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Il velo islamico nei luoghi di lavoro tra libertà religiosa dei lavoratori e libertà d’impresa

Commento della sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione) del 14 marzo 2017 (Causa C-188/15, Bougnaoui e Add c. Micropole SA)
Il velo islamico nei luoghi di lavoro tra libertà religiosa dei lavoratori e libertà d’impresa
Il velo islamico nei luoghi di lavoro tra libertà religiosa dei lavoratori e libertà d’impresa

Il commento che segue si sofferma sulle criticità nel rapporto tra libertà religiosa, intesa anche come libertà di manifestare il credo religioso attraverso una precisa simbologia ostentata nei luoghi esposti al pubblico.

La pronuncia in commento evidenzia i profili più controversi che caratterizzano, in concreto, la convivenza tra il diritto di religione ed i principi liberali della laicità dello Stato e della libertà di impresa.

 

SOMMARIO:

1. Questioni sollevate dai giudici nazionali

2. L’esibizione dei simboli religiosi nei luoghi di lavoro: libertà religiosa e libertà di impresa

3. Le conclusioni della Corte

 

1. Questioni sollevate dai giudici nazionali

La questione pregiudiziale sottoposta all’interpretazione della Corte di Giustizia nel caso Bougnaoui attiene all’articolo 4, par. 1 della Direttiva 78/2000/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 (la quale disciplina la materia della parità di condizioni di lavoro e, nello specifico, mira a stabilire un quadro generale per la lotta alla discriminazioni fondate, tra l’altro, sulla religione per quanto concerne l’occupazione o le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento) relativo alla differenza di trattamento, non discriminatoria, dei lavoratori nell’attività lavorativa.

La norma stabilisce che “Fatto salvo l’articolo 2 , paragrafi 1 e 2 , gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata ad uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”. L’articolo 2, richiamato espressamente, prevede che “alla fine della presente direttiva, per principio della parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2. Ai fini del paragrafo 1:

a) Sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b) Sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

i) Tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che

ii) Nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi.

3. Le molestie sono da considerarsi, ai sensi del pararafo1, una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per uno dei motivi di cui all’articolo1 avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. In questo contesto, il concetto di molestia può essere definito conformemente alle leggi e prassi nazionali degli Stati membri.

4. L’ordine di discriminare persone per uno dei motivi di cui all’articolo 1, è da considerarsi discriminazione ai sensi del paragrafo 1.

5. La presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui”.

I fatti della causa principale attengono alla controversia tra la sig.ra Bougnaoui, ingegnere progettista, di fede musulmana e la sua azienda datrice di lavoro. Il motivo che origina la controversia consiste nel rifiuto della Bougnaoui di togliere il velo islamico, mentre svolge mansioni che la portano a stretto contatto con i clienti – i quali ne fanno espressa e formale richiesta – dell’impresa datrice di lavoro. Di fronte alla ripetuta e reiterata condotta, l’azienda procede al suo licenziamento.

Il licenziamento subito dalla Bougnaoui viene ritenuto, tuttavia, legittimo nei due gradi di giudizio di merito, in quanto non legato a discriminazione derivante da credenza religiosa della stessa lavoratrice, ma piuttosto giustificato dagli interessi dell’impresa, la quale, consentendo ai suoi dipendenti di indossare segni evidenti di una chiara appartenenza religiosa, pregiudicherebbe i diritti e le convinzioni di terzi e, soprattutto di clienti che formalmente manifestano disagio rispetto ai simboli ostentati.

A parere della difesa, il desiderio dei clienti di non ricevere prestazioni da una dipendente che indossa il velo non può valere come criterio legittimo che possa rientrare tra quelli non discriminatori, tali da giustificare la prevalenza degli interessi economici e commerciali della società rispetto alla libertà fondamentale di religione di un lavoratore dipendente. Dunque, la Bougnaoui, in uno all’Associazione per la tutela dei diritti dell’uomo, adisce, ex art 267 TFUE, la Corte di Giustizia per ottenere una corretta ermeneusi dell’articolo 4, par 1 della Direttiva 78/2000/CE e, in particolare, se la volontà datoriale di tener conto del desiderio dei clienti che i servizi dell’impresa non siano più assicurati da una dipendente che indossa il velo islamico possa o meno essere considerato quale requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La pronuncia è decisamente interessante, in quanto, per la prima volta, la Corte di Giustizia delinea i confini della discriminazione religiosa in materia di tutela del diritto al lavoro, enunciando il principio per cui occorre verificare in concreto se l’appartenenza a una religione influisca o meno su profili essenziali della prestazione esigibile dal datore.

2. L’esibizione dei simboli religiosi nei luoghi di lavoro: libertà di lavoro e libertà di impresa

Preliminarmente, va chiarito che la nozione di religione il Legislatore europeo la deriva da altre fonti: il considerando n.1 della Direttiva 78/2000 richiama espressamente le libertà fondamentali, tra le quali è compresa la libertà di religione; la CEDU, che all’articolo 9 stabilisce che “ogni persona ha diritto alla libertà religiosa e ha diritto di manifestare la propria religione in modo individuale e collettivo, in pubblico e in privato”; le singole costituzioni degli Stati membri; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, all’articolo 10, par. 1 tutela il diritto alla libertà di religione.

Da tale contesto normativo deriva che la Direttiva 78/2000 tutela la libertà religiosa non solo come libertà di convinzione personale, ma anche come manifestazione ed esternazione del credo religioso in pubblico. Dunque, nessun dubbio appartiene ad alcun legislatore dei singoli Stati membri dell’Unione in relazione alla tutela di uno dei diritti fondamentali della persona, ovvero quello di possedere un credo e di poterlo liberamente esercitare – infatti, nelle costituzioni nazionali tali diritto viene ampiamente garantito –, tuttavia qualche perplessità in ordine alla sua estrinsecazione, attraverso il ricorso a segni e simboli che dichiarano palesemente l’appartenenza ad una chiara cultura religiosa, nei luoghi di lavoro che espongano il lavoratore al contatto diretto con i clienti, sorge sia poiché  è necessario tutelare anche le convinzioni e le sensibilità dei soggetti terzi, che entrino in contatto coi dipendenti, sia rispetto alle stesse politiche aziendali dell’impresa datoriale in ordine ad aspetti sensibili dei lavoratori e al rispetto del principio paritario tra essi.

Sostanzialmente il problema attiene alla conflittualità che può derivare dall’esibizione simboli religiosi e dalla loro visibilità ed, in particolare, la conflittualità è legata alla loro esposizione nei luoghi e negli spazi pubblici o aperti al pubblico. La realtà odierna conferma continuamente tale dato, connesso evidentemente alla intensificazione dei flussi migratori e alla circolazione più massiccia di talune pratiche religiose che, storicamente, non sono appartenute alla cultura e alla tradizione dei paesi dell’Europa occidentale e rispetto alle quali si evidenziano disagi. Conseguentemente, nell’analisi giuridica della simbologia visibile dei segni religiosi in pubblico o in spazi aperti al pubblico, si deve tener conto anche dello specifico contesto nazionale e locale ove vengono esibiti. Infatti, i medesimi simboli possono essere percepiti come espressione di libertà o, viceversa, di oppressione. Diventa, nel contesto europeo, sempre più emblematica la questione del velo islamico, poiché è rappresentativa della difficoltà dell’integrazione della comunità islamica proveniente dall’immigrazione. La esigenza necessitata, evidenziata dal caso in esame, è quella di riuscire ad equilibrare la libertà religiosa e la libertà di impresa: da un lato deve essere garantito al lavoratore dipendente il diritto all’esercizio dei diritti fondamentali, tra i quali quello alla religione in cui crede e, dall’altro, il diritto dell’impresa a garantire a tutti i suoi dipendenti e anche ai suoi clienti un clima di neutralità. La visibilità dei segni religiosi, in una dimensione di superamento delle ideologie nazionali, deve necessariamente coniugarsi con il crescente pluralismo ideologico e religioso che connota l’Unione.

3. Le conclusioni della Corte

Il percorso argomentativo che compie la Corte parte dalla valutazione della disparità di trattamento o meno, indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali del lavoratore dipendente ex articolo 2, par. 2 lett b) della Direttiva 78/2000: la differenza di trattamento non integra discriminazione indiretta se oggettivamente giustificata da un obiettivo legittimo perseguito dall’impresa che adotti una politica di neutralità nei confronti della sua clientela e se i mezzi impiegati, per il suo conseguimento, risultassero appropriati e necessari.

Sulla base di tali valutazioni, la Corte, evidenziando, nel caso sottoposto alla sua attenzione, un difetto dell’esistenza di una norma interna, in vigore presso l’impresa datrice di lavoro, che preveda il divieto di esibire un segno visibile di convinzioni religiose, ha escluso che possa essere rilevante il mero desiderio dei clienti di non essere serviti da una lavoratrice col velo islamico, perché in base all’articolo 4 par.1 della Direttiva 78/2000 e in base alla giurisprudenza costante della stessa Corte, la nozione di requisito essenziale e determinante (come, ad esempio, la neutralità della politica aziendale) per lo svolgimento dell’attività lavorativa, che giustificherebbe la disparità di trattamento rinvia ad un requisito che sia oggettivamente dettato dalla natura del contesto in cui l’attività lavorativa viene espletata e non alle motivazioni ad esso sottese, tantomeno può includere considerazioni soggettive, come la volontà del datore di lavoro di tener conto dei desideri particolari dei clienti. La Corte perviene alla decisione per cui il desiderio dei clienti di un’azienda, la quale non ha una norma interna che imponga il divieto di indossare il velo islamico non è rilevante e non assurge a requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La novità della pronuncia risiede nell’affermazione che il licenziamento di una dipendente musulmana che rifiuti di non indossare il velo nell’attività di lavoro sia una potenziale discriminazione indiretta.

Peraltro, da quanto emerge dalla giurisprudenza della Corte, il divieto di indossare simboli religiosi non può che essere un criterio neutro perché riguarda e deve riguardare tutte le religioni e non solo quella islamica: la Corte, in questa sentenza, afferma qualcosa di diverso rispetto alla giurisprudenza più aperta alla libertà dei lavoratori.

Il principio paritario è uno strumento di sindacato dei poteri datoriali, nello svolgimento del rapporto di lavoro, ma i divieti di discriminazioni non possono pregiudicare, se correttamente eseguiti, gli interessi del datore di lavoro: la scelta di una politica aziendale di neutralità prevale sulla libertà dei singoli lavoratori, che non può certamente ritenersi violata se tutti i lavoratori sono trattati allo stesso modo e se la disparità di trattamento è oggettivamente giustificata.

Nel bilanciamento di interessi che entrano in gioco nel rapporto di lavoro con un controllo di proporzionalità e ragionevolezza, la Corte sembra privilegiare la politica aziendale di neutralità dell’impresa, purché non sia nel caso concreto discriminatoria. In questo senso, la libertà di impresa e la libertà religiosa del lavoratore non entrano in conflitto, perché agiscono su piani diversi che non devono essere convergenti.

La sentenza Bougnaoui ha una sentenza gemella ovvero la sentenza Achbita (C-157/15,grande sezione, Achbita e Centrum c.G4S Secure Solutions –NV) nella quale la Corte si è pronunciata sull’articolo 2, par 2 lett a), relativo alla discriminazione diretta, in merito alla controversia relativa ad una lavoratrice musulmana, alle dipendenze, in qualità di receptionist, di un’impresa privata che forniva servizi di ricevimento e di accoglienza a clienti del settore pubblico e privato, la quale, rifiutatasi di togliere il velo islamico sul luogo di lavoro, sulla base di una norma interna del regolamento aziendale che prescrive il divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche e religiose, veniva licenziata.

Il suo licenziamento veniva ritenuto legittimo nei due gradi di giudizio per il motivo che non si riscontra una discriminazione diretta, sussistendo una disposizione aziendale applicabile a tutti i dipendenti, senza alcuna discriminazione religiosa. La difesa, all’opposto, sostiene che il criterio aziendale non sia un criterio neutro, bensì discriminatorio in quanto provoca differenza di trattamento tra i lavoratori, a seconda che indossino o meno il velo islamico. Ne deriva, conseguentemente, il rinvio pregiudiziale alla Corte, chiamata a pronunciarsi sull’articolo 2, par.2 lett a) della Direttiva 78/2000 e sulla sua corretta interpretazione.

La Corte decide nel senso che il citato articolo “deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare il velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva. Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, par 2 lett b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti coi clienti, e che i mezzi impiegati per il perseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare”.

La Corte, dunque, anche in questa sentenza, ribadisce che occorre che sia il giudice nazionale a verificare, in concreto, che l’appartenenza ad una cultura religiosa incida sulle prestazioni professionali esigibili dal lavoratore.