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Illecito disciplinare - TAR Lazio: niente dipendenti privati nei tribunali grazie a rapporti di distacco

Illecito disciplinare - TAR Lazio: niente dipendenti privati nei tribunali grazie a rapporti di distacco
Illecito disciplinare - TAR Lazio: niente dipendenti privati nei tribunali grazie a rapporti di distacco

La questione

La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha deliberato la revoca dall’incarico di giudice di pace del coordinatore, poi effettivamente irrogata dal Ministro della Giustizia, in ragione del fatto che il magistrato onorario ha consentito ad un soggetto estraneo all’amministrazione della giustizia di coadiuvare per un periodo di circa quattro anni nell’ufficio, venendo retribuito dagli stessi giudici di pace ivi presenti, compreso quello colpito dal provvedimento di revoca.

Il destinatario ha impugnato la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura che ha disposto la revoca del suo incarico di giudice di pace, chiedendone l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia ed affidando il gravame a tre motivi.

 

Termine perentorio e termine ordinatorio

Benché con la legge sul procedimento amministrativo si sia assistito alla generalizzazione del dovere delle pubbliche amministrazioni di decidere entro un termine, non solo nessuna disposizione di legge lo ha elevato a requisito di validità del provvedimento amministrativo, rimanendo dunque tale dovere confinato sul piano dei comportamenti dell’amministrazione (semmai dando luogo all’elaborazione dell’istituto del silenzio), ma anche la giurisprudenza, che pure ha talvolta riconosciuto la natura perentoria, lo ha fatto in relazione a termini di conclusione del procedimento, non ad altri di natura endoprocedimentale.

È vero che la legge, nel disciplinare la sequenza degli atti che conducono all’adozione della sanzione disciplinare, prevede anche la scansione temporale delle relative fasi procedimentali, e in particolare il termine di quindici giorni per la contestazione di fatti costituenti causa di revoca, finalizzato alla formulazione di un giudizio di non manifesta infondatezza dei fatti oggetto di valutazione, ma si tratta di un termine meramente ordinatoriotale da escludere l’illegittimità della revoca per violazione dei termini lamentata dal ricorrente. Per questo, nel caso di specie, ben poco vale la contestazione da parte del ricorrente della dilatazione della fase di verifica della rilevanza delle notizie raccolte ai fini della iscrizione nell’apposito registro (sarebbero decorsi circa 26 mesi dalla conoscenza dei fatti) come primo motivo di gravame.

Del resto, l’orientamento del Collegio che ravvisa il carattere acceleratorio del suddetto termine procedurale, nel rispetto dei principi di buon andamento (articolo 97 Cost.), efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (art. 1, comma 1, legge 241/1990), è di piena coerenza anche con i requisiti della doverosità e della continuità dell’esercizio della funzione pubblica, che non ammettono l’invalidità dell’atto sopravvenuto alla scadenza dei termini, contrariamente alla pretesa del ricorrente.

 

Difetto di presupposti ed illogicità quali figure sintomatiche dell’eccesso di potere

L’illecito disciplinare dei giudici di pace - per cui è prevista, tra le altre tipologie sanzionatorie, proprio la revoca - è ricostruito mediante una formula normativa (articolo 9, comma 3, della legge 374/1991) che da un lato condanna il comportamento negligente e scorretto, come tipicamente avviene nelle descrizioni delle condotte degli illeciti disciplinari, dall’altro lato punisce parimenti anche il giudice di pace che non è in grado di svolgere diligentemente e proficuamente il proprio incarico: sembra, quindi, dare rilievo disciplinare al lavoro svolto in modo negligente oppure semplicemente inadeguato.

Ne risulta la descrizione di un illecito disciplinare non tipizzato perché non afferma quando il comportamento è negligente o scorretto oppure l’incarico non sia svolto in maniera diligente e proficua, riempito dei contenuti provenienti dalla casistica e dai relativi deliberati del Csm: aperto alla possibilità di sanzionare illeciti commessi al di fuori delle funzioni giudiziarie, essendo l’espressione utilizzata generica e atecnica, dunque suscettibile di ricomprendere i fatti contestati al ricorrente nel caso di specie, che consistono nella lesione del prestigio, della credibilità e dell’imparzialità della funzione giudiziaria. Per questi motivi, è infondato il difetto di presupposti di fatto e di diritto lamentato dal ricorrente.

Per effetto della mancanza di correlazione con un precetto generale ed univoco che stabilisca la liceità o illiceità di certi comportamenti, le sanzioni sono discrezionalmente applicabili dall’organo di autogoverno della magistratura (nulla questio sul fatto che la motivazione contenuta nel provvedimento applicativo della sanzione stessa dovrà rispondere a criteri di congruità e non contraddittorietà). Il risvolto patologico della suddetta discrezionalità viene escluso dal collegio che, non potendo sostituire con la propria la valutazione degli elementi emergenti a carico del magistrato onorario interessato e dovendo limitare il suo sindacato ad un esame estrinseco della ragionevolezza della misura adottata, non riscontra illogicità alcuna quale figura sintomatica del vizio di eccesso di potere lamentato dal ricorrente.

Altre figure sintomatiche dell’eccesso di potere: contraddittorietà, carenza di motivazione e violazione del principio di proporzionalità

Il TAR esclude altresì che la motivazione del provvedimento di revoca sia insufficiente, avendo il Csm adeguatamente considerato le tesi addotte dal ricorrente in sede difensiva, o contraddittoria, apparendo immune da vizi di palese travisamento dei fatti, essendo fondata su dati di fatto oggettivi, documentati e ammessi dallo stesso ricorrente.

Inoltre, posto che il principio di proporzionalità si applica per annullare i provvedimenti che presentano evidenti difformità tra mezzi impiegati e necessità di cura dell’interesse pubblico, alla luce della gravità degli addebiti accertati l’applicazione della misura sanzionatoria della revoca dell’incarico non si può ritenere abnorme.

 

La decisione

Per l’infondatezza delle censure svolte nei confronti della delibera del Csm ed attesa la correttezza del procedimento che ha condotto all’applicazione della sanzione irrogata, il TAR Lazio ha confermato la revoca dell’incarico al magistrato onorario coordinatore disposta dal Consiglio superiore della magistratura, definendo il giudizio nel merito in sede di decisione della domanda cautelare, come previsto dall’articolo 60 del Codice del processo amministrativo.

Di fatto, il collegio condanna la pratica, che coinvolge soprattutto le Fondazioni degli ordini professionali, cioè soggetti privati, di assumere personale a tempo determinato e distaccarlo presso gli uffici pubblici, per rimediare a carenze di personale pubblico dipendente.

(Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sentenza 24 maggio 2017, n. 6132)