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Il patto di famiglia: tipo contrattuale e forma negoziale

[Relazione tenuta alla Giornata di studio organizzata dall’Associazione sindacale dei Notai delle Tre Venezie a Mestre il 1° aprile 2006 dal titolo: ”Novità legislative di interesse notarile:atto di destinazione e trust- Patti di famiglia”]

INDICE:

1. Il patto di famiglia per l’impresa: eccezionalità e specialità della Novella n.55/2006.

2. La ratio della nuova normativa.

3. La causa familiae ed il tipo contrattuale del patto di famiglia: negozio non divisorio (art.734-bis) ma traslativo di quota ereditaria (art.768-bis).

4. Le diverse tipologie proposte per il patto di famiglia:

a) donazione.

5. Segue:

b) donazione modale;

c) negotium mixtum cum donatione.

6. Segue:

d) divisio inter liberos;

e) contratto a favore di terzo.

7. I soggetti del contratto e l’obbligo di partecipazione. La facoltà di rappresentanza.

8. Le due fasi attributivo-distributive del patto di famiglia:

a) inter vivos.

9. Segue:

b) mortis causa.

10. La forma del patto di famiglia.

1. Il patto di famiglia per l’impresa: eccezionalità e specialità della Novella n.55/2006.

Il nuovo contratto, introdotto nel codice civile dalla Legge 14 febbraio 2006, n.55 inserendo dopo l’art.768 sette nuovi articoli (dal bis all’octies), rappresenta innanzitutto un’eccezione al divieto di patti successori, stabilito dall’art.458 c.c., al cui testo è stato premesso l’inciso “Fatto salvo quanto disposto dagli artt.768-bis e seguenti.” Ci troviamo di fronte ad una normativa eccezionale e non speciale, in quanto deroga norme generali quali l’art.458 citato e gli artt. 553 ss. (azione di riduzione) e 737 ss. (collazione), con tutte le relative conseguenze in tema di interpretazione analogica.

Il patto di famiglia viene definito dal legislatore, all’art.768-bis, come il “contratto” con cui l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda ed il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più discendenti. Ne risulta quindi escluso il professionista, che intenda lasciare il proprio studio al figlio o al nipote ex filio che segue le sue orme.

Il requisito soggettivo dell’esercizio dell’attività di impresa, intesa nella duplice forma di proprietà reale o di governance, di patrimonio statico o di patrimonio dinamico, requisito richiesto nel soggetto che trasferisce l’azienda o le partecipazioni societarie,[1] che denominerò trasferente, porta ad escludere che con questo nuovo contratto si possano trasferire partecipazioni sociali di investimento o di godimento. Secondo logica ermeneutica, infatti, l’inciso di cui all’art.768-bis, (l’imprenditore trasferisce, “in tutto o in parte”), ripetuto sia per l’azienda che per le partecipazioni societarie, conferma che ad uno o più discendenti con capacità manageriali ed attuatorie sarà trasferita la gestione dell’impresa di famiglia e agli altri legittimari potranno essere attribuite (mediante cessioni, che beneficeranno anche della neutralità fiscale) le quote o le azioni che non compromettono la governance. Fornendo, così, una logica spiegazione ad un’altra previsione normativa di difficile interpretazione, quella della facoltà di rinuncia alla liquidazione (art.768-quater, comma 2) che, altrimenti, troverebbe applicazione concreta solo nel caso del coniuge dell’imprenditore che sia anche il genitore dei legittimari.

Insisto sul fatto che il negozio attributivo delle quote o delle azioni agli altri legittimari, al fine di perequare la distribuzione del pacchetto di quote o di azioni della società di famiglia, debba essere una cessione, e non una donazione, perché le donazioni fatte dall’imprenditore agli altri legittimari rientrerebbero nella disciplina generale e quindi sarebbero soggette a riduzione, da parte dello stesso beneficiario dell’impresa o dei legittimari sopravvenuti (secondo coniuge o figli di secondo letto), con valutazione all’epoca dell’apertura della successione dell’imprenditore, e non all’epoca della stipulazione del patto di famiglia; e ciò, anche nell’ipotesi di rinuncia alla liquidazione contenuta nel patto di famiglia stesso.

Il patto presuppone perciò, come legittimazione soggettiva al contratto stesso, che il trasferente sia un imprenditore e l’accipiens un discendente in linea retta. La deroga al divieto dei patti successori che rende lecito questo patto, a mio avviso dispositivo più che istitutivo, si giustifica, quindi, solo nell’ottica di un interesse primario, quale è quello della funzione sociale dell’impresa, in particolare dell’impresa di famiglia stante la sua notevole rilevanza economica e sociale[2], al mantenimento non tanto della ricchezza quanto della produttività aziendale nella successione dell’imprenditore.[3]

2. La ratio della nuova normativa

Mi ero già chiesta, trattando dello scioglimento parziale della comunione legale,[4] limitato cioè alla sola azienda coniugale, se quell’accordo dei coniugi avente ad oggetto l’azienda (art.191, comma 2, c.c.), fosse un patto di famiglia od un patto d’impresa. E ciò, stante l’evidente prevalenza data dal legislatore, con la previsione dello scioglimento consensuale della comunione relativo alla sola azienda, agli interessi produttivi dell’impresa, rispetto - e perfino contro - quelli del singolo coniuge non assegnatario, al quale viene riconosciuto un diritto di credito pari al valore della quota in comunione.

L’estromissione dalla comunione legale dell’azienda coniugale costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi (art.177, lett. d) c.c.), decisa “per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art.162” (art.191, comma 2, c.c.), vale a dire mediante una convenzione coniugale, con conseguente attribuzione in titolarità esclusiva ad un coniuge, assolve ad una funzione propria del patto di famiglia. Serve, infatti, a salvaguardare la famiglia dal rischio derivante dalla gestione di impresa e, nel caso di separazione dei coniugi, a garantire l’adempimento dei doveri e degli obblighi nei confronti del coniuge non assegnatario, ove abbia diritto al mantenimento, e della prole.[5] Realizza, perciò, una sistemazione concordata e non forzosa degli assetti familiari, come tale rimessa all’autonomia privata dei coniugi.

Il precludere alla (com)proprietà di interferire con le esigenze d’unitarietà ed univocità proprie dell’impresa e della gestione produttiva dei beni aziendali,[6] è, invece, tipico del patto d’impresa, onde la soluzione che avevo ipotizzato a proposito dell’accordo previsto dall’art.191, comma 2, c.c. era che fosse un “patto di famiglia per l’impresa”, realizzato mediante una convenzione coniugale, redatta per atto pubblico e con la presenza dei testimoni, al fine di evitare che lo smembramento dell’azienda influisse negativamente sull’attività produttiva, danneggiando di conseguenza la famiglia e la prole.

La difficoltà di contemperare le due figure del patto di famiglia e del patto d’impresa era stata ben presente al gruppo di lavoro coordinato da Antonio Masi e Pietro Rescigno che si proponeva di studiare una riforma dei patti successori [7] e di dare una sistemazione razionale alle c.d. successioni anomale,[8] il cui scopo, per lo più, è quello di assicurare una continuità gestionale dell’impresa.

Le partecipazioni societarie erano state escluse dall’ambito operativo del patto di famiglia, riservato alla sola azienda, ed incluse nel patto di impresa,[9] patto la cui autonomia è oggi irrilevante, con riguardo alle sole partecipazioni societarie, stante le specifiche soluzioni offerte dal nuovo diritto societario con apposite clausole successorie (es. art. 2355-bis); clausole che, peraltro, anche in passato, il buon notaio non mancava di elaborare nell’ingegneria della trasmissione mortis causa dell’attività d’impresa.[10] E ciò, al fine di evitare quella che è stata chiamata la “deriva generazionale delle imprese”, vale a dire quel fenomeno per cui oggi solo il 50% delle imprese italiane è gestita da un figlio del fondatore e solo il 30% dal nipote ex filio. Fenomeno, questo, rilevato anche dal legislatore europeo[11] e di cui è stato, da sempre, consapevole il nostro legislatore in materia agraria, che ha cercato, con successo, di arginarlo per la successione dell’azienda agricola. Dapprima, utilizzando lo strumento del diritto di prelazione con efficacia reale nei confronti anche dell’avente causa, da ultimo, consentendo l’attribuzione preferenziale dell’azienda ex lege ad un erede (non necessariamente legittimario) che abbia determinati requisiti soggettivi e la richieda, con l’obbligo di compensare in denaro gli altri eredi;[12] e ciò, perfino nel caso che l’azienda sia l’unico bene del defunto imprenditore,

Il legislatore della Novella n.55/2006 ha inteso risolvere il problema introducendo, con un’espressa deroga al divieto di patti successori, la possibilità di trasmettere per atto inter vivos l’azienda o la governance della stessa al discendente (figlio o nipote ex filio) che più abbia attitudini manageriali. Garantendo la “blindatura” del patto di famiglia con espresse deroghe al regime successorio ed alla disciplina generale dei contratti, nonché con il ricorso alla tecnica dell’Alternative Disputations Regulation (A.D.R.), vale a dire della conciliazione preventiva dinanzi agli organismi previsti dall’art.38 del D. Lgs.17 gennaio 2003, n.5; e prevedendo, come già aveva fatto il legislatore della Riforma del diritto di famiglia nella Novella n.151/75, all’art.184, comma 2, c. c., per gli atti compiuti da un coniuge in regime di comunione legale senza il necessario consenso dell’altro, un termine brevissimo (1 anno) di prescrizione per l’impugnativa del patto di famiglia da parte dei legittimari non soddisfatti o sopravvenuti (artt.768-quinquies, comma 2 e 768-sexies, comma 2).

Il fatto che l’impugnativa può avvenire solo per vizi della volontà potrebbe ravvisare un’analogia con quanto dispone l’art. 789 c.c., in caso di inadempimento del donante o di ritardo nell’eseguire la prestazione, sancendone la responsabilità “soltanto per dolo o per colpa grave”.

3. La causa familiae ed il tipo contrattuale del patto di famiglia: negozio non divisorio (art.734-bis) ma traslativo di quota ereditaria (art.768-bis).

Il patto di famiglia, è, quindi, per espressa definizione legislativa, un contratto, ancorché venga denominato patto:[13] non una convenzione, nonostante quest’ultimo sia il termine più utilizzato nell’ambito del diritto di famiglia e delle successioni,[14] basti pensare alle convenzioni coniugali ed ai patti successori che l’art. 458 definisce “convenzioni”. Un contratto che sfugge, in quanto tale, alle regole successorie delle attribuzioni effettuate ai legittimari inter vivos (collazione e riduzione delle donazioni) ma anche alla disciplina generale dei contratti. Non è prevista, infatti, l’applicabilità delle regole sulla risoluzione del contratto, sulla rescissione, sulla simulazione, ma ne è concessa (art.768-quater) solo l’impugnativa, ai fini dell’annullabilità del patto per vizi della volontà, ai sensi dell’art.1427 c.c. e seguenti.[15]

Prima facie, se ne deduce che il nuovo contratto non è tipico, ma nominato,[16] nel senso che il legislatore ha istituito il nomen di patto di famiglia, disciplinando un contratto speciale di cessione dell’azienda o della governance della stessa, ma lo ha sottratto poi, per la specialità del diritto di famiglia e di quello delle successioni, alla tipologia del contratto, conferendogli una disciplina eccezionale. Non è arrivato, tuttavia, ad attribuirgli una causa unitaria, stante la funzione di regolamentare il futuro assetto successorio dell’azienda o della governance, utilizzando quella causa familiae da tempo individuata dalla dottrina.

Invero, solo nell’ottica della causa familiae era ipotizzabile l’inserimento della nuova normativa del patto di famiglia tra gli strumenti a disposizione del testatore per realizzare un’assegnazione preferenziale dei beni o delle partecipazioni societarie oggetto di attività produttiva, in particolare tra le norme sulla divisione del testatore (artt. 733 e 734 c.c.). Nella sistematica del Gruppo di Lavoro Masi-Rescigno, infatti, il patto era stato collocato come art. 734-bis e giustamente si parlava di “assegnazione” e non di trasferimento. La corresponsione di una somma in denaro, dovuta dal discendente assegnatario ai legittimari non assegnatari (salvo la loro rinunzia totale o parziale) altro non era che un conguaglio, costruito sulla base di quanto disposto dall’art.720 c.c . per gli immobili indivisibili.

La causa familiae avrebbe potuto consentire perfino che questo conguaglio, che l’art.768- quater prevede possa esser fatto, convenzionalmente, anche in natura, fosse operato dallo stesso imprenditore o dal coniuge, con beni propri, superando così la problematica fiscale delle masse plurime, in virtù di una sistemazione contrattuale generale degli assetti familiari. Sarebbe stato necessario, però, abrogare il divieto di patti successori, al fine di istituire l’accesso all’eredità “per contratto”.

Ciò non è avvenuto, anche se il divieto ha ricevuto una potente spallata, e l’art. 734-bis ha mutato sistemazione, divenendo 768-bis. E’ stato cioè posizionato dopo la norma che prevede l’alienazione della porzione ereditaria, dalla quale ha mutuato il linguaggio. Il coerede che ha alienato la propria quota ereditario o parte di essa, non è ammesso ad impugnare la divisione per dolo o per violenza, se l’alienazione è avvenuta dopo che il dolo è stato scoperto o la violenza è cessata (art.768, comma 1, c.c.): e questo giustifica il termine di prescrizione previsto dall’art.768-quinquies. L’impugnativa del patto di famiglia per errore, violenza o dolo è infatti limitata ad un anno dalla data di stipula del patto (e non già dalla trascrizione dello stesso perché legittimati ad impugnare sono solo ed esclusivamente i legittimari che vi hanno partecipato o quelli che non vi hanno partecipato perché all’epoca non erano tali).

4. Le diverse tipologie proposte per il patto di famiglia: a) donazione.

Questo inserimento sistematico della disciplina del patto di famiglia dopo la norma sull’alienazione della quota ereditaria esclude, a mio avviso, che il nuovo contratto sia una donazione, in quanto l’imprenditore non è spinto all’attribuzione (rectius trasferimento) dell’azienda dall’animus donandi bensì, mi si passi l’espressione, dall’animus producendi, nel senso che è alla produttività ed al futuro sviluppo dell’impresa che egli guarda, non all’arricchimento del singolo legittimario. La causa di liberalità non è, quindi, preponderante nel senso che se è vero che l’imprenditore non riceve un corrispettivo dal trasferimento, è pur vero che soddisfa un proprio interesse primario, quello di non veder venduta o comunque disintegrata l’impresa alla quale ha dedicato tutta la sua vita lavorativa.

Né può negarsi che la ragione economica del “dono” influisca sulla causa del patto di famiglia, realizzandosi entrambe le due condizioni indicate dalla dottrina per qualificare l’interesse patrimoniale negli atti gratuiti non liberali[17]: e precisamente che esso costituisca il fondamento dell’operazione giuridico-economica, la sua funzione principale[18] e che la ragione economica, connessa alla conclusione del relativo negozio, sia contestualmente perseguita. Vale a dire che venga a realizzarsi la connessione tra l’atto di attribuzione e lo scopo di promozione dei propri interessi economici.

La donazione, inoltre, può essere revocata per sopravvenienza di figli, mentre il patto di famiglia può essere impugnato solo per errore, violenza e dolo, purché nel termine di un anno; può essere sciolto o modificato per mutuo dissenso; può divenire non (più) opponibile al contraente che eserciti il recesso (art. 768-septies), ove però il contratto lo preveda “espressamente.”

5. Segue: b) donazione modale; c) negotium mixtum cum donatione.

Poiché le attribuzioni mortis causa, sia a titolo universale che particolare, sono a titolo gratuito ed anche nella donazione l’onere non può “impoverire” il donatario oltre una certa misura, essendo questi tenuto all’adempimento “entro i limiti del valore della cosa donata” (art. 793, comma 2, c.c.), sembrerebbe difficile negare la natura di atto a titolo gratuito all’attribuzione dell’azienda o della governance realizzata mediante il patto di famiglia. Anche se ciò non significa che sia una donazione, semmai un atto di liberalità ex art. 809 c.c. Si potrebbe dire, però, che è una donazione modale, in quanto il donatario deve soddisfare il modus di liquidare gli altri legittimari, ma anche questo non è esatto, perché in caso di inadempimento non si applica la disciplina degli artt. 648 o 793 c.c., ma quella espressamente dettata dall’art. 768-sexies.

Una soluzione prospettata, che contempera entrambe le posizioni, è che sia un contratto mixtum cum donatione, nel senso che sia un contratto a titolo gratuito per il trasferente ed un contratto a titolo oneroso per l’accipiens. Il valore del credito vantato dai legittimari non assegnatari, dell’azienda come delle partecipazioni societarie, deve essere pari a quello che avrebbe la loro quota di legittima se la successione dell’imprenditore si aprisse in quel momento (art.536 c.c. e ss., specialmente art. 537). E ciò, al fine di non ledere la par condicio della quota di riserva dei legittimari nel momento attributivo, onde poter poi contestualmente escludere, con riguardo alla sola azienda (o alla sua governance) trasferite in vita con il patto di famiglia, l’operare della collazione[19] e della riduzione, posto che difficilmente il valore aggiunto dei beni trasferiti corrisponderà a quello della disponibile sommato alla legittima dell’attributario.

L’ipotesi del contratto mixtum cum donatione si rivela assai onerosa dal punto di vista fiscale, in quanto la liquidazione ai legittimari non attributari dell’azienda viene tassata come cessione di diritti a titolo oneroso, non potendo godere dei benefici fiscali riservati agli atti a titolo gratuito. A meno che non si possa convincere l’Agenzia delle Entrate ad aderire ad una brillante interpretazione secondo la quale poiché la liquidazione dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie è posta a carico del beneficiario per legge, il pagamento di questo debito sconterebbe la tassa di quietanza.

6. Segue: d) divisio inter liberos; e) contratto a favore di terzo.

Si è già detto perché il patto di famiglia, stante la mancata utilizzazione della causa familiae in forza della quale l’imprenditore avrebbe potuto attribuire, con effetto immediato e non post mortem, l’azienda o la governance ad un figlio ed altri suoi beni agli altri legittimari a tacitazione della loro quota di riserva,[20](con attribuzione, quindi, anche al coniuge), nonostante l’originaria previsione di una funzione distributivo-divisionale, non realizzi una divisio inter liberos; e ciò, in quanto il destinatario è un discendente, figlio ma anche nipote, e nel caso di nipote ex filio, se il figlio dell’imprenditore è ancora vivente, non è neppure un legittimario. In proposito, non si comprende la ratio che ha portato ad escludere i fratelli dell’imprenditore dal novero dei soggetti attributari dell’azienda o della governance, se non nell’ottica di una visione del passaggio generazionale solo in senso verticale e non orizzontale.

Si potrebbe, però, ipotizzare che l’assegnazione “differita”, prevista dall’art.768-quater, comma 3, secondo capoverso, in favore dei legittimari non assegnatari e che deve essere compiutamente disciplinata nel patto di famiglia, onde consentire il collegamento negoziale disposto dalla legge, configuri un contratto a favore di terzi, con funzione solutoria dell’obbligo di liquidazione.

In questo contratto, secondo il tipo previsto dall’art. 1411 c.c., lo stipulante è l’imprenditore (che vi ha interesse in quanto assicura la sopravvivenza dell’azienda), il promittente è l’attributario dell’azienda o della governance, i terzi sono i legittimari che, intervenendo all’atto, precludono la revoca o la modifica della stipulazione da parte dello stipulante, altrimenti possibile ai sensi dell’art.1411, comma 2, c.c. Ciò giustificherebbe quella qualifica di “terzi” attribuita dalla rubrica dell’art.768-sexies ai legittimari che non abbiano partecipato al contratto di famiglia, e la previsione della facoltà di “recesso” che deve essere espressamente contenuta nel patto di famiglia perché possa essere invocata.

Poiché l’art. 1412 c.c. prevede che la prestazione possa essere fatta al terzo anche dopo la morte dello stipulante, ed il valore della quota di legittima da versare in cambio dell’azienda va calcolato al momento della stipula del patto di famiglia (e non a quello dell’apertura della successione), la costruzione del patto di famiglia come negozio attributivo dell’azienda al discendente ma con effetti anche a favore di terzi, potrebbe consentire all’attributario dell’azienda o della governance, in mancanza dell’espressa previsione legislativa di un termine per tale adempimento, di effettuare la liquidazione degli altri legittimari con denaro o beni a lui rivenienti dall’asse ereditario, ove non disponesse di una liquidità immediata.

Utilissima è in tal senso la previsione dell’art. 1413 c.c. che prescrive l’opponibilità al terzo delle sole eccezioni fondate sul contratto dal quale il terzo deriva il suo diritto (nel nostro caso dal patto di famiglia) con esclusione di quelle fondate su altri rapporti tra promittente e stipulante.

Conforta tale ricostruzione la rubrica dell’art. 768-sexies, intitolata “Rapporti con i terzi” che non sono, come d’usuale, i creditori o gli aventi causa, bensì i legittimari “sopravvenuti” dopo la conclusione del patto di famiglia e che sono tali al momento dell’apertura della successione. Essi possono richiedere ai beneficiari del contratto (e qui bisogna scegliere se optare per un’interpretazione restrittiva che per beneficiario intende il solo attributario dell’azienda (che può essere anche plurisoggettivo) ovvero tutti i legittimari che hanno partecipato al patto di famiglia) il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art.768-quater, aumentata degli interessi legali.

Il credito che vantavano al momento della stipula del patto di famiglia i legittimari presenti all’atto viene cioè esteso anche “ai terzi” legittimari sopravvenuti (figli di secondo letto, figli naturali riconosciuti o secondi coniugi), come credito di valuta e non di valore, aumentato quindi degli interessi legali maturati dalla data del contratto all’apertura della successione.

In conclusione, il patto di famiglia sarebbe un negozio misto comprensivo di un’attribuzione non interamente a titolo gratuito, perché comprensiva dell’obbligo di liquidazione per il discendente beneficiario, e di un contratto a favore di terzi per gli altri legittimari.

7. I soggetti del contratto e l’obbligo di partecipazione. La facoltà di rappresentanza.

Il conflitto tra il linguaggio del contratto e quello delle convenzioni familiari si manifesta con tutta evidenza nell’art.768-bis c.c., che definisce il contratto con cui l’imprenditore trasferisce in tutto o in parte l’azienda - ed il titolare delle partecipazioni societarie trasferisce in tutto o in parte le proprie quote - come “patto di famiglia”. Stando a questa prima norma, i soggetti del contratto sono l’imprenditore ed uno o più discendenti, e bisogna leggere ancora due articoli, essendo l’art.768-ter intitolato alla forma, per scoprire che al contratto “devono partecipare” anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione del patrimonio dell’imprenditore, vale a dire quei soggetti che vantino, al momento, un’aspettativa ereditaria come legittimari.

In genere, ad un contratto, salvo che non sia associativo, non si “partecipa” ma se ne è parte, sia pure formale o sostanziale, come avviene per l’acquisto di un bene immobile posto in essere con la partecipazione all’atto di un solo coniuge in regime di comunione legale, nel quale il coniuge comparente è parte formale ma parte sostanziale è anche l’altro (art.177, lett. a), c.c.). Il patto di famiglia viene definito come il contratto tra l’imprenditore ed uno o più discendenti al quale devono partecipare anche il coniuge e gli altri legittimari

Di partecipazione, anzi di diritto di partecipazione, si parla per le assemblee societarie e nell’impresa familiare, normative alle quali l’art.768-bis fa espresso riferimento, “compatibilmente” per l’impresa familiare e “nel rispetto delle differenti tipologie” per le società.

L’obbligo di partecipazione sembra perciò inderogabile, in quanto da esso discende la certezza del patto di famiglia, nel senso che la valutazione dell’azienda e la conseguente quantificazione della quota di legittima da liquidare ai non assegnatari devono essere approvate contestualmente, anche se la liquidazione può essere consensualmente differita.

Quid iuris in caso di impossibilità di un soggetto che “deve” intervenire, ad essere presente alla stipula del patto di famiglia? Trattandosi di contratto, le norme sulla rappresentanza (art.1387 ss.) dovrebbero essere applicabili, salvo il problema della forma della procura, che a mio avviso dovrà essere la medesima prevista per il patto di famiglia (atto pubblico). Se, invece, un legittimario non volesse presenziare all’atto, potrà il notaio rogante redigerlo senza incorrere nella sanzione di cui all’art.28 della legge notarile, magari condizionandolo alla successiva accettazione, in analogia a quanto avviene per l’esercizio del diritto di opzione nei verbali assembleari?[21] E sarà possibile, una volta identificato il valore da attribuire alla quota del legittimario ostile effettuare il deposito della relativa somma ai sensi e per gli effetti della disciplina sull’offerta reale(art.1209 ss.) con effetto liberatorio per il discendente che ha ricevuto l’azienda?

Invero, l’art 768-quater, quando recita: “Al contratto devono partecipare […]”, non specifica “a pena di nullità”, ed il successivo art. 768-quinquies fa espresso riferimento ad un’impugnativa esercitabile in forza delle norme in tema di vizi del consenso e quindi per eccepire l’annullabilità del contratto. Occorrerà comunque poter dimostrare che tutti i legittimari sono stati convocati per la stipula del patto di famiglia, magari con R.R., come si fa per le assemblee societarie.

8. Le due fasi attributivo-distributive del patto di famiglia: a) inter vivos.

Per quei legittimari che non abbiano partecipato al patto di famiglia, perché all’epoca non avendone la qualifica non potevano vantare aspettative ereditarie, l’art.768-sexies c.c. prevede il sorgere, ex post, di un diritto di credito connesso alla loro qualità di eredi, a veder liquidata in denaro - e non in natura come invece è possibile al momento della stipula del patto di famiglia – quella parte della loro quota di legittima che avrebbero percepito anticipatamente se fossero stati presenti al patto, aumentata degli interessi legali.

La norma potrebbe sembrare assurda, posto che al momento dell’apertura della successione cadono nell’asse ereditario solo i beni esistenti e non quelli già trasferiti in vita, salva l’eccezione fatta per la collazione delle donazioni, che vanno però computate con il valore dei beni alla data di apertura della successione; se non fosse che quanto percepito dai legittimari partecipanti al patto di famiglia- a titolo di “liquidazione”, va imputato alla loro quota di legittima come una sorta di anticipazione della stessa, ancorché non soggetto a collazione e riduzione.

E’ certamente questo il punto più scabroso della Novella, già segnalato come sospetto di incostituzionalità.

La modifica apportata all’art. 458 c.c. con l’inciso “fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti”, esclude che il patto di famiglia sia un patto successorio dispositivo, ma come può giustificarsi l’esclusione della collazione e la privazione della facoltà di agire in riduzione?

A mio avviso, solo in un modo: ipotizzando, in questa che è una fattispecie procedimentale, due diversi momenti attributivo-distributivi.

Il primo, con efficacia immediata, per atto inter vivos, si realizza con il patto di famiglia cui partecipano tutti i legittimari, individuati come titolari dell’aspettativa ereditaria in quel preciso momento, attraverso una simulazione di apertura della successione dell’imprenditore.

Si spiegherebbe, così, la facoltà di rinunciare in tutto o in parte alla liquidazione della quota di legittima (rectius alla pre-liquidazione) – rinuncia che nella prassi successoria spesso è esercitata dal coniuge superstite in favore dei figli – concessa ai partecipanti al contratto non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. L’imputazione alla quota di legittima delle somme o dei beni, assegnati ai partecipanti al contratto, non destinatari dell’azienda o della governance, ed il brevissimo termine di impugnativa (1 anno) del contratto stesso, garantirebbero un’equa ripartizione dell’attuale patrimonio dell’imprenditore fra i legittimari non assegnatari, attraverso il meccanismo della compensazione attuale o differita del loro credito relativo alla legittima sull’azienda, con conseguente esclusione del ricorso alla collazione ed impossibilità di agire in riduzione, per assenza di lesione.

La valutazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie sarà fatta con perizia giurata, tenendo conto sia del patrimonio statico che di quello dinamico; tutti i partecipanti ne saranno edotti e l’approveranno e la quantificazione delle loro quote di legittima sarà, così, oggettivamente verificabile.

9) b) mortis causa.

Il secondo momento attributivo si realizza, invece, mortis causa, con l’apertura effettiva della successione dell’imprenditore.

Rispetto a quella prima, equa ripartizione, lo scenario familiare può essere mutato, nel senso che possono essere sopravvenuti altri legittimari (coniuge in seconde nozze e figli legittimi, figli naturali riconosciuti) che non avendo partecipato al patto di famiglia non hanno avuto attribuzioni in sostituzione di legittima, come invece è accaduto per i partecipanti all’atto. Volutamente uso il termine “sostituzione di legittima” perché intendo richiamare la distinzione tra legato “in conto” o “in sostituzione”: il primo consente di chiedere il supplemento di legittima, una volta imputato ex se, il secondo lo esclude.

Con il patto di famiglia la quota di legittima pre-liquidata inter vivos non può essere computata al momento dell’apertura della successione, né se nel frattempo l’impresa ha avuto incrementi di valore anche notevoli, può essere chiesto un supplemento alla quota di legittima già percepita (liquidata dice il legislatore all’art. 788-quater, comma 2).

La quota cui avrà diritto il legittimario sarà infatti parziale, nel senso che riguarderà tutti gli altri beni facenti parte del patrimonio dell’imprenditore defunto ad eccezione dell’azienda, i cui conguagli sulla sua attribuzione sono già stati liquidati col patto di famiglia. Non è pertanto ipotizzabile una richiesta di supplemento di legittima, mentre è disciplinata una liquidazione retroattiva, con tanto di interessi legali, per quei legittimari che non hanno partecipato alla simulazione di successione.

Così argomentando, l’inserimento dell’art. 768-bis dopo l’art. 768, relativo alla alienazione della quota ereditaria, ha l’effetto di considerare l’azienda, come ha già fatto la Novella n. 151/75 per la comunione legale, come un complesso di beni autonomo rispetto al resto del patrimonio (dei coniugi, con riguardo all’art. 191, comma 2, c.c., del de cuius con riguardo all’art. 768-bis).

Si spiegherebbe, pertanto, perché solo i legittimari che non hanno partecipato al patto di famiglia – vale a dire al momento attributivo-distributivo perfezionatosi inter vivos – possano richiedere, all’apertura della successione, ai sensi dell’art. 768-septies, ai beneficiari del patto il pagamento delle somme previste dall’art. 768-quater, comma 2. E possono, in caso di mancato ricevimento della liquidazione stessa, da farsi in questa sede solo in denaro, impugnare il patto di famiglia, ancorché non vi abbiano partecipato.

C’è da domandarsi se questa impugnazione sia da intendersi come litisconsorzio necessario, coinvolgente cioè anche quei legittimari che non avevano più diritto a collazione o a riduzione, essendo stati anticipatamente tacitati sulla quota all’epoca loro spettante, ovvero se, specificando la norma che trattasi di un credito, liquido ed esigibile, l’impugnativa riguardi solo i legittimari “sopravvenuti”. Propenderei per questa seconda interpretazione in quanto per la prima categoria di legittimari, trascorso un anno dalla stipula del patto di famiglia, il potere di impugnarlo per vizi del consenso (art.1427 ss.) si prescrive.

10) La forma del patto di famiglia.

L’art. 768-ter prescrive che il contratto debba essere concluso per atto pubblico a pena di nullità.

Sembrerebbe, quindi, che poco resti da dire sulla forma del patto di famiglia, se non fosse per una problematica squisitamente notarile: atto pubblico con o senza testimoni?

L’orientamento già espresso[22] che le convenzioni coniugali dovessero essere stipulate in presenza di testimoni, anche se l’art. 162, comma 1, c.c. prescrive, anche qui a pena di nullità, solo la forma pubblica, è stato recepito di recente anche dal legislatore della c.d. “semplificazione amministrativa”.

L’art. 12, comma 1, lett. c) della legge 28 novembre 2005, n. 246, ha sostituito l’art. 48 della legge notarile 18 febbraio 1913, n. 89, con il seguente:”Oltre che in altri casi previsti per legge è necessaria la presenza di due testimoni per gli atti di donazione, per le convenzioni matrimoniali e le loro modificazioni e per le dichiarazioni di scelta del regime di separazione dei beni nonché qualora anche una sola delle parti non sappia o non possa leggere e scrivere ovvero una parte o il notaio ne richieda la presenza. Il notaio deve fare espressa menzione della presenza dei testimoni in principio dell’atto.” Ovviamente, nulla poteva prevedere per una norma ed un tipo contrattuale non ancora venuti ad esistenza, ma se il patto di famiglia non è una convenzione coniugale, in quanto il coniuge vi partecipa per la sua qualità di legittimario e non per lo status di coniuge, è un atto di liberalità, ancorché non donativo. Ritengo, pertanto, che la presenza dei testimoni sia opportuna, perché pur trattandosi, per espressa denominazione legislativa, di un contratto, il patto di famiglia è pur sempre un actus familiae e proprio quella sua collocazione dopo l’art.768 c.c., per attuare inter vivos il trasferimento di quelle che sarebbero le quote ereditarie dell’azienda o della governance, rende imprescindibile che la massima garanzia della forma solenne sia rafforzata anche dai testi.



[1] Nella proposta di legge n. 3870 si prevedeva “l’assegnazione” dell’azienda e non, come nel testo definitivo, il “trasferimento”, giustificando così la necessità di un successivo contratto “collegato”. Si è però ritenuto che il trasferimento avendo, a differenza dell’assegnazione, effetto reale e non obbligatorio non configurasse, stante l’efficacia immediata, una disposizione per il periodo successivo all’apertura della successione, e quindi un patto successorio, onde si è preferito optare per questa forma di successione inter vivos. La norma conserva tuttavia tracce della precedente impostazione quando parla di “beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda” (art.768-quater, comma 3), generando così l’equivoco che le assegnazioni non siano una liquidazione, come esattamente precisa il secondo comma del medesimo articolo, ma possano essere fatte ai legittimari non assegnatari direttamente dal padre o dall’avo disponente; addirittura, come è stato ipotizzato nei primi Convegni sul tema, dalla moglie del trasferente.

[2] La rilevanza della componente economica della famiglia, con particolare riguardo all’azienda coniugale ed alle conseguenze della mala gestio ai sensi dell’art. 193 c.c. è illustrata ampiamente da G. OPPO, Diritto di famiglia e diritto dell’impresa, in Scritti giuridici. Persona e famiglia, Vol. V, Padova, 1992, p. 177 ss.

[3] Cfr. sul punto, in generale, G. IUDICA, Fondazioni, fedecommesserie, trusts e trasmissione della ricchezza familiare, in AA.VV., La trasmissione familiare della ricchezza, Milano, 1995, p.97 ss.; per un sintetico quadro del fenomeno sul versante europeo, P. MANES, Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare, in Contratto e impresa, 2006, n.2, p. 539, ss.

[4] M.C. Andrini, L’autonomia privata dei coniugi tra status e contratto. Le convenzioni coniugali, Torino, 2006, p. 197 ss.

[5] M.C. ANDRINI, Gli effetti personali della separazione e del divorzio, in Separazione e divorzio, diretto da G. FERRANDO, vol. II, Torino, 2003, p.573 ss.

[6] Per una corretta valutazione delle diverse conflittualità del diritto di impresa con la proprietà dell’azienda, nel caso di coniugi titolari dell’azienda coniugale, v. Trib. Roma, 16 settembre 1999, (in Fam. e dir., 2000, p.183, con nota di P. SCHLESINGER). Il Tribunale, richiesto di individuare le norme applicabili, ha ritenuto si dovessero distinguere i rapporti proprietari ex art.177 c.c. da quelli concernenti la gestione ex art.2247c.c. Sulle problematiche connesse al trasferimento dell’azienda familiare v. P. SCHLESINGER, Interessi dell’impresa e interessi familiari nella vicenda successoria, in AA.VV., La trasmissione familiare della ricchezza, Milano, 1995, p. 131 ss.

[7] Cfr. La successione ereditaria nei beni produttivi, a cura del Gruppo di lavoro su “La successione dell’impresa nella famiglia”, in Riv. dir. priv.,1998, I, p. 353 ss.; M. IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. not.,1997, I, p. 1371 ss.; A. ZOPPINI, Il patto di famiglia. Linee per la riforma dei patti sulle successioni future, in Riv. dir. priv., 1998, IV, p.255 ss.

[8] A. PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. 3; M. IEVA, I fenomeni c.d. parasuccessori, in Riv. not., 1988, I, p. 1139.

[9] E. DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma, in Riv. not., 2001, I, p. 633 ss.

[10] A. PALAZZO, Arte stipulatoria e funzione del notaio nell’attività negoziale di trasferimento della ricchezza familiare, in Vita not., 2001, I, p. 452 ss.

[11] Cfr. Raccomandazione 94/1069/CE, pubblicata in G.U.C.E. del 31 dicembre 1994, L 385, la quale constatando la difficoltà di trovare all’interno della famiglia un successore affidabile per proseguire l’attività di impresa, indicava come alternativa alla vendita dell’impresa la pianificazione in vita della successione dell’imprenditore.

[12] In proposito, ricordo il recente intervento legislativo del D. Lgs. 29 marzo 2004, n.99, che ha abrogato gli artt. 846, 847 e 848 del codice civile, avente ad oggetto la tutela dell’integrità aziendale nell’ambito dell’impresa agraria, con la costituzione del c.d. compendio unico, (art.7 del Decreto n.99 che introduce l’art.5-bis al D.lgs. 18 maggio 2001, n.228). Per compendio unico si intende l’estensione di terreno necessaria al raggiungimento del livello minimo di redditività, determinato dai piani regionali di sviluppo rurale per l’erogazione del sostegno agli investimenti previsti dai Regolamenti CE n.1257/1999 e 1260/1999, e successive modificazioni. Le agevolazioni fiscali relative alle imposte di registro, trascrizione, catasto e bollo (esenzione totale) e la riduzione degli onorari notarili ad un sesto, in favore della costituzione del compendio unico od in caso di maso chiuso (legge 28 novembre 2001, n. 17 della Provincia autonoma di Bolzano), spettano, nei trasferimenti di immobili agricoli e relative pertinenze, compresi i fabbricati, agli acquirenti coltivatori diretti od imprenditori agricoli professionali (IAP) che si impegnino a condurre direttamente il compendio od il maso per dieci anni: e ciò, sia che l’acquisto avvenga per atto tra vivi che mortis causa. Gli immobili costituiti in compendio unico sono considerati unità indivisibili per dieci anni e gli atti tra vivi o le disposizioni testamentarie che hanno per effetto il frazionamento del compendio unico sono nulli. Qualora nel periodo di vigenza del vincolo di indivisibilità muoia l’imprenditore agricolo professionale o il coltivatore diretto ed i beni facenti parte dell’asse ereditario non consentano la soddisfazione di tutti i legittimari, si provvede all’assegnazione del compendio all’erede che ne faccia richiesta con addebito dell’eccedenza. Ai sensi dell’art.5 -bis, comma 6, aggiunto dal D.Lgs. n.99/2004 al D. Lgs. n.228/2001, “a favore degli eredi, per la parte non soddisfatta, sorge un credito di valuta garantito da ipoteca iscritta a tassa fissa sui terreni caduti in successione, da pagarsi entro due anni dall’apertura della stessa con un tasso inferiore di un punto a quello legale”. In caso di controversie sul valore da assegnare al compendio unico o relativamente ai diritti agli aiuti comunitari e nazionali presenti nel compendio stesso, le parti possono richiedere un arbitrato alla Camera arbitrale od allo sportello di conciliazione di cui al D.M. 1° luglio 2002, n.743 del Ministero delle Politiche agricole e forestali (art.5-bis, comma 7). In caso di mancata richiesta di assegnazione da parte degli eredi (“se nessuno degli eredi richiede l’attribuzione preferenziale”, recita il comma 8), sono revocati i diritti agli aiuti comunitari e nazionali, ivi compresa l’attribuzione di quote produttive, assegnati all’imprenditore defunto per i terreni oggetto della successione. Con conseguente perdita, per l’impresa, di produttività e di valore, vale adire di quegli elementi che la tecnica aziendale denomina valore economico del capitale (VEC), comprensivo delle contingenze, delle sinergie e delle opzioni strategiche.

[13] P. RESCIGNO, Consenso, accordo, convenzione, patto,(La terminologia legislativa nella materia dei contratti), in Contratto, I, In generale, in Enc. Giur. Treccani, IX, Milano, 1988, p. 9-10.

[14] S. PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, I, p. 285 ss. L’art.458 recita ancora, dopo la Novella n.55/2006, “E’ nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione.”

[15] L’esclusione dei rimedi della risoluzione e della rescissione potrebbe giustificarsi alla luce della natura del patto di famiglia, contrattuale sì, come sancisce il legislatore, ma pur sempre convenzionale, come recita l’art. 458 c.c.

[16] M.C. ANDRINI, La scelta del tipo contrattuale, in Riv. dir. priv.2004, p.707 ss.

[17] Così P. MOROZZO DELLA ROCCA, Gratuità, liberalità e solidarietà, Milano, 1998, p. 74.

[18] A. PALAZZO, Le donazioni, Milano, 1991, p.300.

[19] La collazione, essendo un’operazione predivisionale (M.C. ANDRINI, La collazione, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, vol.II, p.111 ss., ivi p.112) non potrebbe riguardare il patto di famiglia che non ha natura di negozio divisorio.

[20] M.C. ANDRINI, voce Legittimari, in Enc. Giur. Treccani, vol.XVIII, Roma 1990

[21] M.C. .ANDRINI, Invalidità, simulazione e frode alla legge (con particolare attenzione alle conseguenze in tema di responsabilità ex art.28 della legge notarile), in M. BESSONE, Casi e questioni di diritto privato per la pratica notarile, Parte II, Milano, 1998, p.271 ss.; Eadem, Responsabilità del notaio e atto annullabile. Aspetti notarili e nuovo orientamento della Cassazione sull’art.28 L. N., in Vita not., 1998, I, p. 701; N. LIPARI, Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, p.361; C. DONISI, L’art.28: baricentro della funzione notarile, in Atti del XXXIX Congresso Nazionale del Notariato, Milano, 10-13 novembre 2002, pubblicato a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 2003.

[22] M. C. ANDRINI, L’autonomia privata dei coniugi fra status e contratto cit..

[Relazione tenuta alla Giornata di studio organizzata dall’Associazione sindacale dei Notai delle Tre Venezie a Mestre il 1° aprile 2006 dal titolo: ”Novità legislative di interesse notarile:atto di destinazione e trust- Patti di famiglia”]

INDICE:

1. Il patto di famiglia per l’impresa: eccezionalità e specialità della Novella n.55/2006.

2. La ratio della nuova normativa.

3. La causa familiae ed il tipo contrattuale del patto di famiglia: negozio non divisorio (art.734-bis) ma traslativo di quota ereditaria (art.768-bis).

4. Le diverse tipologie proposte per il patto di famiglia:

a) donazione.

5. Segue:

b) donazione modale;

c) negotium mixtum cum donatione.

6. Segue:

d) divisio inter liberos;

e) contratto a favore di terzo.

7. I soggetti del contratto e l’obbligo di partecipazione. La facoltà di rappresentanza.

8. Le due fasi attributivo-distributive del patto di famiglia:

a) inter vivos.

9. Segue:

b) mortis causa.

10. La forma del patto di famiglia.

1. Il patto di famiglia per l’impresa: eccezionalità e specialità della Novella n.55/2006.

Il nuovo contratto, introdotto nel codice civile dalla Legge 14 febbraio 2006, n.55 inserendo dopo l’art.768 sette nuovi articoli (dal bis all’octies), rappresenta innanzitutto un’eccezione al divieto di patti successori, stabilito dall’art.458 c.c., al cui testo è stato premesso l’inciso “Fatto salvo quanto disposto dagli artt.768-bis e seguenti.” Ci troviamo di fronte ad una normativa eccezionale e non speciale, in quanto deroga norme generali quali l’art.458 citato e gli artt. 553 ss. (azione di riduzione) e 737 ss. (collazione), con tutte le relative conseguenze in tema di interpretazione analogica.

Il patto di famiglia viene definito dal legislatore, all’art.768-bis, come il “contratto” con cui l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda ed il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più discendenti. Ne risulta quindi escluso il professionista, che intenda lasciare il proprio studio al figlio o al nipote ex filio che segue le sue orme.

Il requisito soggettivo dell’esercizio dell’attività di impresa, intesa nella duplice forma di proprietà reale o di governance, di patrimonio statico o di patrimonio dinamico, requisito richiesto nel soggetto che trasferisce l’azienda o le partecipazioni societarie,[1] che denominerò trasferente, porta ad escludere che con questo nuovo contratto si possano trasferire partecipazioni sociali di investimento o di godimento. Secondo logica ermeneutica, infatti, l’inciso di cui all’art.768-bis, (l’imprenditore trasferisce, “in tutto o in parte”), ripetuto sia per l’azienda che per le partecipazioni societarie, conferma che ad uno o più discendenti con capacità manageriali ed attuatorie sarà trasferita la gestione dell’impresa di famiglia e agli altri legittimari potranno essere attribuite (mediante cessioni, che beneficeranno anche della neutralità fiscale) le quote o le azioni che non compromettono la governance. Fornendo, così, una logica spiegazione ad un’altra previsione normativa di difficile interpretazione, quella della facoltà di rinuncia alla liquidazione (art.768-quater, comma 2) che, altrimenti, troverebbe applicazione concreta solo nel caso del coniuge dell’imprenditore che sia anche il genitore dei legittimari.

Insisto sul fatto che il negozio attributivo delle quote o delle azioni agli altri legittimari, al fine di perequare la distribuzione del pacchetto di quote o di azioni della società di famiglia, debba essere una cessione, e non una donazione, perché le donazioni fatte dall’imprenditore agli altri legittimari rientrerebbero nella disciplina generale e quindi sarebbero soggette a riduzione, da parte dello stesso beneficiario dell’impresa o dei legittimari sopravvenuti (secondo coniuge o figli di secondo letto), con valutazione all’epoca dell’apertura della successione dell’imprenditore, e non all’epoca della stipulazione del patto di famiglia; e ciò, anche nell’ipotesi di rinuncia alla liquidazione contenuta nel patto di famiglia stesso.

Il patto presuppone perciò, come legittimazione soggettiva al contratto stesso, che il trasferente sia un imprenditore e l’accipiens un discendente in linea retta. La deroga al divieto dei patti successori che rende lecito questo patto, a mio avviso dispositivo più che istitutivo, si giustifica, quindi, solo nell’ottica di un interesse primario, quale è quello della funzione sociale dell’impresa, in particolare dell’impresa di famiglia stante la sua notevole rilevanza economica e sociale[2], al mantenimento non tanto della ricchezza quanto della produttività aziendale nella successione dell’imprenditore.[3]

2. La ratio della nuova normativa

Mi ero già chiesta, trattando dello scioglimento parziale della comunione legale,[4] limitato cioè alla sola azienda coniugale, se quell’accordo dei coniugi avente ad oggetto l’azienda (art.191, comma 2, c.c.), fosse un patto di famiglia od un patto d’impresa. E ciò, stante l’evidente prevalenza data dal legislatore, con la previsione dello scioglimento consensuale della comunione relativo alla sola azienda, agli interessi produttivi dell’impresa, rispetto - e perfino contro - quelli del singolo coniuge non assegnatario, al quale viene riconosciuto un diritto di credito pari al valore della quota in comunione.

L’estromissione dalla comunione legale dell’azienda coniugale costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi (art.177, lett. d) c.c.), decisa “per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art.162” (art.191, comma 2, c.c.), vale a dire mediante una convenzione coniugale, con conseguente attribuzione in titolarità esclusiva ad un coniuge, assolve ad una funzione propria del patto di famiglia. Serve, infatti, a salvaguardare la famiglia dal rischio derivante dalla gestione di impresa e, nel caso di separazione dei coniugi, a garantire l’adempimento dei doveri e degli obblighi nei confronti del coniuge non assegnatario, ove abbia diritto al mantenimento, e della prole.[5] Realizza, perciò, una sistemazione concordata e non forzosa degli assetti familiari, come tale rimessa all’autonomia privata dei coniugi.

Il precludere alla (com)proprietà di interferire con le esigenze d’unitarietà ed univocità proprie dell’impresa e della gestione produttiva dei beni aziendali,[6] è, invece, tipico del patto d’impresa, onde la soluzione che avevo ipotizzato a proposito dell’accordo previsto dall’art.191, comma 2, c.c. era che fosse un “patto di famiglia per l’impresa”, realizzato mediante una convenzione coniugale, redatta per atto pubblico e con la presenza dei testimoni, al fine di evitare che lo smembramento dell’azienda influisse negativamente sull’attività produttiva, danneggiando di conseguenza la famiglia e la prole.

La difficoltà di contemperare le due figure del patto di famiglia e del patto d’impresa era stata ben presente al gruppo di lavoro coordinato da Antonio Masi e Pietro Rescigno che si proponeva di studiare una riforma dei patti successori [7] e di dare una sistemazione razionale alle c.d. successioni anomale,[8] il cui scopo, per lo più, è quello di assicurare una continuità gestionale dell’impresa.

Le partecipazioni societarie erano state escluse dall’ambito operativo del patto di famiglia, riservato alla sola azienda, ed incluse nel patto di impresa,[9] patto la cui autonomia è oggi irrilevante, con riguardo alle sole partecipazioni societarie, stante le specifiche soluzioni offerte dal nuovo diritto societario con apposite clausole successorie (es. art. 2355-bis); clausole che, peraltro, anche in passato, il buon notaio non mancava di elaborare nell’ingegneria della trasmissione mortis causa dell’attività d’impresa.[10] E ciò, al fine di evitare quella che è stata chiamata la “deriva generazionale delle imprese”, vale a dire quel fenomeno per cui oggi solo il 50% delle imprese italiane è gestita da un figlio del fondatore e solo il 30% dal nipote ex filio. Fenomeno, questo, rilevato anche dal legislatore europeo[11] e di cui è stato, da sempre, consapevole il nostro legislatore in materia agraria, che ha cercato, con successo, di arginarlo per la successione dell’azienda agricola. Dapprima, utilizzando lo strumento del diritto di prelazione con efficacia reale nei confronti anche dell’avente causa, da ultimo, consentendo l’attribuzione preferenziale dell’azienda ex lege ad un erede (non necessariamente legittimario) che abbia determinati requisiti soggettivi e la richieda, con l’obbligo di compensare in denaro gli altri eredi;[12] e ciò, perfino nel caso che l’azienda sia l’unico bene del defunto imprenditore,

Il legislatore della Novella n.55/2006 ha inteso risolvere il problema introducendo, con un’espressa deroga al divieto di patti successori, la possibilità di trasmettere per atto inter vivos l’azienda o la governance della stessa al discendente (figlio o nipote ex filio) che più abbia attitudini manageriali. Garantendo la “blindatura” del patto di famiglia con espresse deroghe al regime successorio ed alla disciplina generale dei contratti, nonché con il ricorso alla tecnica dell’Alternative Disputations Regulation (A.D.R.), vale a dire della conciliazione preventiva dinanzi agli organismi previsti dall’art.38 del D. Lgs.17 gennaio 2003, n.5; e prevedendo, come già aveva fatto il legislatore della Riforma del diritto di famiglia nella Novella n.151/75, all’art.184, comma 2, c. c., per gli atti compiuti da un coniuge in regime di comunione legale senza il necessario consenso dell’altro, un termine brevissimo (1 anno) di prescrizione per l’impugnativa del patto di famiglia da parte dei legittimari non soddisfatti o sopravvenuti (artt.768-quinquies, comma 2 e 768-sexies, comma 2).

Il fatto che l’impugnativa può avvenire solo per vizi della volontà potrebbe ravvisare un’analogia con quanto dispone l’art. 789 c.c., in caso di inadempimento del donante o di ritardo nell’eseguire la prestazione, sancendone la responsabilità “soltanto per dolo o per colpa grave”.

3. La causa familiae ed il tipo contrattuale del patto di famiglia: negozio non divisorio (art.734-bis) ma traslativo di quota ereditaria (art.768-bis).

Il patto di famiglia, è, quindi, per espressa definizione legislativa, un contratto, ancorché venga denominato patto:[13] non una convenzione, nonostante quest’ultimo sia il termine più utilizzato nell’ambito del diritto di famiglia e delle successioni,[14] basti pensare alle convenzioni coniugali ed ai patti successori che l’art. 458 definisce “convenzioni”. Un contratto che sfugge, in quanto tale, alle regole successorie delle attribuzioni effettuate ai legittimari inter vivos (collazione e riduzione delle donazioni) ma anche alla disciplina generale dei contratti. Non è prevista, infatti, l’applicabilità delle regole sulla risoluzione del contratto, sulla rescissione, sulla simulazione, ma ne è concessa (art.768-quater) solo l’impugnativa, ai fini dell’annullabilità del patto per vizi della volontà, ai sensi dell’art.1427 c.c. e seguenti.[15]

Prima facie, se ne deduce che il nuovo contratto non è tipico, ma nominato,[16] nel senso che il legislatore ha istituito il nomen di patto di famiglia, disciplinando un contratto speciale di cessione dell’azienda o della governance della stessa, ma lo ha sottratto poi, per la specialità del diritto di famiglia e di quello delle successioni, alla tipologia del contratto, conferendogli una disciplina eccezionale. Non è arrivato, tuttavia, ad attribuirgli una causa unitaria, stante la funzione di regolamentare il futuro assetto successorio dell’azienda o della governance, utilizzando quella causa familiae da tempo individuata dalla dottrina.

Invero, solo nell’ottica della causa familiae era ipotizzabile l’inserimento della nuova normativa del patto di famiglia tra gli strumenti a disposizione del testatore per realizzare un’assegnazione preferenziale dei beni o delle partecipazioni societarie oggetto di attività produttiva, in particolare tra le norme sulla divisione del testatore (artt. 733 e 734 c.c.). Nella sistematica del Gruppo di Lavoro Masi-Rescigno, infatti, il patto era stato collocato come art. 734-bis e giustamente si parlava di “assegnazione” e non di trasferimento. La corresponsione di una somma in denaro, dovuta dal discendente assegnatario ai legittimari non assegnatari (salvo la loro rinunzia totale o parziale) altro non era che un conguaglio, costruito sulla base di quanto disposto dall’art.720 c.c . per gli immobili indivisibili.

La causa familiae avrebbe potuto consentire perfino che questo conguaglio, che l’art.768- quater prevede possa esser fatto, convenzionalmente, anche in natura, fosse operato dallo stesso imprenditore o dal coniuge, con beni propri, superando così la problematica fiscale delle masse plurime, in virtù di una sistemazione contrattuale generale degli assetti familiari. Sarebbe stato necessario, però, abrogare il divieto di patti successori, al fine di istituire l’accesso all’eredità “per contratto”.

Ciò non è avvenuto, anche se il divieto ha ricevuto una potente spallata, e l’art. 734-bis ha mutato sistemazione, divenendo 768-bis. E’ stato cioè posizionato dopo la norma che prevede l’alienazione della porzione ereditaria, dalla quale ha mutuato il linguaggio. Il coerede che ha alienato la propria quota ereditario o parte di essa, non è ammesso ad impugnare la divisione per dolo o per violenza, se l’alienazione è avvenuta dopo che il dolo è stato scoperto o la violenza è cessata (art.768, comma 1, c.c.): e questo giustifica il termine di prescrizione previsto dall’art.768-quinquies. L’impugnativa del patto di famiglia per errore, violenza o dolo è infatti limitata ad un anno dalla data di stipula del patto (e non già dalla trascrizione dello stesso perché legittimati ad impugnare sono solo ed esclusivamente i legittimari che vi hanno partecipato o quelli che non vi hanno partecipato perché all’epoca non erano tali).

4. Le diverse tipologie proposte per il patto di famiglia: a) donazione.

Questo inserimento sistematico della disciplina del patto di famiglia dopo la norma sull’alienazione della quota ereditaria esclude, a mio avviso, che il nuovo contratto sia una donazione, in quanto l’imprenditore non è spinto all’attribuzione (rectius trasferimento) dell’azienda dall’animus donandi bensì, mi si passi l’espressione, dall’animus producendi, nel senso che è alla produttività ed al futuro sviluppo dell’impresa che egli guarda, non all’arricchimento del singolo legittimario. La causa di liberalità non è, quindi, preponderante nel senso che se è vero che l’imprenditore non riceve un corrispettivo dal trasferimento, è pur vero che soddisfa un proprio interesse primario, quello di non veder venduta o comunque disintegrata l’impresa alla quale ha dedicato tutta la sua vita lavorativa.

Né può negarsi che la ragione economica del “dono” influisca sulla causa del patto di famiglia, realizzandosi entrambe le due condizioni indicate dalla dottrina per qualificare l’interesse patrimoniale negli atti gratuiti non liberali[17]: e precisamente che esso costituisca il fondamento dell’operazione giuridico-economica, la sua funzione principale[18] e che la ragione economica, connessa alla conclusione del relativo negozio, sia contestualmente perseguita. Vale a dire che venga a realizzarsi la connessione tra l’atto di attribuzione e lo scopo di promozione dei propri interessi economici.

La donazione, inoltre, può essere revocata per sopravvenienza di figli, mentre il patto di famiglia può essere impugnato solo per errore, violenza e dolo, purché nel termine di un anno; può essere sciolto o modificato per mutuo dissenso; può divenire non (più) opponibile al contraente che eserciti il recesso (art. 768-septies), ove però il contratto lo preveda “espressamente.”

5. Segue: b) donazione modale; c) negotium mixtum cum donatione.

Poiché le attribuzioni mortis causa, sia a titolo universale che particolare, sono a titolo gratuito ed anche nella donazione l’onere non può “impoverire” il donatario oltre una certa misura, essendo questi tenuto all’adempimento “entro i limiti del valore della cosa donata” (art. 793, comma 2, c.c.), sembrerebbe difficile negare la natura di atto a titolo gratuito all’attribuzione dell’azienda o della governance realizzata mediante il patto di famiglia. Anche se ciò non significa che sia una donazione, semmai un atto di liberalità ex art. 809 c.c. Si potrebbe dire, però, che è una donazione modale, in quanto il donatario deve soddisfare il modus di liquidare gli altri legittimari, ma anche questo non è esatto, perché in caso di inadempimento non si applica la disciplina degli artt. 648 o 793 c.c., ma quella espressamente dettata dall’art. 768-sexies.

Una soluzione prospettata, che contempera entrambe le posizioni, è che sia un contratto mixtum cum donatione, nel senso che sia un contratto a titolo gratuito per il trasferente ed un contratto a titolo oneroso per l’accipiens. Il valore del credito vantato dai legittimari non assegnatari, dell’azienda come delle partecipazioni societarie, deve essere pari a quello che avrebbe la loro quota di legittima se la successione dell’imprenditore si aprisse in quel momento (art.536 c.c. e ss., specialmente art. 537). E ciò, al fine di non ledere la par condicio della quota di riserva dei legittimari nel momento attributivo, onde poter poi contestualmente escludere, con riguardo alla sola azienda (o alla sua governance) trasferite in vita con il patto di famiglia, l’operare della collazione[19] e della riduzione, posto che difficilmente il valore aggiunto dei beni trasferiti corrisponderà a quello della disponibile sommato alla legittima dell’attributario.

L’ipotesi del contratto mixtum cum donatione si rivela assai onerosa dal punto di vista fiscale, in quanto la liquidazione ai legittimari non attributari dell’azienda viene tassata come cessione di diritti a titolo oneroso, non potendo godere dei benefici fiscali riservati agli atti a titolo gratuito. A meno che non si possa convincere l’Agenzia delle Entrate ad aderire ad una brillante interpretazione secondo la quale poiché la liquidazione dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie è posta a carico del beneficiario per legge, il pagamento di questo debito sconterebbe la tassa di quietanza.

6. Segue: d) divisio inter liberos; e) contratto a favore di terzo.

Si è già detto perché il patto di famiglia, stante la mancata utilizzazione della causa familiae in forza della quale l’imprenditore avrebbe potuto attribuire, con effetto immediato e non post mortem, l’azienda o la governance ad un figlio ed altri suoi beni agli altri legittimari a tacitazione della loro quota di riserva,[20](con attribuzione, quindi, anche al coniuge), nonostante l’originaria previsione di una funzione distributivo-divisionale, non realizzi una divisio inter liberos; e ciò, in quanto il destinatario è un discendente, figlio ma anche nipote, e nel caso di nipote ex filio, se il figlio dell’imprenditore è ancora vivente, non è neppure un legittimario. In proposito, non si comprende la ratio che ha portato ad escludere i fratelli dell’imprenditore dal novero dei soggetti attributari dell’azienda o della governance, se non nell’ottica di una visione del passaggio generazionale solo in senso verticale e non orizzontale.

Si potrebbe, però, ipotizzare che l’assegnazione “differita”, prevista dall’art.768-quater, comma 3, secondo capoverso, in favore dei legittimari non assegnatari e che deve essere compiutamente disciplinata nel patto di famiglia, onde consentire il collegamento negoziale disposto dalla legge, configuri un contratto a favore di terzi, con funzione solutoria dell’obbligo di liquidazione.

In questo contratto, secondo il tipo previsto dall’art. 1411 c.c., lo stipulante è l’imprenditore (che vi ha interesse in quanto assicura la sopravvivenza dell’azienda), il promittente è l’attributario dell’azienda o della governance, i terzi sono i legittimari che, intervenendo all’atto, precludono la revoca o la modifica della stipulazione da parte dello stipulante, altrimenti possibile ai sensi dell’art.1411, comma 2, c.c. Ciò giustificherebbe quella qualifica di “terzi” attribuita dalla rubrica dell’art.768-sexies ai legittimari che non abbiano partecipato al contratto di famiglia, e la previsione della facoltà di “recesso” che deve essere espressamente contenuta nel patto di famiglia perché possa essere invocata.

Poiché l’art. 1412 c.c. prevede che la prestazione possa essere fatta al terzo anche dopo la morte dello stipulante, ed il valore della quota di legittima da versare in cambio dell’azienda va calcolato al momento della stipula del patto di famiglia (e non a quello dell’apertura della successione), la costruzione del patto di famiglia come negozio attributivo dell’azienda al discendente ma con effetti anche a favore di terzi, potrebbe consentire all’attributario dell’azienda o della governance, in mancanza dell’espressa previsione legislativa di un termine per tale adempimento, di effettuare la liquidazione degli altri legittimari con denaro o beni a lui rivenienti dall’asse ereditario, ove non disponesse di una liquidità immediata.

Utilissima è in tal senso la previsione dell’art. 1413 c.c. che prescrive l’opponibilità al terzo delle sole eccezioni fondate sul contratto dal quale il terzo deriva il suo diritto (nel nostro caso dal patto di famiglia) con esclusione di quelle fondate su altri rapporti tra promittente e stipulante.

Conforta tale ricostruzione la rubrica dell’art. 768-sexies, intitolata “Rapporti con i terzi” che non sono, come d’usuale, i creditori o gli aventi causa, bensì i legittimari “sopravvenuti” dopo la conclusione del patto di famiglia e che sono tali al momento dell’apertura della successione. Essi possono richiedere ai beneficiari del contratto (e qui bisogna scegliere se optare per un’interpretazione restrittiva che per beneficiario intende il solo attributario dell’azienda (che può essere anche plurisoggettivo) ovvero tutti i legittimari che hanno partecipato al patto di famiglia) il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art.768-quater, aumentata degli interessi legali.

Il credito che vantavano al momento della stipula del patto di famiglia i legittimari presenti all’atto viene cioè esteso anche “ai terzi” legittimari sopravvenuti (figli di secondo letto, figli naturali riconosciuti o secondi coniugi), come credito di valuta e non di valore, aumentato quindi degli interessi legali maturati dalla data del contratto all’apertura della successione.

In conclusione, il patto di famiglia sarebbe un negozio misto comprensivo di un’attribuzione non interamente a titolo gratuito, perché comprensiva dell’obbligo di liquidazione per il discendente beneficiario, e di un contratto a favore di terzi per gli altri legittimari.

7. I soggetti del contratto e l’obbligo di partecipazione. La facoltà di rappresentanza.

Il conflitto tra il linguaggio del contratto e quello delle convenzioni familiari si manifesta con tutta evidenza nell’art.768-bis c.c., che definisce il contratto con cui l’imprenditore trasferisce in tutto o in parte l’azienda - ed il titolare delle partecipazioni societarie trasferisce in tutto o in parte le proprie quote - come “patto di famiglia”. Stando a questa prima norma, i soggetti del contratto sono l’imprenditore ed uno o più discendenti, e bisogna leggere ancora due articoli, essendo l’art.768-ter intitolato alla forma, per scoprire che al contratto “devono partecipare” anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione del patrimonio dell’imprenditore, vale a dire quei soggetti che vantino, al momento, un’aspettativa ereditaria come legittimari.

In genere, ad un contratto, salvo che non sia associativo, non si “partecipa” ma se ne è parte, sia pure formale o sostanziale, come avviene per l’acquisto di un bene immobile posto in essere con la partecipazione all’atto di un solo coniuge in regime di comunione legale, nel quale il coniuge comparente è parte formale ma parte sostanziale è anche l’altro (art.177, lett. a), c.c.). Il patto di famiglia viene definito come il contratto tra l’imprenditore ed uno o più discendenti al quale devono partecipare anche il coniuge e gli altri legittimari

Di partecipazione, anzi di diritto di partecipazione, si parla per le assemblee societarie e nell’impresa familiare, normative alle quali l’art.768-bis fa espresso riferimento, “compatibilmente” per l’impresa familiare e “nel rispetto delle differenti tipologie” per le società.

L’obbligo di partecipazione sembra perciò inderogabile, in quanto da esso discende la certezza del patto di famiglia, nel senso che la valutazione dell’azienda e la conseguente quantificazione della quota di legittima da liquidare ai non assegnatari devono essere approvate contestualmente, anche se la liquidazione può essere consensualmente differita.

Quid iuris in caso di impossibilità di un soggetto che “deve” intervenire, ad essere presente alla stipula del patto di famiglia? Trattandosi di contratto, le norme sulla rappresentanza (art.1387 ss.) dovrebbero essere applicabili, salvo il problema della forma della procura, che a mio avviso dovrà essere la medesima prevista per il patto di famiglia (atto pubblico). Se, invece, un legittimario non volesse presenziare all’atto, potrà il notaio rogante redigerlo senza incorrere nella sanzione di cui all’art.28 della legge notarile, magari condizionandolo alla successiva accettazione, in analogia a quanto avviene per l’esercizio del diritto di opzione nei verbali assembleari?[21] E sarà possibile, una volta identificato il valore da attribuire alla quota del legittimario ostile effettuare il deposito della relativa somma ai sensi e per gli effetti della disciplina sull’offerta reale(art.1209 ss.) con effetto liberatorio per il discendente che ha ricevuto l’azienda?

Invero, l’art 768-quater, quando recita: “Al contratto devono partecipare […]”, non specifica “a pena di nullità”, ed il successivo art. 768-quinquies fa espresso riferimento ad un’impugnativa esercitabile in forza delle norme in tema di vizi del consenso e quindi per eccepire l’annullabilità del contratto. Occorrerà comunque poter dimostrare che tutti i legittimari sono stati convocati per la stipula del patto di famiglia, magari con R.R., come si fa per le assemblee societarie.

8. Le due fasi attributivo-distributive del patto di famiglia: a) inter vivos.

Per quei legittimari che non abbiano partecipato al patto di famiglia, perché all’epoca non avendone la qualifica non potevano vantare aspettative ereditarie, l’art.768-sexies c.c. prevede il sorgere, ex post, di un diritto di credito connesso alla loro qualità di eredi, a veder liquidata in denaro - e non in natura come invece è possibile al momento della stipula del patto di famiglia – quella parte della loro quota di legittima che avrebbero percepito anticipatamente se fossero stati presenti al patto, aumentata degli interessi legali.

La norma potrebbe sembrare assurda, posto che al momento dell’apertura della successione cadono nell’asse ereditario solo i beni esistenti e non quelli già trasferiti in vita, salva l’eccezione fatta per la collazione delle donazioni, che vanno però computate con il valore dei beni alla data di apertura della successione; se non fosse che quanto percepito dai legittimari partecipanti al patto di famiglia- a titolo di “liquidazione”, va imputato alla loro quota di legittima come una sorta di anticipazione della stessa, ancorché non soggetto a collazione e riduzione.

E’ certamente questo il punto più scabroso della Novella, già segnalato come sospetto di incostituzionalità.

La modifica apportata all’art. 458 c.c. con l’inciso “fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti”, esclude che il patto di famiglia sia un patto successorio dispositivo, ma come può giustificarsi l’esclusione della collazione e la privazione della facoltà di agire in riduzione?

A mio avviso, solo in un modo: ipotizzando, in questa che è una fattispecie procedimentale, due diversi momenti attributivo-distributivi.

Il primo, con efficacia immediata, per atto inter vivos, si realizza con il patto di famiglia cui partecipano tutti i legittimari, individuati come titolari dell’aspettativa ereditaria in quel preciso momento, attraverso una simulazione di apertura della successione dell’imprenditore.

Si spiegherebbe, così, la facoltà di rinunciare in tutto o in parte alla liquidazione della quota di legittima (rectius alla pre-liquidazione) – rinuncia che nella prassi successoria spesso è esercitata dal coniuge superstite in favore dei figli – concessa ai partecipanti al contratto non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. L’imputazione alla quota di legittima delle somme o dei beni, assegnati ai partecipanti al contratto, non destinatari dell’azienda o della governance, ed il brevissimo termine di impugnativa (1 anno) del contratto stesso, garantirebbero un’equa ripartizione dell’attuale patrimonio dell’imprenditore fra i legittimari non assegnatari, attraverso il meccanismo della compensazione attuale o differita del loro credito relativo alla legittima sull’azienda, con conseguente esclusione del ricorso alla collazione ed impossibilità di agire in riduzione, per assenza di lesione.

La valutazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie sarà fatta con perizia giurata, tenendo conto sia del patrimonio statico che di quello dinamico; tutti i partecipanti ne saranno edotti e l’approveranno e la quantificazione delle loro quote di legittima sarà, così, oggettivamente verificabile.

9) b) mortis causa.

Il secondo momento attributivo si realizza, invece, mortis causa, con l’apertura effettiva della successione dell’imprenditore.

Rispetto a quella prima, equa ripartizione, lo scenario familiare può essere mutato, nel senso che possono essere sopravvenuti altri legittimari (coniuge in seconde nozze e figli legittimi, figli naturali riconosciuti) che non avendo partecipato al patto di famiglia non hanno avuto attribuzioni in sostituzione di legittima, come invece è accaduto per i partecipanti all’atto. Volutamente uso il termine “sostituzione di legittima” perché intendo richiamare la distinzione tra legato “in conto” o “in sostituzione”: il primo consente di chiedere il supplemento di legittima, una volta imputato ex se, il secondo lo esclude.

Con il patto di famiglia la quota di legittima pre-liquidata inter vivos non può essere computata al momento dell’apertura della successione, né se nel frattempo l’impresa ha avuto incrementi di valore anche notevoli, può essere chiesto un supplemento alla quota di legittima già percepita (liquidata dice il legislatore all’art. 788-quater, comma 2).

La quota cui avrà diritto il legittimario sarà infatti parziale, nel senso che riguarderà tutti gli altri beni facenti parte del patrimonio dell’imprenditore defunto ad eccezione dell’azienda, i cui conguagli sulla sua attribuzione sono già stati liquidati col patto di famiglia. Non è pertanto ipotizzabile una richiesta di supplemento di legittima, mentre è disciplinata una liquidazione retroattiva, con tanto di interessi legali, per quei legittimari che non hanno partecipato alla simulazione di successione.

Così argomentando, l’inserimento dell’art. 768-bis dopo l’art. 768, relativo alla alienazione della quota ereditaria, ha l’effetto di considerare l’azienda, come ha già fatto la Novella n. 151/75 per la comunione legale, come un complesso di beni autonomo rispetto al resto del patrimonio (dei coniugi, con riguardo all’art. 191, comma 2, c.c., del de cuius con riguardo all’art. 768-bis).

Si spiegherebbe, pertanto, perché solo i legittimari che non hanno partecipato al patto di famiglia – vale a dire al momento attributivo-distributivo perfezionatosi inter vivos – possano richiedere, all’apertura della successione, ai sensi dell’art. 768-septies, ai beneficiari del patto il pagamento delle somme previste dall’art. 768-quater, comma 2. E possono, in caso di mancato ricevimento della liquidazione stessa, da farsi in questa sede solo in denaro, impugnare il patto di famiglia, ancorché non vi abbiano partecipato.

C’è da domandarsi se questa impugnazione sia da intendersi come litisconsorzio necessario, coinvolgente cioè anche quei legittimari che non avevano più diritto a collazione o a riduzione, essendo stati anticipatamente tacitati sulla quota all’epoca loro spettante, ovvero se, specificando la norma che trattasi di un credito, liquido ed esigibile, l’impugnativa riguardi solo i legittimari “sopravvenuti”. Propenderei per questa seconda interpretazione in quanto per la prima categoria di legittimari, trascorso un anno dalla stipula del patto di famiglia, il potere di impugnarlo per vizi del consenso (art.1427 ss.) si prescrive.

10) La forma del patto di famiglia.

L’art. 768-ter prescrive che il contratto debba essere concluso per atto pubblico a pena di nullità.

Sembrerebbe, quindi, che poco resti da dire sulla forma del patto di famiglia, se non fosse per una problematica squisitamente notarile: atto pubblico con o senza testimoni?

L’orientamento già espresso[22] che le convenzioni coniugali dovessero essere stipulate in presenza di testimoni, anche se l’art. 162, comma 1, c.c. prescrive, anche qui a pena di nullità, solo la forma pubblica, è stato recepito di recente anche dal legislatore della c.d. “semplificazione amministrativa”.

L’art. 12, comma 1, lett. c) della legge 28 novembre 2005, n. 246, ha sostituito l’art. 48 della legge notarile 18 febbraio 1913, n. 89, con il seguente:”Oltre che in altri casi previsti per legge è necessaria la presenza di due testimoni per gli atti di donazione, per le convenzioni matrimoniali e le loro modificazioni e per le dichiarazioni di scelta del regime di separazione dei beni nonché qualora anche una sola delle parti non sappia o non possa leggere e scrivere ovvero una parte o il notaio ne richieda la presenza. Il notaio deve fare espressa menzione della presenza dei testimoni in principio dell’atto.” Ovviamente, nulla poteva prevedere per una norma ed un tipo contrattuale non ancora venuti ad esistenza, ma se il patto di famiglia non è una convenzione coniugale, in quanto il coniuge vi partecipa per la sua qualità di legittimario e non per lo status di coniuge, è un atto di liberalità, ancorché non donativo. Ritengo, pertanto, che la presenza dei testimoni sia opportuna, perché pur trattandosi, per espressa denominazione legislativa, di un contratto, il patto di famiglia è pur sempre un actus familiae e proprio quella sua collocazione dopo l’art.768 c.c., per attuare inter vivos il trasferimento di quelle che sarebbero le quote ereditarie dell’azienda o della governance, rende imprescindibile che la massima garanzia della forma solenne sia rafforzata anche dai testi.



[1] Nella proposta di legge n. 3870 si prevedeva “l’assegnazione” dell’azienda e non, come nel testo definitivo, il “trasferimento”, giustificando così la necessità di un successivo contratto “collegato”. Si è però ritenuto che il trasferimento avendo, a differenza dell’assegnazione, effetto reale e non obbligatorio non configurasse, stante l’efficacia immediata, una disposizione per il periodo successivo all’apertura della successione, e quindi un patto successorio, onde si è preferito optare per questa forma di successione inter vivos. La norma conserva tuttavia tracce della precedente impostazione quando parla di “beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda” (art.768-quater, comma 3), generando così l’equivoco che le assegnazioni non siano una liquidazione, come esattamente precisa il secondo comma del medesimo articolo, ma possano essere fatte ai legittimari non assegnatari direttamente dal padre o dall’avo disponente; addirittura, come è stato ipotizzato nei primi Convegni sul tema, dalla moglie del trasferente.

[2] La rilevanza della componente economica della famiglia, con particolare riguardo all’azienda coniugale ed alle conseguenze della mala gestio ai sensi dell’art. 193 c.c. è illustrata ampiamente da G. OPPO, Diritto di famiglia e diritto dell’impresa, in Scritti giuridici. Persona e famiglia, Vol. V, Padova, 1992, p. 177 ss.

[3] Cfr. sul punto, in generale, G. IUDICA, Fondazioni, fedecommesserie, trusts e trasmissione della ricchezza familiare, in AA.VV., La trasmissione familiare della ricchezza, Milano, 1995, p.97 ss.; per un sintetico quadro del fenomeno sul versante europeo, P. MANES, Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare, in Contratto e impresa, 2006, n.2, p. 539, ss.

[4] M.C. Andrini, L’autonomia privata dei coniugi tra status e contratto. Le convenzioni coniugali, Torino, 2006, p. 197 ss.

[5] M.C. ANDRINI, Gli effetti personali della separazione e del divorzio, in Separazione e divorzio, diretto da G. FERRANDO, vol. II, Torino, 2003, p.573 ss.

[6] Per una corretta valutazione delle diverse conflittualità del diritto di impresa con la proprietà dell’azienda, nel caso di coniugi titolari dell’azienda coniugale, v. Trib. Roma, 16 settembre 1999, (in Fam. e dir., 2000, p.183, con nota di P. SCHLESINGER). Il Tribunale, richiesto di individuare le norme applicabili, ha ritenuto si dovessero distinguere i rapporti proprietari ex art.177 c.c. da quelli concernenti la gestione ex art.2247c.c. Sulle problematiche connesse al trasferimento dell’azienda familiare v. P. SCHLESINGER, Interessi dell’impresa e interessi familiari nella vicenda successoria, in AA.VV., La trasmissione familiare della ricchezza, Milano, 1995, p. 131 ss.

[7] Cfr. La successione ereditaria nei beni produttivi, a cura del Gruppo di lavoro su “La successione dell’impresa nella famiglia”, in Riv. dir. priv.,1998, I, p. 353 ss.; M. IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. not.,1997, I, p. 1371 ss.; A. ZOPPINI, Il patto di famiglia. Linee per la riforma dei patti sulle successioni future, in Riv. dir. priv., 1998, IV, p.255 ss.

[8] A. PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. 3; M. IEVA, I fenomeni c.d. parasuccessori, in Riv. not., 1988, I, p. 1139.

[9] E. DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma, in Riv. not., 2001, I, p. 633 ss.

[10] A. PALAZZO, Arte stipulatoria e funzione del notaio nell’attività negoziale di trasferimento della ricchezza familiare, in Vita not., 2001, I, p. 452 ss.

[11] Cfr. Raccomandazione 94/1069/CE, pubblicata in G.U.C.E. del 31 dicembre 1994, L 385, la quale constatando la difficoltà di trovare all’interno della famiglia un successore affidabile per proseguire l’attività di impresa, indicava come alternativa alla vendita dell’impresa la pianificazione in vita della successione dell’imprenditore.

[12] In proposito, ricordo il recente intervento legislativo del D. Lgs. 29 marzo 2004, n.99, che ha abrogato gli artt. 846, 847 e 848 del codice civile, avente ad oggetto la tutela dell’integrità aziendale nell’ambito dell’impresa agraria, con la costituzione del c.d. compendio unico, (art.7 del Decreto n.99 che introduce l’art.5-bis al D.lgs. 18 maggio 2001, n.228). Per compendio unico si intende l’estensione di terreno necessaria al raggiungimento del livello minimo di redditività, determinato dai piani regionali di sviluppo rurale per l’erogazione del sostegno agli investimenti previsti dai Regolamenti CE n.1257/1999 e 1260/1999, e successive modificazioni. Le agevolazioni fiscali relative alle imposte di registro, trascrizione, catasto e bollo (esenzione totale) e la riduzione degli onorari notarili ad un sesto, in favore della costituzione del compendio unico od in caso di maso chiuso (legge 28 novembre 2001, n. 17 della Provincia autonoma di Bolzano), spettano, nei trasferimenti di immobili agricoli e relative pertinenze, compresi i fabbricati, agli acquirenti coltivatori diretti od imprenditori agricoli professionali (IAP) che si impegnino a condurre direttamente il compendio od il maso per dieci anni: e ciò, sia che l’acquisto avvenga per atto tra vivi che mortis causa. Gli immobili costituiti in compendio unico sono considerati unità indivisibili per dieci anni e gli atti tra vivi o le disposizioni testamentarie che hanno per effetto il frazionamento del compendio unico sono nulli. Qualora nel periodo di vigenza del vincolo di indivisibilità muoia l’imprenditore agricolo professionale o il coltivatore diretto ed i beni facenti parte dell’asse ereditario non consentano la soddisfazione di tutti i legittimari, si provvede all’assegnazione del compendio all’erede che ne faccia richiesta con addebito dell’eccedenza. Ai sensi dell’art.5 -bis, comma 6, aggiunto dal D.Lgs. n.99/2004 al D. Lgs. n.228/2001, “a favore degli eredi, per la parte non soddisfatta, sorge un credito di valuta garantito da ipoteca iscritta a tassa fissa sui terreni caduti in successione, da pagarsi entro due anni dall’apertura della stessa con un tasso inferiore di un punto a quello legale”. In caso di controversie sul valore da assegnare al compendio unico o relativamente ai diritti agli aiuti comunitari e nazionali presenti nel compendio stesso, le parti possono richiedere un arbitrato alla Camera arbitrale od allo sportello di conciliazione di cui al D.M. 1° luglio 2002, n.743 del Ministero delle Politiche agricole e forestali (art.5-bis, comma 7). In caso di mancata richiesta di assegnazione da parte degli eredi (“se nessuno degli eredi richiede l’attribuzione preferenziale”, recita il comma 8), sono revocati i diritti agli aiuti comunitari e nazionali, ivi compresa l’attribuzione di quote produttive, assegnati all’imprenditore defunto per i terreni oggetto della successione. Con conseguente perdita, per l’impresa, di produttività e di valore, vale adire di quegli elementi che la tecnica aziendale denomina valore economico del capitale (VEC), comprensivo delle contingenze, delle sinergie e delle opzioni strategiche.

[13] P. RESCIGNO, Consenso, accordo, convenzione, patto,(La terminologia legislativa nella materia dei contratti), in Contratto, I, In generale, in Enc. Giur. Treccani, IX, Milano, 1988, p. 9-10.

[14] S. PATTI, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, I, p. 285 ss. L’art.458 recita ancora, dopo la Novella n.55/2006, “E’ nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione.”

[15] L’esclusione dei rimedi della risoluzione e della rescissione potrebbe giustificarsi alla luce della natura del patto di famiglia, contrattuale sì, come sancisce il legislatore, ma pur sempre convenzionale, come recita l’art. 458 c.c.

[16] M.C. ANDRINI, La scelta del tipo contrattuale, in Riv. dir. priv.2004, p.707 ss.

[17] Così P. MOROZZO DELLA ROCCA, Gratuità, liberalità e solidarietà, Milano, 1998, p. 74.

[18] A. PALAZZO, Le donazioni, Milano, 1991, p.300.

[19] La collazione, essendo un’operazione predivisionale (M.C. ANDRINI, La collazione, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, vol.II, p.111 ss., ivi p.112) non potrebbe riguardare il patto di famiglia che non ha natura di negozio divisorio.

[20] M.C. ANDRINI, voce Legittimari, in Enc. Giur. Treccani, vol.XVIII, Roma 1990

[21] M.C. .ANDRINI, Invalidità, simulazione e frode alla legge (con particolare attenzione alle conseguenze in tema di responsabilità ex art.28 della legge notarile), in M. BESSONE, Casi e questioni di diritto privato per la pratica notarile, Parte II, Milano, 1998, p.271 ss.; Eadem, Responsabilità del notaio e atto annullabile. Aspetti notarili e nuovo orientamento della Cassazione sull’art.28 L. N., in Vita not., 1998, I, p. 701; N. LIPARI, Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, p.361; C. DONISI, L’art.28: baricentro della funzione notarile, in Atti del XXXIX Congresso Nazionale del Notariato, Milano, 10-13 novembre 2002, pubblicato a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 2003.

[22] M. C. ANDRINI, L’autonomia privata dei coniugi fra status e contratto cit..