2011 e soprattutto nonostante una proposta di regole tecniche avanzata da ANORC (www.anorc.it).
La conseguenza è un’amministrazione digitale fai-da-te, il disorientamento tra gli operatori, alcune soluzioni organizzative affrettate e i principi di efficacia dell’azione amministrativa che in ambiente digitale faticano ad essere compresi, se non di rado sacrificati in nome dell’efficienza e dell’applicazione formalistica di una norma che meriterebbe ben altra sorte [G. Penzo Doria, L’informaticrazia e il Codice dell’amministrazione digitale, «AIDAInformazioni», XXIV/3-4 (2006), pp. 81-97; ripubblicato e aggiornato come ID., L’informaticrazia e il Codice dell’amministrazione digitale, in Le carte future, La gestione della sicurezza dei documenti e degli operatori d’archivio: riflessioni e proposte a trent’anni dal terremoto del Friuli, Trieste, ANAI Friuli Venezia Giulia, 2008, pp. 43-59].
Si tratta di un indubbio effetto nocebo, perché le continue modifiche e il persistere dell’assenza di regole tecniche portano inevitabilmente al differimento della sua applicazione concreta, come in realtà è avvenuto.
Infatti, l’instabilità del quadro normativo provoca in chi deve applicarlo o farlo applicare una disaffezione che scaturisce dall’inaffidabilità intrinseca. A riprova, basti pensare al solo fatto che anche il quadro sulle firme elettroniche è mutato sei volte in poco più di dieci anni [Rinvio, in questa stessa rivista a: G. Penzo Doria, La firma elettronica del quinto tipo].
Da ciò consegue il fatto che il CAD non è più un “Codice” in senso strettamente giuridico. Il Consiglio di Stato, Parere 30 gennaio 2006, n. 31, § 2, dunque, descrive un codice come una norma complessa che deve essere strutturalmente e ontologicamente votata all’esaustività, alla sistematicità e alla stabilità.
Partiamo da quest’ultima. Nel presentare il nuovo CAD, il Ministero ha pubblicato sul sito informatico alcune slides. Premesso che le slides in luogo del testo normativo approvato (nel caso di specie, il 19 febbraio 2010), per giunta prive di data, sono un segno di trasparenza mediocre, vi si trova testualmente scritto: «Le tecnologie informatiche si sono evolute con una tale rapidità da rendere necessaria l’approvazione di un nuovo testo normativo».
Questo rappresenta l’errore metodologico più grave, perché la normativa dovrebbe sempre astenersi dal regolare la tecnologia, dal momento che i piani concettuali e fattuali sono profondamente distinti. La prima, infatti, dovrebbe tendere alla stabilità, la seconda tende per vocazione all’esatto contrario, altrimenti non avremmo l’altra faccia dell’obsolescenza tecnologica che è il progresso.
In buona sostanza, non si può ingabbiare l’informatica in una norma, ma anzi, proprio in adesione al principio comunitario della neutralità della norma rispetto alla tecnologia, si rende necessaria una norma di principio generalista e mai generica. Infatti, come è stato ampiamente dimostrato negli ultimi anni dai provvedimenti sulla conservazione sostitutiva, da AIPA prima e da CNIPA poi, appena una norma “tecnologica” viene pubblicata in Gazzetta ufficiale diviene di conseguenza già vecchia e superata dalla tecnologia stessa, che avanza a una velocità di anni luce superiore a quella del legislatore.
Qualora continuassimo in questo accanimento normativo, saremmo di fronte a un insieme magmatico di norme sempre più stratificatesi nel tempo e che risentirebbe, per forza di cose e indipendentemente dalla volontà del legislatore, di una mancanza di una visione globale e sincronica dell’amministrazione digitale.
Non servono più, dunque, nuove rivisitazioni del Codice, nonostante qualche ritocco indispensabile, ma il varo di norme tecniche e applicative. Quest’ultime non dovranno essere calate dall’alto, ma riviste insieme agli operatori del settore, a chi si occupa di diritto dell’informatica e di informatica giuridica, di archivistica e di diplomatica, di informatica generale e di diritto nel senso più ampio. Né va dimenticato il ruolo delle associazioni che permettono con i loro contributi di far attecchire le nuove tecnologie nelle amministrazioni pubbliche e che in questi anni hanno svolto un ruolo determinante per la disseminazione dell’amministrazione digitale applicata con rigore metodologico.
3. Tre nodi irrisolti e il nuovo ruolo di DigitPA
Al di là di precisazioni più o meno puntuali, questa riforma lascia sul tappeto tre nodi irrinunciabili per la riforma digitale collegati alla conservazione affidabile di documenti. Si badi: di documenti, non di informazioni, né di comunicazioni.
Essi riguardano la corretta individuazione di 1) modelli concettuali, 2) metadati e 3) formati idonei alla conservazione affidabile a lungo termine.
Mi riferisco ad esempio ai modelli e ai progetti Open archival information system (ISO 14721:2003), InterPares, Moreq, Premis, Mets, Pronom, Global Digital Format Registry, DROID, etc., dei quali non vi è traccia nella nostra regolamentazione tecnica, nonostante l’inerte riferimento al «processo di standardizzazione tecnologica a livello internazionale», contenuto proprio nell’art. 71 [Una delle poche eccezioni è rappresentata da CIVIT - Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, Deliberazione 23 settembre 2010, n. 105, Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (articolo 13, comma 6, lettera e, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150), nella quale si fa riferimento ai metadati previsti dallo standard Dublin Core (ISO 15836:2003)].
Chi vigilerà sull’amministrazione digitale italiana, DigitPA? Il CAD gli affida formalmente ruoli strategici, ma pare sovrastato dall’infatuazione del ministro per DDI e progressivamente esautorato dalla trasformazione da Autorità a Centro nazionale e ora a ente pubblico non economico.
A mio parere, serve al nostro Paese un’“autorità garante” com’era AIPA, indipendente e forte, ma soprattutto - cose sulle quali avrebbe dovuto migliorare la stessa AIPA - aperta e permeabile al confronto interdisciplinare e multidisciplinare.
In questo potrebbe tornare a trasformarsi DigitPA, perché si tratta di un soggetto imprescindibile per la rivoluzione dell’amministrazione digitale, che non possiamo dimenticare in un angolo, ma che anzi dovrebbe essere riqualificato ridefinendogli un ruolo che preveda prima di tutto la terzietà e il controllo su tutta l’amministrazione pubblica, nessuno escluso.
Purtroppo, non va in questa direzione la previsione dell’art. 2, comma 6, soprattutto per quel che riguarda i “limiti”: «Con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, tenuto conto delle esigenze derivanti dalla natura delle proprie particolari funzioni, sono stabiliti le modalità, i limiti ed i tempi di applicazione delle disposizioni del presente Codice alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché all’Amministrazione economico-finanziaria»; né l’art. 56, comma 21, che prevede un altro DPCM per determinare «i limiti e le modalità di applicazione delle disposizioni dei titoli II e III del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, al personale del Ministero dell’economia e delle finanze e delle Agenzie fiscali».
La prima regola aurea, viceversa, è quella di dimostrare che l’innovazione funziona applicandola a se stessi, senza ricorrere al richiamo di “particolari funzioni” che ogni amministrazione pubblica ha di per sé e senza eccezioni.
Così agendo, invece, si mina la credibilità di un sistema ancora acerbo e da alcuni ancorato tuttora alla replica del mondo cartaceo nel mondo digitale, che in molti casi ancora non c’è, né mai ci potrà essere. Mi riferisco, ad esempio, alle quattro nuove definizioni di exemplum introdotte nell’art. 1 alle lettere i-bis, i-ter, i-quater e i-quinquies, laddove vengono sistematicamente confusi i contenuti con i documenti. Mi riferisco ancora all’art. 25, comma 2, sulla firma autenticata, laddove la firma elettronica viene equiparata all’acquisizione digitale della firma autografa. È pur vero che esiste già nel nostro ordinamento a causa della recentissima modifica introdotta dall’art. 52-bis della legge notarile (legge 16 febbraio 1913, n. 89), ma siamo di fronte a un’operazione che fa passi incerti sul fronte dell’innovazione (ritorneremo a breve su questo tema molto complesso).
Insomma, il digitale può essere ibrido, ma mai promiscuo. Il volere a tutti costi introdurre il digitale attraverso meccanismi collaudati in ambito tradizionale alla fine finirà con il risultare un’arma a doppio taglio che non gioverà ad alcuno, men che meno all’amministrazione digitale.
Da ultimo, purtroppo, non va nemmeno in questa direzione la previsione dell’art. 57, comma 19, che recita: «DigitPA e le altre amministrazioni pubbliche interessate provvedono all’attuazione del presente decreto legislativo con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
È il solito problema: grandi princìpi che cozzano con lo zero assoluto dei finanziamenti. Invece, l’innovazione costa e va messa in conto, anche in quello economico. Si tratta di investimenti iniziali che, a parità di efficacia, hanno però un loro ritorno in termini di efficienza e di economicità. Viceversa, avremmo da un lato una realtà normativa e contestualmente dall’altro l’impossibilità di applicarla, come del resto avverrà per la premialità del pubblico impiego, che sta per essere affossata dalla mancanza di risorse economiche. Non ritengo si voglia questo davvero, ma gli indizi appena indicati vanno purtroppo in questa direzione. E tre indizi fanno una prova.