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Il processo milanese Eni Shell: riflessioni in corso d’opera

La città muta - Movimenti (III)
Ph. Anuar Arebi / La città muta - Movimenti (III)

Abstract

Poco tempo addietro il Tribunale di Milano ha depositato la motivazione della sentenza con cui ha assolto alti dirigenti delle società Eni e Shell dall’accusa di corruzione transnazionale per la quale erano stati rinviati a giudizio. Lo scritto offre alcune considerazioni sulle caratteristiche essenziali del dibattimento e sui suoi momenti cruciali.

A short time ago, the Court of Milan filed the grounds of the judgment in which it acquitted senior executives of the companies Eni and Shell from the accusation of transnational corruption for which they had been indicted. The paper offers some considerations on the essential characteristics of the trial and its crucial moments.

 

Sommario

1. Note introduttive

2. Il capo di imputazione nei termini risultanti dal decreto che dispone il giudizio

3. Le condotte specifiche contestate a ciascun imputato e le rispettive qualifiche all’epoca dei fatti

4. L’illecito amministrativo ex D. Lgs. 231/2001

5. Lo svolgimento del processo

6. Il reato contestato e l’imputazione

7. La legittimità dell’operazione OPL 245

8. Il criterio probatorio

9. La responsabilità penale e il reato concorsuale

10. La posizione di Vincenzo Armanna

11. Considerazioni conclusive

 

Summary

1. Introductory notes

2. The charge in the terms resulting from the decree ordering the judgment

3. The specific conduct challenged to each accused and their respective qualifications at the time of the facts

4. The administrative offense pursuant to Legislative Decree 231/2001

5. The development of the process

6. The alleged offense and the charge

7. The legitimacy of the OPL 245 operation

8. The probative criterion

9. Criminal liability and the collective participation in the crime

10. The position of Vincenzo Armanna

11. Concluding remarks

 

1. Note introduttive

Il 17 marzo 2021, a poco meno di tre anni dalla prima udienza, si è concluso, con l’assoluzione per insussistenza del fatto di tutti gli imputati, il primo grado del giudizio penale celebrato dal tribunale di Milano nei confronti di Paolo Scaroni ed altri che nella semplificazione mediatica è stato identificato come processo Eni Nigeria o Eni Shell.

Meno di tre mesi dopo, precisamente il 9 giugno 2021, è stata depositata la motivazione della sentenza.

Negli ultimi giorni del mese di luglio sia la procura della Repubblica di Milano che la parte civile Repubblica Federale della Nigeria hanno depositato appello contro la decisione.

La particolarità dell’imputazione contestata (un’ipotesi di corruzione transnazionale che avrebbe comportato il pagamento di un importo superiore a un miliardo di dollari, cui è stata affiancata l’azione di responsabilità nei confronti delle società Eni Spa (d’ora in avanti Eni) e Royal Dutch Shell (d’ora in avanti Shell) ai sensi del decreto legislativo 231/2001), l’elevato standing di molti imputati (manager di vertice delle predette società, esponenti dell’establishment nigeriano, intermediari in contatto con importanti istituti di credito), l’ampiezza dell’istruttoria dibattimentale, l’emersione di ipotizzate condotte extraprocessuali volte ad alterare in varie forme l’esito del giudizio, il forte seguito mediatico, sono tutti elementi che conferiscono al giudizio milanese e al suo esito provvisorio un rilevante interesse e offrono l’occasione di una riflessione giuridica su un’opera valutativa e interpretativa ancora in formazione.

L’assenza di un esito definitivo genera peraltro un particolare effetto: il centro della scena non è occupato dalla decisione del giudice di primo grado ma dal modo in cui ci è arrivato, dalle scelte che ha fatto, dalle regole che ha seguito, dalla selezione degli elementi conoscitivi utilizzabili, dalle risposte che ha dato agli impulsi (o alle inerzie) delle parti.

In altri termini, più della decisione in se stessa conta e interessa provare a capire la sua capacità di tenuta futura.

D’altro canto, l’analisi qui proposta non può e non vuole essere una revisione parallela a quella che spetterà ai giudici dei gradi successivi. Il suo obiettivo è assai diverso e consiste nel tentativo di individuare le caratteristiche salienti e i momenti cruciali del dibattimento di primo grado.

La “materia prima” sarà costituita essenzialmente dalla motivazione della sentenza[1] (più propriamente dalle sue parti ritenute di interesse per questo lavoro) ma, ove necessario, si attingerà anche ai verbali di udienza o a fonti esterne, indicandone i riferimenti di volta in volta.

Si ricorda infine, per i lettori che fossero interessati,  che la società Eni ha inserito nel proprio sito web aziendale un ampio spazio in cui sono allegati vari documenti attinenti al giudizio ed è esposta la versione dei fatti accreditata da Eni stessa.

 

2. Il capo di imputazione nei termini risultanti dal decreto che dispone il giudizio

Tutti gli imputati sono stati chiamati a rispondere, in concorso tra loro (art. 110 c.p.) e con l’aggravante di essere in numero di cinque persone o più (art. 112, comma 1, n. 1, c.p.), del delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (artt. 319 e 321 c.p.), rivolto nei confronti di persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell'ambito di altri Stati esteri (art. 322-bis, comma 2, n. 2, c.p.), aggravato ai sensi degli artt. 3 e 4 della Legge 146/2006 in quanto reato transnazionale.

Il delitto è stato contestato come commesso in Milano, Abuja, L’Aja, Londra, Lugano e altri luoghi tra l’autunno del 2009 e il 2 maggio 2014.

La condotta complessivamente contestata agli imputati sarebbe consistita nel compimento di attività convergenti tra loro e finalizzate a fare acquisire alle società Eni e Shell una quota pari al 50% ciascuna dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero 245 sito in Nigeria a fronte del pagamento dell’importo di $ 1.092.040.000 alla società Malabu (riconducibile a Dan Etete).

Nel capo di imputazione è ulteriormente specificato che: la titolarità dei diritti vantati da Malabu sul blocco 245 era stata acquisita illegalmente; nelle trattative finalizzate al suo trasferimento ad Eni e Shell era stato convenuto che circa 300 milioni dell’importo pagato dalla due multinazionali sarebbero stati assegnati ad Etete; la restante parte del corrispettivo sarebbe stata destinata in gran parte al presidente nigeriano Jonathan Goodluck, ad influenti membri del Governo federale nigeriano e ad altri importanti pubblici ufficiali del Paese; questi pagamenti sarebbero serviti ad ottenere che tutti costoro si adoperassero per l’adozione di un atto transattivo (effettivamente stipulato il 29 aprile 2011) che attribuiva ad Eni e Shell i diritti di esplorazione sul blocco 245 a condizioni di estremo favore e illegali (poiché: i) senza una procedura di gara; ii) ad un prezzo stabilito unilateralmente dalle acquirenti; iii) ledendo la riserva di quote garantita a favore delle compagnie locali; iv) accordando la totale e incondizionata esenzione da tutte le imposte nazionali; v) applicando un regime fiscale favorevole cui si affiancava una clausola di salvaguardia da future eventuali modifiche del regime fiscale; vi) adottando limiti e vincoli tali da impedire al Governo nigeriano di subentrare nello sfruttamento del blocco petrolifero; vii) obbligando il medesimo Governo a tenere indenni le acquirenti da ogni tipo di azione legale e dai conseguenti effetti negativi connessi al blocco); l’importo concordato nelle trattative fu versato da Nigerian Agip Exploration (NAE) su un conto di deposito intestato al Governo nigeriano presso la sede londinese della JP Morgan Chase e pochi giorni dopo trasferito su un conto intestato alla Petrol Service Company di Gianfranco Falcioni presso la BSI di Lugano dal quale furono poi distribuite quote ai vari pubblici ufficiali nigeriani coinvolti nella manovra.

 

3. Le condotte specifiche contestate a ciascun imputato e le rispettive qualifiche all’epoca dei fatti

Paolo Scaroni (amministratore delegato e direttore generale di Eni)

Gli si contesta:

  • di avere approvato l’intermediazione di Emeka Obi suggerita da Bisignani e invitato Descalzi ad adeguarsi;
  • di avere incontrato personalmente il presidente nigeriano Goodluck Jonathan durante il perfezionamento degli accordi;
  • di avere approvato l’intera operazione ed esserne stato costantemente informato.

Claudio Descalzi (direttore generale della divisione exploration & production di Eni)

Gli si contesta:

  • di avere tenuto contatti con Emeka Obi e con i dipendenti operativi di Eni in Nigeria (Armanna e Casula) e di essere stato informato della richiesta di commissioni:
  • di avere ricevuto da Bisignani indicazioni sul comportamento da tenere;
  • di avere concordato con Brinded il prezzo per l’acquisto del blocco 245 tenendo costantemente informato Scaroni e partecipando con lui all’incontro decisivo col presidente nigeriano.

Roberto Casula (responsabile Eni per le attività operative e di business nell’Africa subsahariana)

Gli si contesta:

  • di avere sottoscritto, per conto di NAE, gli impegni con Obi;
  • di avere tenuto costantemente informato Descalzi;
  • di essere stato in contatto con Robinson, il suo omologo in Shell, e di avere concordato con costui i termini dell’affare e delle commissioni;
  • di avere partecipato a varie riunioni con pubblici ufficiali e intermediari finalizzate alla definizione dell’affare;
  • di essere stato consapevole dei movimenti di denaro successivi all’accordo transattivo.

Vincenzo Armanna (senior advisor di Nigerian Agip Oil Company e vicepresidente di Eni per le attività upstream subsahariane)

Gli si contesta:

  • di avere tenuto fin dalla fase iniziale rapporti con Emeka Obi e Dan Etete nella piena consapevolezza dell’illecita destinazione finale delle somme versate da Eni e della retrocessione di una parte dell’importo complessivo a dirigenti Eni e Shell;
  • di avere tenuto rapporti con Bisignani;
  • di avere partecipato a varie riunioni con pubblici ufficiali e intermediari nigeriani per concordare le condizioni finanziarie dell’affare e lo schema negoziale da utilizzare;
  • di avere partecipato al trasferimento del denaro versato da Eni sul conto governativo presso la JP Morgan Chase ai successivi destinatari;
  • di avere personalmente ricevuto la somma di $ 917.952 con una falsa causale.

Ciro Antonio Pagano (managing director di NAE – Nigerian Agip Exploration)

Gli si contesta:

  • di avere sottoscritto per conto di NAE l'offerta per l'acquisto del 100% del "participating interest" di Malabu nell'OPL 245 e l’accordo transattivo del 28 aprile 2011;
  • di essersi riunito più volte con dirigenti Shell per concordare i termini dell’affare e delle commissioni.

Ednan Tofik Ogly Agaev (titolare della società International Legal Consulting)

Gli si contesta:

  • di avere svolto funzioni di intermediazione su incarico di Dan Etete;
  • di essersi a tal fine incontrato più volte con dirigenti Shell;
  • di avere acquisito informazioni da pubblici ufficiali nigeriani.

Luigi Bisignani (nessuna particolare qualifica)

Gli si contesta:

  • di avere rappresentato a Scaroni la possibilità di concludere l’affare dell’OPL 245 e di averne ricevuto il via libera;
  • di avere discusso delle medesima questione con Descalzi e Armanna e di avere fornito loro suggerimenti su come condurre la trattativa.

Gianfranco Falcioni (titolare della Petrol Service Co.)

Gli si contesta:

  • di avere accettato ed eseguito il compito di redistribuire il denaro versato da Eni;
  • di avere costituito a tal fine la società Petrol Service Co. e aperto un conto ad essa intestato presso la BSI di Lugano.

Dan Etete (rappresentante della società Malabu)

Gli si contesta:

  • di essere stato uno dei personaggi di maggiore spicco dell’affare, in virtù della sua titolarità, ottenuta con mezzi illegali, della società Malabu, detentrice della licenza di esplorazione del blocco 245.

Malcolm Brinded (head upstream ed executive director di Royal Dutch Shell)

Gli si contesta:

  • di avere avuto piena consapevolezza dell’affare;
  • di avere concordato col suo omologo Descalzi il prezzo e la posizione che avrebbero dovuto tenere Eni e Shell.

Guy Jonathan Colegate e John Coplestone De Carteret (già membri dell’MI6[2], senior business advisors e strategic investment advisors di Royal Dutch Shell)

Gli si contesta:

  • di avere agevolato Shell nella conclusione dell’affare, raccogliendo informazioni sulle pretese economiche del presidente e dei pubblici ufficiali nigeriani, tenendo contatti con Agaev, coordinandosi con Robinson e altri dirigenti Shell.

Peter Robinson (vicepresidente commerciale  per l’Africa subsahariana di Royal Dutch Shell)

Gli si contesta:

  • di essere stato costantemente in contatto con Colegate e Coplestone durante la trattativa;
  • di avere incontrato Obi più volte;
  • di essere stato in contatto col suo omologo Casula;
  • di avere partecipato a riunioni con pubblici ufficiali nigeriani.

A costoro si aggiungono gli imputati Gianluca Di Nardo, Emeka Obi e Alhaji Abubakar Alyu nei cui confronti si è proceduto separatamente[3].

 

4. L’illecito amministrativo ex D. Lgs. 231/2001

Ad Eni e Shell è stato contestato l’illecito amministrativo previsto dagli artt. 5, 6, 7 e 25 commi 3° e 4° D. Lgs. 231/2001, in riferimento all’imputazione principale di corruzione.

Le condotte personali di collegamento sono state così individuate: quanto ad Eni, quelle di Scaroni, Descalzi e Casula (apicali) e di Armanna e Pagano (sottoposti); quanto a Shell, quelle di Brinded e Robinson (apicali) e di Colegate e Coplestone (sottoposti)[4].

 

5. Lo svolgimento del processo

È descritto nel capitolo 1 (pagg. 19-58) della motivazione.

È una parte fisiologica di ogni motivazione e, altrettanto fisiologicamente, chi la scrive la considera come un compito rutinario, da assolvere con elenchi di date, nomi, eventi e  provvedimenti, e chi la legge lo fa in modo svogliato e distratto: scrittori e lettori sanno entrambi che il cuore del processo non è lì e che ciò che conta per comprenderne l’essenza è altrove.

In questo caso, invece, la descrizione dell’iter processuale è la ricostruzione del viaggio triennale compiuto dal collegio, dei principi che lo hanno ispirato, del suo modo di intendere la funzione e gli scopi propri del giudice dibattimentale di merito.

Questa prima parte della motivazione equivale dunque a una sorta di editto pretorio il quale rende note le direttrici che hanno guidato il giudizio e determinato il suo esito.

Se ne possono trarre alcune impressioni generali che riportano tutte al senso che il collegio e il suo presidente hanno attribuito al proprio ruolo.

L’”idea” comunicata al lettore è di uno spiccato rigore nella custodia dell’ortodossia processuale.

Una prima conferma viene dalla cura capillare dell’effettività del contraddittorio e dall’attenzione, non di facciata ma reale, alle proposizioni delle parti.

Lo stesso può dirsi riguardo all’accuratezza della motivazione di ogni decisione processuale attraverso l’esposizione precisa delle questioni poste, delle argomentazioni sostenute dalle parti, delle ragioni delle scelte compiute e dei principi e indirizzi interpretativi che le hanno sostenute.

Va nella medesima direzione il confronto non soggiacente con la giurisprudenza di legittimità, abitualmente risolto attraverso l’indicazione preventiva dei principi ispiratori privilegiati dal collegio che si è dunque riservato una spiccata autonomia interpretativa.

Una costante attenzione è stata infine attribuita allo statuto garantistico degli imputati, tenuto presente in ogni scelta organizzativa e procedurale.

Queste caratteristiche generali hanno ovviamente prodotto effetti specifici.

Se ne trova una prima ed evidente traccia nei continui interventi di aggiustamento del contenuto del fascicolo dibattimentale, sul quale il collegio ha esercitato un controllo occhiuto rifiutando il ruolo di mero recettore di moli documentali indiscriminate.

Un ulteriore caso significativo è il rigetto della richiesta di acquisizione del materiale intercettivo formato dalla procura di Napoli e trasmesso a quella di Milano. Spiccano in questo caso il richiamo e la valorizzazione della sentenza n. 366/1991 della Consulta e, ancora di più, l’intento di evitare il “corto circuito probatorio” che sarebbe innescato se i limiti posti dall’art. 270 c.p.p. fossero superabili sulla base di connessioni impalpabili o, peggio, artificiosamente create. È perfino inutile sottolineare che una decisione del genere non era affatto scontata se solo si considera che negli anni la giurisprudenza di legittimità ha esteso fino all’inverosimile l’esportabilità dei risultati intercettivi dal procedimento originario a quelli asseritamente derivati; solo di recente sono affiorati indirizzi, anche a Sezioni unite, che hanno messo un freno a queste derive tra vari mugugni. Sul medesimo punto, il collegio non ha mancato peraltro di sottolineare (pag. 34) le sollecitazioni ad un attivismo giudiziario provenienti dalle organizzazioni non governative Re:Common, Global Witness e The Corner House[5].

Altrettanto “identitarie” possono essere considerate la puntuale definizione del concetto di documenti acquisibili[6] e la previsione di limiti chiari all’attività integrativa di indagine svolta dal PM così da evitare o contenere al massimo le “prove a sorpresa” e la conseguente menomazione della partecipazione difensiva al contraddittorio.

 

6. Il reato contestato e l’imputazione

Se ne parla nel capitolo 2 della motivazione (pagg. 59-69).

L’intera parte in esame è usata per la specificazione del contenuto e la delimitazione dei confini dell’imputazione[7].

Sembra a chi scrive di dover condividere l’operazione compiuta dal collegio giudicante.

Stipare nel medesimo contenitore del capo di imputazione elementi conoscitivi e formule proprie della fattispecie contestata genera indubbiamente una confusione che non si esaurisce in se stessa.

La corretta formulazione dell’imputazione come testo linguisticamente autonomo è imprescindibile ove si voglia seguire l’ordine fisiologico delle sentenze (imputazione>motivazione>decisione).

Se invece l’imputazione viene costruita come elencazione di elementi acquisiti nelle indagini preliminari, l’effetto è quello di costringere il decisore a creare egli stesso l’imputazione come conseguenza della valutazione dei dati acquisiti nell’istruttoria dibattimentale. All’ordine fisiologico si sostituisce in questo caso un ordine patologico (motivazione>imputazione>decisione o, nei casi peggiori, decisione>motivazione>imputazione).

Considerazioni analoghe fece nel 2012 il sostituto procuratore generale presso la Corte di  Cassazione Francesco Mauro Iacoviello nella sua notissima requisitoria in occasione del procedimento Dell’Utri che intitolò significativamente “l’imputazione che non c’è[8].

Il tribunale ha dovuto dunque tracciare esso stesso i confini dell’imputazione, in questo modo correggendo l’accusa che aveva confezionato un manifesto fluido, flessibile e indifferenziato.

Si è dunque in presenza di una patologia sicché l’intervento del collegio ha avuto una chiara finalità conservativa, perché un’imputazione ancora ci fosse.

Del resto, ognuno dei profili che il tribunale ha ritenuto meritevoli di puntualizzazione è oggettivamente essenziale nell’economia dell’imputazione e le conclusioni cui il collegio è arrivato sono in linea con indirizzi interpretativi consistenti e logici.

 

7. La legittimità dell’operazione OPL 245[9]

Il tema è trattato nel capitolo 3 (pagg. 70-90) ed ha come suoi oggetti specifici l’assegnazione della licenza alla società Malabu[10], la successiva revoca dei diritti di esplorazione ad opera del Governo nigeriano, l’annoso contenzioso giudiziario che ne derivò, la sua conclusione tramite un accordo transattivo che reintegrava Malabu nei diritti derivanti dalla licenza, il progressivo e sempre più intenso coinvolgimento delle multinazionali Shell e Eni culminato nell’acquisizione dei citati diritti esplorativi.

Si entra in tal modo nel cuore del processo e nella fase più squisitamente valutativa.

Sono infatti giudizi, e non più mere ricognizioni di dati, quelli sulla nozione di conflitto di interesse nell’ordinamento interno nigeriano, sulla legittimità dell’assegnazione di OPL 245 a Malabu,  del Settlement Agreement del 2006[11] e degli eventi successivi che permisero l’intestazione finale della licenza a Eni e Shell.

Ci si potrebbe astrattamente chiedere se il collegio avrebbe potuto decidere in modo diverso.

Sarebbe però una domanda impropria dati i presupposti ai quali è legato questo scritto.

Quello che conta è che ognuna delle valutazioni è stata compiuta sulla base di un percorso chiaro, riconoscibile, connesso a elementi conoscitivi o giudizi consulenziali specificamente indicati, munito di una logica plausibile.

Così come conta che la parte pubblica abbia offerto al collegio una chiave di lettura pan-corruttiva, così totalizzante e indifferenziata da risultare difficilmente sostenibile.

Al tempo stesso, il tribunale ha mostrato (pag. 90) di avere interpretato gli eventi sulla base di una sua visione autonoma della geopolitica e dei limiti entro i quali è lecito il perseguimento degli scopi sociali di un global player come è certamente Eni[12].

È ugualmente legittimo, naturalmente, sia convenire  con questa tesi sia ritenerla inadeguata ma ciò che davvero conta è che una visione bisogna averla a pena di non disporre di uno sfondo realistico entro cui collocare l’intera vicenda e di doversi quindi basare su suggestioni moralistiche che non si addicono al giudice penale.

Per le stesse ragioni, sarebbe vano provare a comprendere se il tribunale abbia o meno valorizzato implicitamente una sorta di “ragion di Stato”, servendosi di una chiave di lettura che ha incluso la comprensione e valorizzazione delle esigenze di una holding internazionale di muoversi liberamente negli scenari esteri così da poter perseguire al meglio i suoi interessi e quelli dello Stato che ne ha il controllo effettivo.

Si può solo ribadire che un giudizio privo della giusta dose di realismo e che accrediti la necessità di comportamenti inesigibili è un non-giudizio, nel senso che il giudice sostituisce alla realtà un suo pantheon personale.

 

8. Il criterio probatorio

L’argomento è trattato nel capitolo 5 (pagg. 228-238).

Mentre nelle parti precedenti la motivazione si è snodata in sequenze dal rigore cartesiano, qui il suo incedere diventa piuttosto frastagliato.

Si inizia infatti con una considerazione che respinge la pretesa dell’accusa, a fronte di difficoltà di accertamento asseritamente spintesi oltre l’ordinario, di abbassare lo standard dimostrativo necessario[13].

Seguono un passaggio definitorio dei requisiti della prova indiziaria  e la condanna del cosiddetto risultato indiziario debole che, ove applicato, consentirebbe valutazioni probabilistiche inappropriate nel giudizio penale[14].

Si conclude infine (pagg. 231 e ss.) con la comparazione tra l’ipotesi accusatoria e le ipotesi alternative ad essa e lo si fa non a scopo decisorio ma al più limitato fine di dimostrare plasticamente l’incapacità del criterio probabilistico di pervenire a risultati certi.

Ora, dal momento che la motivazione nel suo complesso si staglia come un’opera pensata e costruita in ogni sua parte e rispettosa senza sbavature di un piano lucido che l’ha caratterizzata dall’inizio alla fine, si deve necessariamente ammettere che anche questo pezzo del mosaico abbia le sue ragioni e pare di poterle individuare nei termini che seguono.

Sebbene i capitoli precedenti siano serviti a preparare la strada, il tribunale avverte adesso l’esigenza di giustificare meglio la demolizione della tesi accusatoria che avverrà in modo sistematico a partire dal capitolo successivo; il collegio vuole cioè disporre preventivamente di un criterio oggettivo o almeno fortemente plausibile e sceglie di ricavarlo per differenziazione: attribuisce all’accusa l’indebita pretesa di applicare un diritto penale speciale (pag. 228) e sottolinea l’inadeguatezza del criterio probabilistico, dimostrando che se si cedesse alla tentazione di seguirlo, si perverrebbe ad una pluralità di conclusioni, tutte astrattamente sostenibili.

Il capitolo 5 serve quindi al tribunale per accreditarsi come organo capace di smarcarsi dall’insensatezza della valutazione probabilistica e di  servirsi di criteri più oggettivi.

Questa, tuttavia, è almeno in parte una petizione di principio poiché, in realtà, come sarà evidente nei capitoli immediatamente successivi (particolarmente 6/8), il tribunale, venuto a contatto col cuore dei fatti, ha scartato ciò che gli appariva improbabile (poco importa se per incoerenza al senso comune o per l’esistenza di elementi contraddittori o cos’altro) e preferito ciò che gli sembrava più plausibile.

Inoltre, in più di un caso (il capitolo 6 sembra particolarmente indicativo a questo riguardo) si ha l’impressione che il collegio abbia fatto ciò che la giurisprudenza di legittimità sconsiglia di fare, cioè sminuzzare la massa indiziaria e sottoporre a controllo ogni singolo indizio, concedendo poco o nulla al senso che potrebbe essergli dato se valutato congiuntamente ad altri.

Sembra dunque che, a prescindere dalle tante scie luminose indicate ai lettori, il tribunale sia arrivato alla decisione applicando criteri che differiscono solo quantitativamente da quelli proposti dall’accusa: più rigore, più disponibilità alla valorizzazione delle tesi difensive, maggiore sensibilità al criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

È corretto, sia chiaro, al giudice si addice una maggiore valorizzazione del dubbio e, se un’alternativa alla tesi accusatoria gli si affaccia come plausibile, è tenuto a trarne le dovute conseguenze.

Non è invece frequente – certamente non di questi tempi - che il giudice decida di demolire così minuziosamente e irrimediabilmente il lavoro e le tesi dell’accusa.

Tale è stata l’intensità di quest’opera demolitoria da far pensare che la sua necessità non sia stata solo uno scopo ma abbia finito per essere un criterio interpretativo aggiuntivo.

Come dire: nel dubbio si dà torto all’accusa, il che, peraltro, è una piana e dovuta applicazione del principio in dubio pro reo.

È plausibile che questa necessità sia balenata ben presto nella testa dei giudici del collegio, sia stata progressivamente alimentata dall’andamento dell’istruttoria dibattimentale e dalle forti barriere difensive, sia infine divenuta implacabile nella parte conclusiva allorché l’accusa ha manifestato un disagio crescente verso la linea di condotta seguita dal tribunale.

 

9. La responsabilità penale e il reato concorsuale

Se ne parla nel capitolo 9 (pagg. 316-320).

Il tribunale ha continuato ad impartire lezioni di diritto all’accusa.

La demolizione include tutti gli elementi tipici della fattispecie, sia oggettivi che soggettivi.

La motivazione è sempre accompagnata dalla giurisprudenza di riferimento e l’incedere del collegio non presenta sbavature.

Merita tuttavia di essere segnalata una specifica questione.

A pagina 320, sul finire del capitolo, il tribunale ammette che la posizione di Dan Etete potrebbe avere rilievo in connessione alla monetizzazione dei fondi operata da Alaji Abubaker Alyu.

Subito dopo, tuttavia, esclude che la questione possa influenzare il giudizio italiano perché si tratterebbe di un’ipotesi corruttiva consumata per intero in territorio nigeriano e tra nigeriani e sarebbe dunque esclusa la giurisdizione italiana.

Un’analoga valutazione era stata già esplicitata nel capitolo 6 (fine pag. 244 e inizio pag. 245).

L’opinione espressa dal collegio è formalmente corretta ma, al tempo stesso, pare la conseguenza obbligata di uno dei casi di frammentazione del complesso indiziario di cui si è detto in precedenza.

Si può in altri termini ipotizzare astrattamente che ove fosse prevalsa una metodologia valutativa più sinottica, sarebbe stato altrettanto astrattamente possibile individuare elementi tali da giustificare la giurisdizione italiana anche in relazione al rapporto tra Etete e Alyu in relazione a quanto descritto nel capo di imputazione per la posizione del primo. Se questo fosse avvenuto, ne sarebbero verosimilmente potuti derivare riflessi estesi ad un ambito assai più ampio dei due interessati.

 

10. La posizione di Vincenzo Armanna

È trattata nel capitolo 10 (pagg. 321-355).

Per dirla con le parole del  tribunale (pag. 321) “Vincenzo Armanna assume però una posizione distinta rispetto agli altri imputati di questo processo. Infatti, il 30 luglio 2014 egli si presenta spontaneamente presso la Procura della Repubblica di Milano e rende una lunga dichiarazione nella quale afferma che la commissione per Obi era in realtà una retrocessione di denaro agli italiani e che tutti i dirigenti di Eni erano consapevoli che una parte della somma pagata sarebbe andata “a beneficio degli sponsor politici dell’operazione”.

Unico tra tutti i coimputati, quindi, Armanna sceglie di collaborare con la procura milanese e le sue dichiarazioni confluiscono nel contenitore accusatorio e ne diventano un asse portante[15].

Data la particolarità di questa posizione processuale, ben si comprende la speciale attenzione valutativa dedicatale dal tribunale.

La lettura integrale del capitolo in esame evidenzia che il compito è stato assolto in modo quanto mai esteso ed ha compreso finanche un pronunciamento preliminare sulla pertinenza degli elementi descrittivi della condotta specificamente contestata ad Armanna[16].

Il risultato di questo impegno è un giudizio di radicale inattendibilità delle dichiarazioni dell’imputato.

Coerentemente all’iniziale premessa metodologica, ci si astiene da qualunque commento su tale esito.

È invece quantomai pertinente il riferimento ad un episodio cui il tribunale ha attribuito un’elevata importanza proprio in riferimento alla posizione di Armanna[17].

La semplice lettura degli ampi stralci riportati in nota consente di apprezzare la portata dirompente del fatto e dei suoi effetti processuali.

In sintesi: il 28 luglio 2014, cioè appena due giorni prima della sua presentazione spontanea presso la procura di Milano, Vincenzo Armanna partecipa a una riunione assieme all’avvocato Pietro Amara e a tali Paolo Quinto e Andrea Peruzy; la riunione si tiene nei locali della STI Spa riconducibile a Ezio Bigotti; all’insaputa degli altri partecipanti, Amara registra un video dell’incontro; durante la riunione Armanna comunica che farà arrivare “valanghe di merda” tali da mettere in imbarazzo vari dirigenti Eni; la registrazione video è in possesso della procura di Milano, sia pure agli atti di un procedimento diverso da quello esitato nel giudizio dibattimentale in corso; i PM del giudizio sono a conoscenza di quella registrazione ma non la producono, ritenendola irrilevante; l’emersione processuale della sua esistenza avviene pertanto ad iniziativa dell’avvocato Fornari, difensore di Casula.

Un fatto straordinario, senza alcun dubbio, al quale se ne è affiancato un altro di pari dirompenza[18].

Il PM ha introdotto nel giudizio una particolare suggestione, che cioè la ritrattazione sostanziale di Armanna avesse una valenza indiziaria a carico dell’imputato Descalzi e che questa circostanza giustificasse l’esame di Pietro Amara ai sensi degli artt. 493 e 507 c.p.p.

Il tribunale ha respinto la richiesta[19].

 

11. Considerazioni conclusive

Sia i capitoli successivi che quelli precedenti omessi non aggiungono nulla di decisivo nell’ottica specifica di questo lavoro.

È quindi il momento di tracciare le conclusioni.

Il collegio giudicante, lo si è detto, ha gestito e deciso il processo sulla base di un manifesto programmatico chiaro e condivisibile.

Ciò nondimeno, residuano alcune scelte processuali che, almeno su un piano astratto, avrebbero potuto essere diverse.

Si indica a titolo di primo esempio la parte dedicata all’accordo, trattata nel capitolo 6, ed in particolare alla fase iniziale del medesimo.

Alle pagg. 241 e ss. (paragrafo 6.1.1) il collegio elenca gli argomenti che, secondo la prospettiva accusatoria, dimostrerebbero l’illiceità dell’intesa fin dalla sua genesi.

In particolare, avrebbero avuto valore indiziario in tal senso (i) il coinvolgimento nelle trattative di un individuo pregiudicato quale era Luigi Bisignani, (ii) la previsione dello storno dal corrispettivo complessivo della somma di 200 milioni di dollari quale remunerazione dell’intermediazione di Emeka Obi (e la previsione aggiuntiva che una parte di tale importo sarebbe stata retrocessa agli intermediari italiani e al management Eni) e (iii) la stipula tra Eni e l’Evp (Energy Venture Partners Ltd) di Emeka Obi di un accordo in esclusiva in forza del quale Eni accettava Evp quale rappresentante di Malabu, accontentandosi a tal fine dell’esibizione di un mandato sottoscritto dal pregiudicato Dan Etete.

Il tribunale ha considerato irrilevanti tutte queste circostanze. Era tale, a suo avviso, il coinvolgimento di Bisignani poiché la sua non eccelsa reputazione non dimostrava di per se stessa l’illiceità dell’affare. Lo stesso doveva dirsi della previsione dello storno a favore di Obi, se non altro perché i presunti corrotti non avevano ancora assunto la qualifica di pubblici ufficiali. Lo stesso valeva infine per l’accordo con Evp[20].

Questa sequenza di argomentazioni appare, ad avviso di chi scrive, espressiva di una metodologia valutativa in virtù della quale lo sguardo minuzioso ai dettagli ha talvolta prevalso sulla visione d’insieme.

Il secondo ed ultimo esempio è legato alla posizione processuale di Vincenzo Armanna ed agli eventi, citati in precedenza, che hanno contribuito a renderla quantomai singolare.

Questa singolarità permea anzitutto l’operato dei PM che hanno rappresentato l’accusa nel processo.

È indubbio che costoro fossero a conoscenza delle riprese video girate occultamente dall’avvocato Amara e dei contenuti dichiarativi emersi nella riunione tenutasi negli uffici dell’azienda di Bigotti.

I predetti PM hanno giustificato in vario modo il mancato deposito degli atti connessi a quella riunione[21].

In sostanza, così come si ricava dalla trascrizione del verbale riportato in nota, i PM non hanno inteso depositare quegli atti perché, sebbene il loro stesso ufficio stesse indagando su possibili tentativi di depistaggio del processo, ritenevano inopportuno estendere l’oggetto processuale oltre ciò che poteva attenere all’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna.

Era inoltre a loro conoscenza che i difensori, almeno alcuni di essi, erano già a conoscenza del materiale conoscitivo derivante dalla riunione.

Non si trattava infine di atti liberamente divulgabili poiché compresi in un diverso procedimento gestito da altri PM ai quali soltanto spettava valutare se il deposito avrebbe potuto danneggiare le indagini in corso.

Francamente, nessuna di queste giustificazioni appare particolarmente persuasiva.

Non lo è di sicuro la prima, non comprendendosi come potesse essere considerato non attinente allo sviluppo del contributo dichiarativo di Armanna il suo proposito, manifestato due giorni prima della data fissata per il suo interrogatorio in Procura, di fare arrivare “valanghe di merda” al management ENI.

Non lo è la seconda posto che l’attività di produzione documentale delle parti non dipende affatto dagli atti che si suppone siano in possesso delle controparti e che, comunque, quel possesso risultava limitato ad alcuni difensori soltanto e non a tutti, sicché è improprio parlare di una disclosure sostanziale.

Non lo è la terza posto che è bastata un’ora per avere il consenso dei PM titolari del procedimento sull’ipotetico depistaggio.

La scelta omissiva dei PM procedenti appare dunque ingiustificata.

Al tempo stesso, tuttavia, la posizione di netta chiusura del collegio alla richiesta di citazione di Pietro Amara avrebbe forse potuto essere diversa.

Varie sono le ragioni che si possono addurre a sostegno di questa opinione.

Alcune di esse derivano dalla possibilità che le convinzioni di merito esternate dal tribunale non siano le uniche a poter venire in rilievo.

Rientra in questo novero l’idea che, quand’anche l’istruttoria integrativa avesse confermato il tentativo di depistaggio e la sua ispirazione da parte di Claudio Descalzi, costui sarebbe comunque emerso come vittima di un ricatto e non già come l’autore di un illecito.

Lo stesso potrebbe dirsi della convinzione secondo la quale l’avvocato Amara sarebbe depositario esclusivamente di conoscenze indirette.

Entrambi questi giudizi appaiono privi di reale capacità persuasiva.

A ciò si può aggiungere che il rigetto della richiesta di esame di Amara ha lasciato una sorta di vuoto nella rappresentazione processuale.

Si apprende che qualcuno ha intessuto trame direttamente riferite all’oggetto del giudizio e non è ben chiaro da chi fossero state ispirate e a quali interessi rispondessero.

Si apprende che i PM non hanno inteso spontaneamente offrire al contraddittorio processuale le loro conoscenze al riguardo.

Questi due semplici dati di fatto avrebbero potuto da soli giustificare l’esigenza di verificare se, ed eventualmente in che misura, l’istruttoria dibattimentale sia stata ostacolata strumentalmente.

Questo non è avvenuto e se ne può solo prendere atto. D’altro canto, la percezione di ciò che serve e di ciò che è inutile per la decisione di una vicenda giudiziaria è quanto di più soggettivo vi sia nel giudizio penale.

Senza poi dimenticare che, come ampiamente segnalato dalla stampa, i presunti tentativi di depistaggio del processo e gli altrettanto presunti contrasti interni alla procura sulla posizione da assumere riguardo agli stessi ed al loro presunto artefice sono già all’attenzione di plurimi uffici giudiziari quanto al loro risvolto penale e della procura generale presso la Corte di Cassazione quanto ad eventuali profili disciplinari.

E questo è quanto.

 

[1] Il testo integrale della sentenza è stato reso disponibile dalla rivista Diritto Penale e Uomo ed è reperibile a questo link.

[2] È l’acronimo di Military Intelligence, sezione 6. Si tratta del dipartimento dei servizi di spionaggio all’estero (controspionaggio) del Regno Unito.

[3] Gianluca Di Nardo ed Emeka Obi hanno chiesto e ottenuto di essere giudicati con le forme del rito abbreviato. In primo grado sono stati riconosciuti colpevoli e condannati alla pena di quattro anni di reclusione. A giugno di quest’anno la Corte di appello ha riformato la prima decisione e assolto entrambi gli imputati per insussistenza del fatto. Si consulti, per un resoconto sintetico, l’edizione digitale di La Stampa, 24 giugno 2021,  a questo link. All’inizio di quest’anno è inoltre iniziato il giudizio di primo grado nei confronti di Alhaji Abubakar Alyu. Per la notizia si rinvia ad A. Faieta, Tangenti Eni e il processo all’uomo da 520 milioni di dollari, Domani, 21 gennaio 2021, a questo link.

[4] Si rinvia, riguardo al concreto carattere di tale contestazione, a V. Giglio, I requisiti della contestazione all’ente dell’illecito da reato, in Percorsi Penali, n. 1/2021, a questo link. Si rinvia inoltre, per un approfondimento generale, a V. d’Acquarone e Riccardo Roscini-Vitali, Il ruolo della contestazione dell’illecito amministrativo nelle logiche difensive dell’ente, pubblicato sul sito www.camerepenali.it, consultabile a questo link.

[5] Questo è il relativo passaggio descrittivo: “L’acquisizione della notizia di reato relativa all’attività di corruzione internazionale legata all’assegnazione ad ENI S.p.a. e Royal Dutch Shell in sfruttamento del blocco OPL 245 era pervenuta all’autorità giudiziaria a distanza di ben sei anni dall’avvio delle attività di indagine da parte della procura partenopea, mediante il deposito da parte delle ONG Re:Common, Global Witness e The Corner House presso la segreteria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano dell’esposto datato 9 settembre 2013, inizialmente acquisito agli atti del procedimento iscritto al n. 25303/2010 – conclusosi con una richiesta di archiviazione – e inviato il 28.9.2013 in copia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli “al fine di poter valutare se sulla base dei fatti esposti da Re:Common e delle ulteriori informazioni eventualmente in Vostro possesso si configurino elementi di reità a carico di società e persone fisiche citate nell’esposto”. Nel corpo dell’esposto depositato si dava infatti atto della acquisizione da parte della Procura di Napoli di dichiarazioni rese da Scaroni Paolo e Di Nardo Gianluca in merito al ruolo di “facilitatore” intrattenuto da quest’ultimo, “vicino a Bisignani”, nella vicenda OPL 245. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli – che nel frattempo aveva già ottenuto la definizione della posizione processuale di Bisignani Luigi, mediante applicazione concordata della pena di anni 1 mesi 7 di reclusione da parte del GIP con sentenza del 25 novembre 2011 per reati prevalentemente in violazione degli artt. 326 e 378 c.p. nonché ex art. 416 c.p. – ricevuto l’esposto, provvedeva in data 21 ottobre 2013 all’iscrizione di Di Nardo Gianluca nel registro degli indagati in relazione ad ipotizzati fatti di corruzione internazionale nell’ambito del procedimento 39306/2007 R.G.N.R. e quindi allo stralcio, con formazione di autonomo fascicolo (n. 45438/13) nel quale, oltre all’esposto, confluiva una nota di PG recante la data del 14.10.2013, e contestualmente alla trasmissione per competenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, escludendo la ricorrenza di profili di connessione tra il reato e quelli per i quali aveva proceduto l’autorità giudiziaria partenopea. Di qui l’assoluta estraneità dei procedimenti e conseguente inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura presso il Tribunale di Napoli nei confronti di Bisignani Luigi”.

[6] Si deve tuttavia registrare un piccolo e tutto sommato innocuo infortunio in cui è incorso il Tribunale allorché nel successivo capitolo 3 all’inizio di pag. 71 ha qualificato i documenti come mezzi di ricerca della prova anziché come mezzi di prova.

[7] Le ragioni di questo impegno sono così spiegate a pag. 62 nel paragrafo 2.2.2: “il Pubblico Ministero ha scelto una tecnica descrittiva che soffre contraddizioni intrinseche e, soprattutto, parifica elementi di prova del fatto rispetto alle condotte tipiche, creando ambigue sovrapposizioni e ulteriori contraddizioni, con conseguenti difficoltà interpretative, acuite dalle conclusioni che contengono utili specificazioni, ma anche diversità che hanno aggravato le difficoltà nella delimitazione dei confini dell’accusa. I profili di criticità attengono (i) all’individuazione del tempus commissi delicti nei suoi due estremi del raggiungimento dell’accordo illecito e della ricezione della remunerazione da parte dei pubblici ufficiali; (ii) alla selezione dei pubblici ufficiali corrotti; (iii) al riconoscimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio; (iv) all’individuazione della dazione illecita; (v) alla definizione del ruolo dei privati corruttori”.

[8] L’espressione virgolettata dà il titolo al paragrafo 2 dello schema della requisitoria scritta redatta dal PG Iacoviello (pubblicata su Diritto Penale Contemporaneo il 9 marzo 2012). Il PG sintetizzò così le sue censure alla tecnica usata dalla pubblica accusa nella formulazione del capo di imputazione.

[9] L’acronimo OPL  deriva dall’espressione Oil prospecting license che significa concessione esplorativa di idrocarburi. L’OPL 245 riguarda un’area sita ad una profondità marina di oltre 1.000 metri, a circa 150 chilometri al largo del delta del fiume Niger.

[10] La denominazione estesa della società è MALABU OIL AND GAS LIMITED di cui faceva parte Dan Etete, a quel tempo  ministro nigeriano del petrolio. La licenza esplorativa le venne concessa dal Governo federale nigeriano il 29 aprile 1998 mentre era presidente Sani Abacha.

[11] Questa espressione indica un accordo transattivo stipulato il 30 novembre 2006 tra il Governo nigeriano e la Malabu. Il primo assunse l’obbligo di riassegnare entro 30 giorni alla seconda la licenza di prospezione petrolifera OPL 245. Malabu si impegnò a sua volta a corrispondere al Governo un signature bonus (bonus di firma) di 210 milioni di dollari e rinunciò a qualunque pretesa e richiesta dipendente dalla precedente revoca della licenza nonché al contenzioso in corso presso la Corte di appello di Abu.

[12] Questo è l’esplicito passaggio: “La conseguenza del riconoscimento di Malabu quale legittima titolare della licenza è che qualsiasi operatore economico interessato ad acquisire diritti sul titolo doveva necessariamente confrontarsi con Malabu e con i suoi azionisti. Non si comprende quindi quale sia il fondamento giuridico dell’affermazione del Pubblico Ministero secondo cui “già dal 2007 Eni, Shell anche prima, ma già dal 2007 Eni aveva tutte le informazioni di cui aveva bisogno per evitare soltanto di mettersi al tavolo con Dan Etete”. Non “mettersi al tavolo con Dan Etete” avrebbe significato rinunciare a priori a negoziare un titolo esplorativo che un governo democraticamente eletto aveva riconosciuto – a torto o a ragione – come spettante a Malabu. La tesi del Pubblico Ministero avrebbe perciò imposto a Eni una sorta di autolimitazione della propria libertà di azione che non trova però fondamento in alcuna norma giuridica”.

[13] Il relativo passaggio motivazionale (pag. 228) è concepito in questi termini: “L’accusa, nelle richieste conclusive, ha tenuto a specificare di essere in grado di offrire una prova soltanto indiziaria, soprattutto con riferimento alla destinazione dei soldi ai pubblici ufficiali, attese le difficoltà di ricerca della prova in paesi stranieri. Ha anche aggiunto che, con riferimento alla prova dell’accordo corruttivo, trattandosi di una “grande corruzione” che coinvolge pubblici ufficiali ai massimi livelli, non è possibile ragionare in termini di accordo per così dire “civilistico” su precise somme da spartire, ma bisogna saper leggere il linguaggio della politica. In definitiva, poiché si tratta di corruzione ai massimi livelli e poiché è difficile reperire le prove in Paesi stranieri, si chiede al Tribunale di abbassare le pretese nella valutazione della prova indiziaria in termini di precisione, non equivocità e convergente gravità, resistente alle obiezioni logiche oltre ogni ragionevole dubbio, proponendo una sorta di diritto penale speciale che vede alleggerito l’onere probatorio in ragione della difficoltà di svolgere indagini per la peculiarità del reato da giudicare. L’assunto non è condivisibile, non solo e non tanto perché sfornito di appigli normativi o anche solo giurisprudenziali, ma in quanto foriero di possibili errori e quindi decisioni sbagliate e certamente ingiuste sotto il profilo del principio di uguaglianza […] la giurisprudenza della Suprema Corte non ha mai consentito alcuna deroga al rigoroso principio che, nell’ambito del diritto penale, colloca l’onere della prova a carico dell’accusa. Il principio risulta, al contrario, rafforzato dalla costituzionalizzazione del criterio assolutorio in caso di ragionevoli dubbi, ovviamente basati su specifici dati processuali e non su mere ricostruzioni alternative ipotetiche. La giurisprudenza è costantemente ancorata a questi severi canoni anche in tema di corruzione domestica e quindi non è condivisibile che si possa derogare ai principi normativi esplicitamente costituzionalizzati solo perché si verte nell’ipotesi di grandi corruzioni internazionali”.

[14] L’argomento è trattato a pag. 231: “si deve distinguere tra ragionamento indiziario resistente ai ragionevoli dubbi, che appartiene all’ambito della prova dell’illecito penale, dalle logiche congetture che appartengono ad altre branche del diritto o ad altre scienze umane, che ammettono la valutazione dei cosiddetti indizi deboli o solo probabilistici […] Il metodo probabilistico non appartiene all’accertamento della responsabilità penale, caratterizzata dal principio dell’onere della prova ad esclusivo carico dell’accusa. Si tratta, come noto, di un principio presidiato dalla presunzione d’innocenza, superabile solo dalla certezza razionale della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”.

[15] Così ne parla il PM nella requisitoria (il passaggio è riportato a pag. 323 della motivazione): “può qui ribadirsi in estrema sintesi come Armanna abbia avuto un ruolo centrale nella negoziazione e nel perfezionamento degli accordi corruttivi. Collocato da Descalzi a dirigere le operazioni come Project Leader, ha accettato fin dall’inizio il ruolo di Obi come figura legata al suo amico Bisignani e al suo capo Scaroni, accomodando le sue pretese in relazione alle diverse contingenze e alle richieste delle strutture di Eni. Ha diretto tutto il negoziato dal lato Eni rapportandosi con i componenti della funzione legale e negoziale, con i rappresentanti di NAE, con Casula, informando costantemente Descalzi e concordando con lui le soluzioni da percorrere, confrontandosi con i rappresentanti di Shell e all’occorrenza anche con la parte politica. Era presente nei momenti topici dei negoziati, dall’esordio con Etete a Lagos, all’offerta del 30 ottobre 2010 a Etete, all’accordo sul prezzo del 15 novembre presso l’Attorney General, all’accordo sulla struttura “tripartita” (il governo come dispositivo di protezione) del 15 dicembre, fino agli incontri “tecnici” – volti ad assecondare gli smodati desiderata delle compagnie petrolifere del 2011. Infine ha spalleggiato Falcioni nel tentativo di trattenere direttamente 50 milioni di dollari dal prezzo pagato da NAE, riformulando all’occorrenza i loro “accordi con i nigeriani” senza tuttavia riuscire a utilizzare Petrol Service come canale per il pagamento. Da ultimo - a definitivo sigillo di un giudizio di responsabilità - ha ricevuto la somma di $ 1.200.000 da Bayo Ojo, che a sua volta aveva ricevuto oltre 10 milioni da Etete, allegando a sua difesa un’improbabile giustificazione la cui fondatezza non ha retto alla prova del dibattimento”.

[16] Così si legge a pag. 323, in sede di riassunzione delle considerazioni fatte dal Pm nella requisitoria: “l’accusa sembra desumere la prova della partecipazione di Armanna agli accordi illeciti dall’inattendibilità delle giustificazioni rese nella vicenda Falcioni sui tentativi di trasferimento di denaro dal Governo alla società Petrol Service e dalla sua presenza ai momenti centrali dell’accordo lecito […] Entrambi i profili della contestazione non sono condivisibili né sotto il profilo della ricostruzione del fatto né, per quanto riguarda il secondo aspetto, dal punto di vista delle categorie giuridiche. Armanna è colui che ha gestito l’operazione lecita durante tutta la trattativa per conto di Eni quale project leader con la consapevolezza, a suo dire, che Etete avrebbe “pensato” al rapporto con i pubblici ufficiali. Vedremo meglio in seguito che l’imputato non è attendibile, ma, in ogni caso, la dichiarata generica consapevolezza che Etete avrebbe gestito i rapporti con i pubblici ufficiali non sarebbe comunque sufficiente – per le ragioni già supra illustrate - ad ammantare di illiceità la partecipazione ad una trattativa di per sé lecita, non potendosi ritenere integrato l’elemento rappresentativo idoneo a reggere il dolo, anche solo nella forma eventuale, necessario ad integrare il concorso del terzo intermediario nell’accordo corruttivo stipulato da altri. In realtà, l’unico indizio grave nei confronti dell’imputato non deriva dalle sue generiche ed inattendibili dichiarazioni, bensì dal suo coinvolgimento, retribuito a titolo privato con oltre un milione di dollari, nella fase successiva al pagamento del prezzo da parte delle compagnie petrolifere, fase relativa ai tentativi del Governo nigeriano di pagare il compenso pattuito con la società Malabu per la rinuncia ai suoi diritti, mediante la società Petrol Service dell’imputato Falcioni. Non a caso, Vincenzo Armanna ha poi cercato di reinterpretare il proprio ruolo in questo segmento della vicenda con dichiarazioni che, come riconosciuto dall’accusa pubblica e privata, sono risultate grossolanamente false. Il dato non può tuttavia essere ritenuto gravemente indiziario perché esso prova il suo coinvolgimento nell’utilizzo dei fondi per pagare le commissioni destinate a terzi privati e non ai pubblici ufficiali”.

[17] L’evento è così descritto alle pag. 326 e ss. della motivazione: “è però indispensabile aggiungere un ulteriore tassello ricostruttivo di estrema importanza. All’udienza del 23 luglio 2019 uno dei difensori dell’imputato Casula ha preso la parola per spiegare di aver partecipato a una procedura di riesame per conto di un altro assistito nell’ambito di un diverso procedimento. In tale occasione, fra gli atti depositati dalla Procura vi era un verbale della Guardia di Finanza in cui si dava atto dell’esistenza di una videoregistrazione che, a parere del difensore, sarebbe stata assai rilevante per questo procedimento. In particolare, la registrazione era stata effettuata in maniera clandestina dall’avv. Piero Amara e aveva ad oggetto un incontro del 28 luglio 2014 tra lo stesso Piero Amara, Vincenzo Armanna, Paolo Quinto e Andrea Peruzy nei locali della società STI S.p.A. di Ezio Bigotti. Sollecitato a prendere posizione sull’istanza del difensore, il Pubblico Ministero ha confermato di essere in possesso del documento già da tempo, ma ha aggiunto di non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuto non rilevante […] A seguito della richiesta dei difensori, il Pubblico Ministero ha infine prodotto il video e il suo contenuto si è rivelato di estrema importanza per apprezzare le intenzioni che animavano Vincenzo Armanna al momento della sua presentazione in Procura il 30 luglio 2014 […] Per comprendere il tenore dei dialoghi intercorsi durante l’incontro del 28 luglio 2014 bisogna ricordare che all’epoca della registrazione Piero Amara era un avvocato che collaborava con Eni, mentre Vincenzo Armanna era stato da poco licenziato dalla compagnia e continuava a occuparsi di investimenti all’estero nel settore petrolifero. Come emerge dal video, uno degli affari seguiti dall’imputato riguardava proprio la Nigeria e l’acquisto di blocchi di proprietà di Eni: “c’abbiamo una bocca enorme…cioè io sono pronto…a metterti sul tavolo un Gruppo Industriale che si prenda il 50 per cento delle raffinerie dell’ENI…e ci mette pure dentro l’olio per raffinarlo…e ci mette i soldi”. Il prosieguo della conversazione registrata dimostra che Vincenzo Armanna vedeva un ostacolo ai suoi progetti nella presenza di Ciro Antonio Pagano in Nigeria, il quale era considerato un uomo di fiducia di Roberto Casula. Proprio per superare queste difficoltà, Vincenzo Armanna afferma che si sarebbe adoperato per “fargli arrivare un avviso di garanzia” […] Alla luce di quanto esposto, risulta incomprensibile la scelta del Pubblico Ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati. Una simile decisione processuale, se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza. I Pubblici Ministeri hanno minimizzato l’omesso deposito del video in quanto il documento mostrerebbe soltanto un lato “spaccone” e innocuo di Armanna […] Il contenuto del documento – registrato appena due giorni prima della presentazione in Procura - è tuttavia di per sé dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai PM milanesi per far arrivare “una valanga di merda” ad alcuni dirigenti apicali della compagnia. A questo proposito, Armanna consiglia a Piero Amara di sfruttare gli avvocati dell’Eni per rimuovere Donatella Ranco e Ciro Pagano perché ritenuti pesantemente coinvolti nella vicenda OPL 245738. Il successivo utilizzo del termine “adoperarsi” per far pervenire avvisi di garanzia, inserito nel contesto di promozione di affari quale consulente privato di aziende concorrenti dell’Eni, appare davvero inquietante e dimostra l’attitudine del soggetto a sfruttare per fini personali il sistema giudiziario e il conseguente eco mediatico derivante dalla pubblicazione di notizie riguardanti le indagini in corso. Pertanto, il Tribunale non condivide l’interpretazione banalizzante del documento, che, al contrario, consente di apprezzare la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni lasciando chiaramente intendere a Piero Amara che le sue dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto essere modulate da eventuali accordi, facendo un chiaro il riferimento a Descalzi e, più in generale, a dirigenti diversi da quelli espressamente citati”.

[18] Se ne parla a pag. 326 della motivazione: “Nel corso del 2016 Armanna viene sentito più volte e rende dichiarazioni su vari aspetti della vicenda. Tuttavia, il 27 maggio 2016 fa pervenire ai pubblici ministeri una memoria nella quale ridimensiona in maniera significative le accuse rivolte a Claudio Descalzi: ho sempre lavorato in base alle istruzioni di Descalzi, mio superiore gerarchico, e ho sempre condiviso le sue posizioni di estrema cautela” e poi esemplifica: “a proposito del prezzo si è sempre rifiutato di incrementarlo…è sempre stato contrario alla presenza di qualsiasi intermediazione…si è opposto all’ipotesi iniziale di un Sales Purchase Agreement (SPA) diretto con Malabu…ha sempre evitato lo scontro diretto con Paolo Scaroni…all’epoca deus ex machina di tutta l’Eni […] nel punto in cui riporto il mio incontro con Descalzi è stato verbalizzato "comprese le eventuali retrocessioni" la parola retrocessioni si potrebbe prestare a diverse interpretazioni mentre per me semplicemente vuol dire che se mai ci fossero state terze parti, come creditori, o manager Eni, o altro noi non saremmo mai riusciti a saperlo perché sarebbe stata la stessa Malabu ad occuparsene. Infine, Armanna precisa che i dirigenti Eni non avevano mai avuto la certezza che una quota di denaro Eni andasse a beneficio degli sponsor politici nigeriani”. La destinazione del denaro ai politici, infatti, “non era una certezza ma un’ipotesi e un sospetto”. Il 6 marzo 2017 i difensori di Eni consegnano al Procuratore della Repubblica di Milano una serie di mail, accompagnate da una nota in cui precisano che “Eni spa non è in grado di valutare né se si tratta di documenti autentici né se, ammesso che siano autentici, gli stessi riportino fatti corrispondenti o meno a verità”. I documenti in questione sono uno scambio di mail tra Armanna e l’avv. Giuseppe Lipera, difensore di uno degli indagati nel procedimento volto ad appurare l’esistenza di manovre per inquinare le prove nei procedimenti a carico di Eni. Dal carteggio risulta che il 14 febbraio 2017 Vincenzo Armanna aveva contattato l’avv. Lipera per avvertirlo che avrebbe voluto far interrogare ex art. 391 bis c.p.p. il suo cliente. A questa email è collegata un’altra email che Armanna aveva inviato cinque giorni prima al legale che lo difendeva in quel momento, l’avv. Fabrizio Siggia, e che sarebbe stata quindi trasmessa anch’essa per errore all’avv. Lipera. In questa seconda email Vincenzo Armanna scrive che il suo precedente difensore avv. Santa Maria aveva cercato “ripetutamente e in tanti modi” di indurlo a dichiarare “che l’Eni era consapevole che i beneficiari finali di parte della somma pagata fossero i politici” in quanto “da questo dipendeva la decisione dei PM di archiviarmi o di avere un trattamento di favore”. Nel corso dell’esame dibattimentale, il Pubblico Ministero ha chiesto all’imputato di spiegare le ragioni del suo atteggiamento ondivago. Vincenzo Armanna ha quindi sostenuto che nel 2016 sarebbe stato avvicinato dall’Eni tramite l’avv. Piero Amara, il quale gli avrebbe proposto di ritrattare le accuse verso Claudio Descalzi in cambio della promessa di una futura riassunzione nella compagnia petrolifera: “mi è stato chiesto se potevo fare una memoria che in parte eliminava la parte della corruzione dai verbali che avevo fatto prima”. A suo dire, inoltre, i punti finali della memoria in cui si parlava di “retrocessioni” e di “sponsor politici nigeriani” gli sarebbero stati consegnati già scritti da Claudio Granata per conto di Descalzi. Quanto alle mail del febbraio 2017, ha spiegato: “dalla memoria che ho depositato a maggio 2016 cominciano le tensioni con il mio avvocato. E alla luce di tutto quello che stava accadendo, per una precisa strategia processuale, l’obiettivo era minare… io sto dicendo quello che mi fu detto dall’avvocato Amara e che fu concordato, era minare la credibilità di tutti i verbali precedenti alla mia nota di deposito. E quindi mettere anche in dubbio la strategia difensiva messa dall’avvocato Santa Maria. Quindi l’e-mail nasce con l’obiettivo di mettere in difficoltà tutta la redazione dei verbali precedenti. Questo è l’obiettivo con cui nasce. La concordammo con Amara e con Granata, e questa e-mail… Amara si fece carico del fatto che arrivasse alla difesa Eni”.

[19] La decisione è chiarita alle pagg. 330 e 331 della motivazione in questi termini: “l’inutilità della ricerca di conferme al racconto di Armanna su possibili tentativi di condizionamento derivava, in primo luogo, dalla considerazione che le ulteriori dichiarazioni da lui rese si erano già rivelate inattendibili ed erano state smentite dai testimoni di riferimento. Peraltro, per come presentata, la prova sarebbe servita a illustrare un dato di fatto già acquisito al processo, visto che il tentativo di inquinamento era stato riferito e “superato” dallo stesso Armanna, il quale aveva confermato in dibattimento le affermazioni accusatorie che, a suo dire, i vertici Eni avrebbero cercato di neutralizzare. Inoltre, le dichiarazioni che avrebbe potuto rendere Piero Amara non contenevano conoscenze dirette, ma si riferivano a notizie apprese da altri, come facilmente desumibile dai capitolati della prova così come richiesta dall’accusa, prova che aveva quindi una mera funzione esplorativa, o, comunque, introduttiva di altre prove. Ad ogni modo, la conferma di quanto riferito da Armanna circa un tentativo di indurlo a ritrattare le sue precedenti dichiarazioni non avrebbe costituito un indizio di reità a carico di Claudio Descalzi. L’impostazione da cui muove il Pubblico Ministero è quella secondo cui la prova del tentativo di condizionamento di un testimone da parte dell’imputato rappresentata in sé un indizio di reità di quest’ultimo in ordine al merito delle accuse. Una simile massima di esperienza, anche ove condivisa, si rivela però inappropriata se calata nel caso concreto. Nella vicenda in esame, infatti, occorre considerare che i motivi a fondamento delle esternazioni accusatorie di Armanna emergono in maniera inconfutabile dal video di cui si è parlato. Il suo intento primario non era certo quello di offrire il proprio contributo conoscitivo alla giustizia, ma la sua presentazione perseguiva lo scopo precipuo di gettare fango sui dirigenti Eni che potevano ostacolarne gli affari, di mettere in imbarazzo la compagnia e, in ultima analisi, di sollevare un caso mediatico giudiziario che lo avrebbe messo in una posizione di forza rispetto alla sua ex società. Del resto, che il reale fine dell’imputato fosse quello di creare il maggior clamore possibile è confermato dalla circostanza che, poche settimane dopo la deposizione in Procura, egli ha rilasciato un’intervista a un quotidiano nazionale e ha consegnato il materiale in suo possesso a un giornalista in modo da rendere pubblica l’indagine che egli stesso aveva contribuito a far sorgere. A fronte di questo scenario, Eni era una società quotata in borsa che, pur essendo certa di non aver commesso alcun illecito ed essendo consapevole dell’intento ricattatorio di Armanna, si trovava esposta a un immenso pregiudizio di immagine ed economico causato dalla diffusione di notizie circa il proprio asserito coinvolgimento in una corruzione di oltre un miliardo di dollari. Alla luce di questa premesse, occorre ora domandarsi quale sia il significato da attribuire a un eventuale intervento di Claudio Descalzi volto a indurre Armanna a ritrattare le accuse. A parere del Tribunale, una simile condotta – anche ove sussistente – dovrebbe essere interpretata come il comportamento di un amministratore che, pur di proteggere la propria compagine dalle calunnie che le erano rivolte, accetta di scendere a patti con il ricattatore e, in cambio della cessazione delle attività diffamatorie verso la società, gli accorda quanto richiesto, ossia la promessa della riassunzione in azienda. In ogni caso, i fatti accaduti durante le indagini e le eventuali responsabilità conseguenti saranno chiariti dall’indagine a quanto consta oggi ancora in corso su queste circostanze. Qualunque sia l’esito di questi accertamenti, è però indubbio che tali profili in nulla potrebbero incidere né sulla valutazione di inattendibilità di Vincenzo Armanna né, più in generale, sulla posizione degli imputati in ordine al reato per cui si procede in questa sede. In conclusione, il comportamento ondivago di Vincenzo Armanna durante le indagini non integra un indizio a carico di Descalzi, o perlomeno non un indizio grave e univoco. Al contrario, il suo atteggiamento opportunista rivela una personalità ambigua, capace di strumentalizzare il proprio ruolo processuale a fini di personale profitto e, in ultima analisi, denota un’inattendibilità intrinseca che certamente non avrebbe potuto essere sanata dalla testimonianza di Piero Amara”.

[20] Questa è la motivazione specifica (pag. 242): “Tutte le criticità riportate sono però solo apparenti. Un primo aspetto da considerare è che le procedure aziendali dell’epoca prevedevano l’obbligo di portare avanti una due diligence sulla controparte negoziale solo nel caso in cui l’intesa avesse previsto l’instaurazione di una joint venture. Il rapporto con EVP era invece di semplice mediazione e, di conseguenza, l’assenza di due diligence era aderente alle linee guida al tempo vigenti: Eni non assumeva nei confronti di EVP alcuna obbligazione di natura patrimoniale autonomamente azionabile, ma si limitava ad acconsentire di vincolare la propria attività negoziale. Inoltre, la previsione di un vincolo di esclusiva in favore del mediatore è una clausola che non desta alcun sospetto dal momento che si tratta di un istituto a cui ricorre di frequente chi opera nel campo dell’intermediazione per evitare di essere esautorato a seguito di contatti diretti fra le parti ovvero per garantirsi il controllo del flusso di informazioni nel corso di una trattativa negoziale, informazioni la cui disponibilità può risultare sensibilmente incidente negli equilibri tra i contraenti. Peraltro, tutti gli accordi sottoscritti con EVP erano espressamente subordinati all’effettiva esistenza di un mandato di Malabu in favore della società di Obi, sicché la limitazione negoziale della compagnia petrolifera sarebbe venuta meno qualora EVP non fosse stata realmente autorizzata a trattare per conto di Malabu. Tale ultima notazione sarebbe già sufficiente a superare le criticità relative al fatto che Eni si sarebbe vincolata a EVP pur non avendo evidenza dell’esistenza di un mandato Etete in suo favore. Ad ogni modo, la prova dell’esistenza del mandato in favore di Obi non risultava solo dai documenti esibiti ai dirigenti Eni il 19 febbraio 2010. Come visto, infatti, il 29 dicembre 2009 Emeka Obi aveva organizzato un incontro presso l’abitazione di Dan Etete a cui aveva partecipato Vincenzo Armanna in rappresentanza di Eni e il 4 febbraio 2010 si era tenuta una cena presso l’hotel Principe di Savoia a cui avevano partecipato Claudio Descalzi, Dan Etete, Ednan Agaev e Richard Granier Deferre. Da ultimo, il fatto che Obi agisse per conto di un soggetto pregiudicato come Dan Etete non poteva implicare l’automatica illiceità di qualsiasi trattativa coinvolgente OPL 245 in quanto la società dell’ex ministro era il soggetto che il Governo nigeriano aveva riconosciuto come titolare della licenza e, pertanto, egli era il solo interlocutore a cui un aspirante compratore poteva rivolgersi. Ancora una volta, va poi ricordato che l’impossibilità logica e giuridica di postulare l’esistenza di accordi illeciti in questo frangente deriva dalle circostanze che Shell non era ancora entrata nella trattativa e che i futuri soggetti corrotti non svolgevano incarichi pubblici”.

[21] Si riportano, al fine di rappresentare correttamente la posizione dei PM, stralci testali delle loro comunicazioni, tratti dalla trascrizione del verbale dell’udienza dibattimentale del 23 luglio 2019 (pagg. 18-33) nel corso della quale l’Avvocato Fornari ha posto il problema. Il verbale in questione, unitamente all’intera documentazione del processo milanese, è stato pubblicato dalla rivista Diritto Penale e Uomo, previa autorizzazione del Tribunale.

PUBBLICO MINISTERO - Bigotti aveva un ufficio a Torino, è stato sequestrato, poi da lì venne mandato a Roma e da Roma arrivò a Milano. Ecco, quindi una cosa un po’ complicata. Però per venire alla sostanza, aspetto metodologico. Noi abbiamo depositato, di questo processo che riguarda asseriti tentativi di inquinamento delle indagini e dei processi in corso a carico di Eni e altri, solo ciò che ci sembrava importante rispetto alle dichiarazioni di Armanna, perché era una prova che stavamo per assumere, e quindi per i motivi già detti l’altra volta, non vorrei ripetermi, volevamo che i difensori sapessero dove saremmo andati a parare. In questo senso quello che c’era stato già trasferito a livello di scambio di informazioni all’interno di un ufficio abbiamo ritenuto che fosse più opportuno venisse depositato dai Difensori, per quelle parti, che potevano essere rilevanti, in modo da poter fare il controesame. Non abbiamo, viceversa, ritenuto opportuno, e abbiamo parlato anche di questo video con la collega e col Procuratore, naturalmente, non abbiamo ritenuto opportuno depositare tutto il processo in cui c’è questo video e molti altri documenti rilevanti. Però il problema che lei in qualche modo ha stigmatizzato con una battuta ieri, cioè non possiamo fare due processi insieme qui, o tre addirittura. Per cui depositare tutto […] Detto tutto questo, io vorrei dire innanzitutto che comunque rilevo con una certa… così, rilevo il fatto che quantomeno l’avvocato Fornari, nella sua qualità di Difensore del coimputato di Bigotti, e l’avvocato Diodà, nella qualità di difensore di Eni, che aveva saputo di questo documento, perché c’era stato un Tribunale del riesame a carico del precedente direttore degli affari legali Mantovani, avevano conoscenza dell’esistenza di questo documento. Addirittura… c’era stata disclosure in sostanza. Quindi ricordo a me stesso che la Difesa un tempo si definiva, nel nuovo rito, diritto di difendersi provando, qui mi pare che da questo punto di vista non sia stata esercitata. Per contestualizzare… mi fate per favore, io non ho interrotto nessuno però.

PRESIDENTE - Però interrompe il Tribunale, Pubblico Ministero, però questo è un argomento che in origine lo stesso Pubblico Ministero aveva detto che rimaneva fuori da questo processo, e poi improvvisamente mercoledì è comparso all’udienza di mercoledì.

INTERVENTO - E lì si è allargato il tema…

PRESIDENTE - Quindi l’argomento, scusi Pubblico Ministero, questo argomento Amara è comparso mercoledì mattina, quando dovevamo iniziare l’esame. In quel momento. Quindi la disclosure in questo processo è avvenuta mercoledì mattina.

PUBBLICO MINISTERO - Per la verità, ai difensori è avvenuta alcuni giorni prima.

PRESIDENTE - Alcuni giorni i difensori, sì.

PUBBLICO MINISTERO - Le altre date…

PRESIDENTE - Benissimo, però in vista dell’esame, questo è un argomento che è stato introdotto nel processo dal Pubblico Ministero in vista dell’esame.

PUBBLICO MINISTERO - Certamente. Perché c’era stata una sequenza di dichiarazioni molto prossima all’esame, e che ci hanno dato l’esigenza di approfondire questo aspetto. E abbiamo ritenuto doveroso rappresentarla ai Difensori in modo tale che non fosse un esame a sorpresa, tutto qua.

PRESIDENTE - Benissimo. E quindi siamo di fronte a una richiesta dei Difensori di estendere il materiale per poter fare un controesame più ampio, questa è la materia.

PUBBLICO MINISTERO - Certamente.

PRESIDENTE - Quindi non tiriamo in ballo il fatto che non hanno prodotto all’inizio del processo. Perché, scusi, questo non rientra nel piano del discorso.

PUBBLICO MINISTERO - No, ma lo tiravo soltanto in ballo per questo, perché si era detto un vulnus. Ma un vulnus che avrebbero potuto colmare facilmente. Cioè se avessero avuto interesse a questo video, che oggi sembra così importante, potevano chiederne copia perché sapevano dell’esistenza.

PRESIDENTE - Se avessero saputo che l’argomento era rilevante nel processo…

PUBBLICO MINISTERO - Ma avevano la relazione, Presidente. Comunque vabbè…

PRESIDENTE - Però Pubblico Ministero, quello… abbiamo detto in quest’aula, l’ha detto anche lei, le Parti, d’accordo, in sede di 493 avevano detto, tutte le Parti, che questi aspetti non entravano in questo processo. E quindi come si fa a dire che… a incolpare. Ha capito? Cioè, non seguo… vabbè, però ognuno può… chiedo scusa.

PUBBLICO MINISTERO - Forse mi sono espresso male. Non voglio incolpare assolutamente nessuno. Quello che voglio dire è che il motivo per cui non abbiamo depositato questo atto non è stata la volontà di voler arrecare qualsiasi vulnus, perché ci sono molti altri atti che potrebbero essere in qualche misura rilevante, ma per quella perimetrazione a cui lei faceva riferimento all’inizio, noi ci siamo attenuti solo a quegli atti che direttamente potevano toccare l’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna. Un ultimo dato di sostanza, noi rispetto a ciò che è stato detto lungamente, perché sono stati letti anche dei brani di questa relazione di Polizia Giudiziaria, io richiamo che in uno degli atti depositati, che i difensori conoscono, che riguarda la memoria resa da Amara, Amara dice che aveva avuto l’incarico di registrarlo qualora Armanna dicesse qualcosa di utile per incastrarlo. Quindi questo è il contesto. Detto tutto questo io personalmente non ho nessuna difficoltà al deposito anche immediato di questo documento, però non posso giuridicamente farlo senza avere il consenso dei colleghi che stanno gestendo quell’indagine, perché è un’indagine, ribadisco, che è in corso, in cui ci sono molte persone indagata, vari ipotesi di 377 bis, e la conoscenza di un documento di un’indagine comunque è qualcosa che dev’essere valutata da chi l’indagine gestisce. Quindi forse la soluzione più semplice, se per il Tribunale ritengo sia più semplificante, diciamo, un deposito da parte della Procura del documento, e poi appunto dare la possibilità di fare il controesame il giorno successivo, una breve pausa nuovamente, e nel giro di, spero, una mezz’ora vi possiamo dare una risposta […]

PUBBLICO MINISTERO - Quindi se ci date una mezz’oretta di tempo noi possiamo darvi questa risposta, e mettere a disposizione il documento sperando che ci sia un supporto. Perché io il supporto non sono mai riuscito a leggerlo, questa è la verità, perché è un supporto un po’ particolare, grazie. […]

PUBBLICO MINISTERO - Abbiamo avuto qualche difficoltà di comunicazione, visto il periodo, le ferie di qualche collega. Comunque abbiamo raggiunto entrambi i colleghi titolari delle indagini, abbiamo anche discusso col Procuratore della Repubblica. Il video è a disposizione delle Difese presso il mio ufficio dalle ore 3 di oggi, prima tecnicamente non è possibile”.

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