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La comunione dei beni nel diritto greco antico (Attico) e nel diritto romano arcaico.

Premessa

Lo studio del diritto attico, secondo parte della dottrina[1] è stato falsato ad opera degli studiosi del diritto romano, i quali partivano dal presupposto che le categorie entro cui si voleva inquadrare il diritto romano fossero applicabili a qualunque ordinamento giuridico, e che fra i vari diritti dell’antichità esistessero stretti legami.

Questa tesi, per la richiamata dottrina, si è rilevata ad una più attenta analisi quasi inesistente.

A differenza del sistema giuridico romano, agli ordinamenti greci antichi si adatta molto di più la dottrina istituzionalista che non quella normativistica. Infatti, il diritto attico, e in particolare quello di Atene, considerato come paradigma del diritto di una polis, presenta stratificazioni di ordinamenti diversi.

Bisogna comunque tenere presente che nell’ordinamento delle città attiche, accanto al diritto proprio della polis, esisteva un diritto sacrale, indipendente dall’ordinamento della città-stato e preesistente ad esso, e un diritto familiare, il quale, antecedente all’istituzione della polis, ha origine dal rapporto fra i membri della famiglia e tra le famiglie stesse.

Questo diritto familiare si distingueva in un diritto familiare interno, che disciplinava i rapporti dei membri della famiglia, le sorti del patrimonio familiare e il culto, ed in un complesso di rapporti consuetudinari vigenti ab inizio fra gruppi familiari diversi[2].

Per quanto riguarda il diritto di proprietà, bisogna tener presente che presso i Greci manca una nozione specifica di proprietà, che è una conquista peculiare della giurisprudenza romana. Essi concepivano la proprietà nei termini di un possesso momentaneamente libero da pretese altrui[3] ; di guisa che, mentre alla stregua del diritto romano classico, o si è proprietari o non lo si è, secondo il ricorrere o meno di certi requisiti obiettivi, per i Greci, all’opposto, una medesima persona nella medesima situazione sarà proprietaria di una cosa se non vi siano altri pretendenti dotati di un diritto più forte al possesso, e, viceversa, non lo sarà se il suo diritto di possedere sia deteriore rispetto a quello di qualche altro pretendente.

La comproprietà familiare e la comproprietà iure civili nel diritto attico.

Agli inizi della sua storia giuridica, in una comunità la terra può essere sottoposta sia al regime della indivisione che a quello della proprietà privata. Aristotele nella Politica[4] riporta tre esempi di indivisione della terra diffusi presso i popoli antichi.

Un primo esempio può essere dato dalla terra divisa in modo che ciascun gruppo possa coltivare un appezzamento, mettendo in comune i prodotti per la consumazione.

In secondo luogo, è possibile che la terra venga coltivata in comune e i frutti vengano divisi tra gli appartenenti dei gruppi.

Infine, può avvenire che la terra sia coltivata in comune e sempre in comune vengano consumati i prodotti.

In antica Grecia, secondo alcuni autori[5] vi era la situazione in cui la terra, pur restando di pertinenza della collettività, veniva divisa ed assegnata a ciascun gruppo familiare per la coltivazione; gruppo familiare che, poi, consumava i prodotti della terra assegnatagli.

Il fatto che, secondo il citato autore, ci fossero divisioni ed assegnazioni di lotti di terreno, consente di escludere che in antica Grecia vigesse il regime di comunione attuato attraverso la coltivazione in comune [6].

Comunque, risulta ancora incerto quale fosse il diritto che il gruppo, e per esso il suo capo, acquistava sul territorio assegnato; cioè, se si trattasse di un semplice diritto di godimento revocabile o invece di un vero e proprio diritto di proprietà.

Probabilmente, secondo alcuni,[7] i beni mobili e in particolare gli effetti personali sarebbero rientrati nella sfera di disponibilità dei singoli individui; i beni immobili, viceversa, almeno in epoca remota, sarebbero appartenuti alla collettività, che avrebbe potuto a suo piacimento sottrarli agli assegnatari.

In seguito, in una fase successiva, si sarebbe riconosciuto al gruppo familiare un diritto più forte, che potrebbe essere qualificato come diritto di proprietà familiare.[8]

Infine, vi sarebbe stata una terza fase nella quale sarebbe stata ammessa la possibilità che ai singoli individui di diventare titolari di un vero e proprio diritto di proprietà sugli immobili.[9]

Esaminiamo, ora, più da vicino, il fenomeno della comproprietà familiare.

In antica Grecia, il gruppo familiare si identificava con il suo capo. Nei rapporti esterni costui era considerato l’unico titolare del diritto di proprietà; nei rapporti interni, invece, il patrimonio era considerato di proprietà dell’intero gruppo.

Le fonti, comunque, ci mettono di fronte a numerose altre ipotesi in cui il diritto di proprietà appariva fissato in capo a due o più soggetti, dando luogo al fenomeno vero e proprio della comproprietà.[10]

Le fonti, infatti, attestano l’esistenza della comproprietà fraterna o parentale. Questa si verificava quando, alla morte del padre, gli eredi non manifestavano l’intenzione di procedere alla divisione dei beni facenti parte del gruppo familiare.[11]

Era poi possibile che due o più persone fossero comproprietari di singoli immobili ovvero di cose mobili di vario genere.

Infine, a differenza del diritto vigente in antica Roma, il diritto greco ammetteva la proprietà per parti materialmente distinte di uno stesso fondo e la divisione di uno stesso immobile per piani orizzontali o verticali.

Erano, inoltre, oggetto di comproprietà i beni appartenenti alle associazioni, che il diritto greco non arrivò mai a personificare, e il cui patrimonio, pertanto, era considerato proprietà di tutti gli associati, nonché ancora le parti indivisibili degli immobili oggetto di comproprietà pro diviso.

In ultimo, secondo una autorevole dottrina,[12] si usava ricorrere con notevole frequenza alla comunione di capitali per esigenze di carattere commerciale.

In merito al regime giuridico della comproprietà, il diritto greco antico prevedeva due figure: quella della comproprietà solidale, che sta alla base della comproprietà familiare e di tutti i tipi di comproprietà ad essa ispirati, e quella della comproprietà per quote, che sta alla base della comproprietà a scopi commerciali.

La comproprietà solidale si caratterizzava per il fatto che ciascun proprietario era considerato titolare dell’intero diritto di proprietà, e poteva compiere pertanto qualunque atto di disposizione, sia giuridica che materiale, della cosa. Ciò vuol dire che ogni partecipante poteva non solo servirsi dei frutti sino al soddisfacimento dei sui bisogni, ma anche alienare validamente la cosa, donarla o costituire su di essa diritti reali di garanzia.

Tutti gli altri comproprietari potevano opporsi all’atto compiuto da uno dei comproprietari, reagendo con una intimazione a non agire, fatta alla presenza di testimoni.

In questo caso, all’intimato si presentava un’alternativa: obbedire all’intimazione, astenendosi dal compiere l’atto o investire l’organo giurisdizionale del potere di decidere sulla opportunità dell’atto stesso.

Al regime di comproprietà solidale descritto, si contrapponeva la comunione di capitali.

In questa figura giuridica appariva funzionante in pieno il criterio della quota, che è l’inverso della solidarietà dominante nella comproprietà dei beni infungibili.

Rientrava in questo tipo di comunione il regime delle parti indivisibili dell’immobile nella communio pro diviso. Tale comproprietà, infatti, doveva essere disciplinata in tutto e per tutto come proprietà di quote afferenti alle porzioni materiali dell’immobile in rapporto alla loro entità. Infatti, negli atti di alienazione delle parti materiali, in cui l’immobile era suddiviso, veniva indicato spesso con una frazione matematica il diritto sulle parti accessorie indivisibili, con il conseguente trasferimento della proprietà sulle porzioni distinte.

La comunione si poteva sciogliere in due modi: per accordo o per sentenza.

Alla divisione stragiudiziale i contitolari della proprietà di una cosa o di un complesso patrimoniale potevano ricorrervi in qualunque ipotesi di condominio.

Per quanto riguarda la divisione per atto processuale, occorre distinguere se fra le parti vi fosse controversia intorno all’appartenenza del diritto o soltanto un conflitto di interessi circa il miglior modo di giungere alla determinazione delle porzioni materiali da aggiudicare ai singoli condividenti.

Nel primo caso, bisognava intentare un processo di rivendicazione parziale o di assegnazione di parte della coeredità; nel secondo caso, si ricorreva alla giurisdizione volontaria, anche se il procedimento incominciava con una citazione orale di colui o di coloro che assumevano l’iniziativa della divisione giudiziaria nell’interesse comune.

La comproprietà nel diritto romano: il consortium e la communio.

Nella Roma arcaica, il consortium rappresentava la prima manifestazione del fenomeno della comproprietà.

Esso si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra i discendenti soggetti alla immediata potestas del defunto.

In questa figura giuridica arcaica, ciascun consorte poteva, pure senza il consenso degli altri, sia gestire e fruire delle cose comuni sia alienarle. Poteva, comunque, disporre per l’intero, con effetti verso tutti gli appartenenti al consortium.

Quindi, ciascun partecipante alla comunione era considerato proprietario dell’intero.

A partire dalle XII tavole, attraverso l’actio familiare erciscundae si realizza la divisione del consortium.

Tra gli estranei, invece, ai sensi della lex-Licinnia, la procedura per addivenire alla divisione era l’actio communi dividendo.

Infatti, anche tra gli estranei si poteva costituire il consortium mediante il ricorso ad una legis actio.

Vi era anche un altro tipo di comproprietà: la communio. Essa poteva essere volontaria o incidentale.

La communio volontaria si costituiva per volontà degli stessi comproprietari; quella incidentale si costituiva prescindendo dalla volontà dei partecipanti alla communio.

In questa figura giuridica, a differenza del consortium, ciascun partecipante era titolare di una quota ideale del bene. Infatti, i Romani, muovendo dal principio della impossibilità che più persone avessero per intero la piena signoria sopra la stessa cosa, affermavano che la cosa comune apparteneva ai condomini non nel senso che fosse per intero di ciascuno di essi, né nel senso che di loro fossero parti materiali della cosa, ma nel senso che tutta la cosa era dei condomini per parti indivise. E la parte indivisa non era che una concezione giuridica per rappresentare il limite di ogni singolo diritto di proprietà, determinato dalla concorrenza degli altri diritti.

I Romani, dunque, ammettevano che a ciascun condomino spettasse un diritto di proprietà, limitato ad una parte intellettuale della cosa dalla concorrenza degli altri diritti.

La natura del condominio come pluralità di diritti di proprietà sopra una cosa è confermata dai frammenti di Gaio. Ma una più sicura conferma offrono le norme che regolavano il diritto di accrescimento fra condomini.

Questo diritto è attestato dalle fonti per il caso di abbandono della sua parte, fatto da uno dei condomini. Quanto alla manomissione, se uno dei condomini manometteva nelle forme prescritte il servo comune, perdeva la sua parte e lo schiavo diventava tutto, per diritto di accrescimento, dell’altro condomino; vale a dire che il diritto di proprietà di costui era stato limitato dal concorso del diritto di proprietà dell’altro e che, estinto il diritto concorrente, si espandeva nella sua pienezza

Nella communio il comproprietario poteva, senza il consenso degli altri, alienare la propria quota, ma nulla di più; poteva su di essa costituire usufrutto e pegno; partecipava alle spese nella misura corrispondente alla sua quota e, nella stessa misura, faceva suoi i frutti; pure pro quota rispondeva dei danni che la cosa comune avesse provocato a terzi.

L’eco del regime dell’antico consortium si coglie nella regola per cui ciascun comproprietario poteva da solo, senza il consenso preventivo degli altri, operare nella gestione e fruizione della cosa comune, e nel principio per cui, trattandosi di innovazioni, spettava a ciascuno dei contitolari il diritto di veto.

Attraverso lo ius proibendi, infatti, uno solo dei condomini poteva impedire con la forza, di sua autorità[13] qualsiasi azione iniziata dagli altri sulla cosa e distruggere l’opera compiuta senza il suo consenso. Tale figura risulta informata alla concezione del condominio come pluralità di diritti di proprietà. Ogni condomino aveva il diritto di fare sulla cosa comune le spese occorrenti perché fosse possibile l’amministrazione della propria parte e di chiedere agli altri condomini il rimborso delle spese sostenute per le quote loro spettanti.

Ogni condomino, infine, poteva chiedere la divisione della cosa comune e a tale diritto non era lecito rinunciare che per un tempo determinato. Serviva a tal uopo l’actio communi dividendo. In essa si teneva conto di tutto ciò che l’un condomino doveva all’altro, ripartendosi equamente gli utili della cosa, i danni a causa di essa, le spese fatte sulla cosa o a causa della medesima per il comune vantaggio.



[1] Louis Genet, Diritto e civiltà in Grecia antica, La nuova Italia, 2000; Arnaldo Biscardi, diritto greco antico, Giuffrè, 1982.

[2] A. Biscardi, op. cit., pag 10

[3] Paoli, La difesa del possesso in diritto attico, Studi Albertoni, Padova 1937, pag 311

[4] Aristotele, Politica II, 1262b.

[5] A. Biscardi, op. cit., pag. 178.

[6] Platone, leggi, 740.

[7] Asheri, Attribuzione di terre nell’antica Grecia, in Memorie Accad. Scienze Torino, 4°, X, 1966.

[8] Brunk, Totenteil und Seelgerat im griechischen Recht. Eine entwicklungsgeschichtliche Untersuchung zum Verhaltnis von Recht und Religion mit Beitragen zur Geschichte des Eigentums und des Erbrechts, Munchen, 1970.

[9] Guiraud, La propriété fonciere en Grèce jusqu’à la consuete romaine, Paris 1893.

[10] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955.

[11] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955, citato, pag. 108.

[12] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955 ,citato, pagg. 115-118.

[13] Riccobono, Communio e comproprietà, Essays in legal history, Oxford, 1913, pag.39, che è studio fondamentale.

Premessa

Lo studio del diritto attico, secondo parte della dottrina[1] è stato falsato ad opera degli studiosi del diritto romano, i quali partivano dal presupposto che le categorie entro cui si voleva inquadrare il diritto romano fossero applicabili a qualunque ordinamento giuridico, e che fra i vari diritti dell’antichità esistessero stretti legami.

Questa tesi, per la richiamata dottrina, si è rilevata ad una più attenta analisi quasi inesistente.

A differenza del sistema giuridico romano, agli ordinamenti greci antichi si adatta molto di più la dottrina istituzionalista che non quella normativistica. Infatti, il diritto attico, e in particolare quello di Atene, considerato come paradigma del diritto di una polis, presenta stratificazioni di ordinamenti diversi.

Bisogna comunque tenere presente che nell’ordinamento delle città attiche, accanto al diritto proprio della polis, esisteva un diritto sacrale, indipendente dall’ordinamento della città-stato e preesistente ad esso, e un diritto familiare, il quale, antecedente all’istituzione della polis, ha origine dal rapporto fra i membri della famiglia e tra le famiglie stesse.

Questo diritto familiare si distingueva in un diritto familiare interno, che disciplinava i rapporti dei membri della famiglia, le sorti del patrimonio familiare e il culto, ed in un complesso di rapporti consuetudinari vigenti ab inizio fra gruppi familiari diversi[2].

Per quanto riguarda il diritto di proprietà, bisogna tener presente che presso i Greci manca una nozione specifica di proprietà, che è una conquista peculiare della giurisprudenza romana. Essi concepivano la proprietà nei termini di un possesso momentaneamente libero da pretese altrui[3] ; di guisa che, mentre alla stregua del diritto romano classico, o si è proprietari o non lo si è, secondo il ricorrere o meno di certi requisiti obiettivi, per i Greci, all’opposto, una medesima persona nella medesima situazione sarà proprietaria di una cosa se non vi siano altri pretendenti dotati di un diritto più forte al possesso, e, viceversa, non lo sarà se il suo diritto di possedere sia deteriore rispetto a quello di qualche altro pretendente.

La comproprietà familiare e la comproprietà iure civili nel diritto attico.

Agli inizi della sua storia giuridica, in una comunità la terra può essere sottoposta sia al regime della indivisione che a quello della proprietà privata. Aristotele nella Politica[4] riporta tre esempi di indivisione della terra diffusi presso i popoli antichi.

Un primo esempio può essere dato dalla terra divisa in modo che ciascun gruppo possa coltivare un appezzamento, mettendo in comune i prodotti per la consumazione.

In secondo luogo, è possibile che la terra venga coltivata in comune e i frutti vengano divisi tra gli appartenenti dei gruppi.

Infine, può avvenire che la terra sia coltivata in comune e sempre in comune vengano consumati i prodotti.

In antica Grecia, secondo alcuni autori[5] vi era la situazione in cui la terra, pur restando di pertinenza della collettività, veniva divisa ed assegnata a ciascun gruppo familiare per la coltivazione; gruppo familiare che, poi, consumava i prodotti della terra assegnatagli.

Il fatto che, secondo il citato autore, ci fossero divisioni ed assegnazioni di lotti di terreno, consente di escludere che in antica Grecia vigesse il regime di comunione attuato attraverso la coltivazione in comune [6].

Comunque, risulta ancora incerto quale fosse il diritto che il gruppo, e per esso il suo capo, acquistava sul territorio assegnato; cioè, se si trattasse di un semplice diritto di godimento revocabile o invece di un vero e proprio diritto di proprietà.

Probabilmente, secondo alcuni,[7] i beni mobili e in particolare gli effetti personali sarebbero rientrati nella sfera di disponibilità dei singoli individui; i beni immobili, viceversa, almeno in epoca remota, sarebbero appartenuti alla collettività, che avrebbe potuto a suo piacimento sottrarli agli assegnatari.

In seguito, in una fase successiva, si sarebbe riconosciuto al gruppo familiare un diritto più forte, che potrebbe essere qualificato come diritto di proprietà familiare.[8]

Infine, vi sarebbe stata una terza fase nella quale sarebbe stata ammessa la possibilità che ai singoli individui di diventare titolari di un vero e proprio diritto di proprietà sugli immobili.[9]

Esaminiamo, ora, più da vicino, il fenomeno della comproprietà familiare.

In antica Grecia, il gruppo familiare si identificava con il suo capo. Nei rapporti esterni costui era considerato l’unico titolare del diritto di proprietà; nei rapporti interni, invece, il patrimonio era considerato di proprietà dell’intero gruppo.

Le fonti, comunque, ci mettono di fronte a numerose altre ipotesi in cui il diritto di proprietà appariva fissato in capo a due o più soggetti, dando luogo al fenomeno vero e proprio della comproprietà.[10]

Le fonti, infatti, attestano l’esistenza della comproprietà fraterna o parentale. Questa si verificava quando, alla morte del padre, gli eredi non manifestavano l’intenzione di procedere alla divisione dei beni facenti parte del gruppo familiare.[11]

Era poi possibile che due o più persone fossero comproprietari di singoli immobili ovvero di cose mobili di vario genere.

Infine, a differenza del diritto vigente in antica Roma, il diritto greco ammetteva la proprietà per parti materialmente distinte di uno stesso fondo e la divisione di uno stesso immobile per piani orizzontali o verticali.

Erano, inoltre, oggetto di comproprietà i beni appartenenti alle associazioni, che il diritto greco non arrivò mai a personificare, e il cui patrimonio, pertanto, era considerato proprietà di tutti gli associati, nonché ancora le parti indivisibili degli immobili oggetto di comproprietà pro diviso.

In ultimo, secondo una autorevole dottrina,[12] si usava ricorrere con notevole frequenza alla comunione di capitali per esigenze di carattere commerciale.

In merito al regime giuridico della comproprietà, il diritto greco antico prevedeva due figure: quella della comproprietà solidale, che sta alla base della comproprietà familiare e di tutti i tipi di comproprietà ad essa ispirati, e quella della comproprietà per quote, che sta alla base della comproprietà a scopi commerciali.

La comproprietà solidale si caratterizzava per il fatto che ciascun proprietario era considerato titolare dell’intero diritto di proprietà, e poteva compiere pertanto qualunque atto di disposizione, sia giuridica che materiale, della cosa. Ciò vuol dire che ogni partecipante poteva non solo servirsi dei frutti sino al soddisfacimento dei sui bisogni, ma anche alienare validamente la cosa, donarla o costituire su di essa diritti reali di garanzia.

Tutti gli altri comproprietari potevano opporsi all’atto compiuto da uno dei comproprietari, reagendo con una intimazione a non agire, fatta alla presenza di testimoni.

In questo caso, all’intimato si presentava un’alternativa: obbedire all’intimazione, astenendosi dal compiere l’atto o investire l’organo giurisdizionale del potere di decidere sulla opportunità dell’atto stesso.

Al regime di comproprietà solidale descritto, si contrapponeva la comunione di capitali.

In questa figura giuridica appariva funzionante in pieno il criterio della quota, che è l’inverso della solidarietà dominante nella comproprietà dei beni infungibili.

Rientrava in questo tipo di comunione il regime delle parti indivisibili dell’immobile nella communio pro diviso. Tale comproprietà, infatti, doveva essere disciplinata in tutto e per tutto come proprietà di quote afferenti alle porzioni materiali dell’immobile in rapporto alla loro entità. Infatti, negli atti di alienazione delle parti materiali, in cui l’immobile era suddiviso, veniva indicato spesso con una frazione matematica il diritto sulle parti accessorie indivisibili, con il conseguente trasferimento della proprietà sulle porzioni distinte.

La comunione si poteva sciogliere in due modi: per accordo o per sentenza.

Alla divisione stragiudiziale i contitolari della proprietà di una cosa o di un complesso patrimoniale potevano ricorrervi in qualunque ipotesi di condominio.

Per quanto riguarda la divisione per atto processuale, occorre distinguere se fra le parti vi fosse controversia intorno all’appartenenza del diritto o soltanto un conflitto di interessi circa il miglior modo di giungere alla determinazione delle porzioni materiali da aggiudicare ai singoli condividenti.

Nel primo caso, bisognava intentare un processo di rivendicazione parziale o di assegnazione di parte della coeredità; nel secondo caso, si ricorreva alla giurisdizione volontaria, anche se il procedimento incominciava con una citazione orale di colui o di coloro che assumevano l’iniziativa della divisione giudiziaria nell’interesse comune.

La comproprietà nel diritto romano: il consortium e la communio.

Nella Roma arcaica, il consortium rappresentava la prima manifestazione del fenomeno della comproprietà.

Esso si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra i discendenti soggetti alla immediata potestas del defunto.

In questa figura giuridica arcaica, ciascun consorte poteva, pure senza il consenso degli altri, sia gestire e fruire delle cose comuni sia alienarle. Poteva, comunque, disporre per l’intero, con effetti verso tutti gli appartenenti al consortium.

Quindi, ciascun partecipante alla comunione era considerato proprietario dell’intero.

A partire dalle XII tavole, attraverso l’actio familiare erciscundae si realizza la divisione del consortium.

Tra gli estranei, invece, ai sensi della lex-Licinnia, la procedura per addivenire alla divisione era l’actio communi dividendo.

Infatti, anche tra gli estranei si poteva costituire il consortium mediante il ricorso ad una legis actio.

Vi era anche un altro tipo di comproprietà: la communio. Essa poteva essere volontaria o incidentale.

La communio volontaria si costituiva per volontà degli stessi comproprietari; quella incidentale si costituiva prescindendo dalla volontà dei partecipanti alla communio.

In questa figura giuridica, a differenza del consortium, ciascun partecipante era titolare di una quota ideale del bene. Infatti, i Romani, muovendo dal principio della impossibilità che più persone avessero per intero la piena signoria sopra la stessa cosa, affermavano che la cosa comune apparteneva ai condomini non nel senso che fosse per intero di ciascuno di essi, né nel senso che di loro fossero parti materiali della cosa, ma nel senso che tutta la cosa era dei condomini per parti indivise. E la parte indivisa non era che una concezione giuridica per rappresentare il limite di ogni singolo diritto di proprietà, determinato dalla concorrenza degli altri diritti.

I Romani, dunque, ammettevano che a ciascun condomino spettasse un diritto di proprietà, limitato ad una parte intellettuale della cosa dalla concorrenza degli altri diritti.

La natura del condominio come pluralità di diritti di proprietà sopra una cosa è confermata dai frammenti di Gaio. Ma una più sicura conferma offrono le norme che regolavano il diritto di accrescimento fra condomini.

Questo diritto è attestato dalle fonti per il caso di abbandono della sua parte, fatto da uno dei condomini. Quanto alla manomissione, se uno dei condomini manometteva nelle forme prescritte il servo comune, perdeva la sua parte e lo schiavo diventava tutto, per diritto di accrescimento, dell’altro condomino; vale a dire che il diritto di proprietà di costui era stato limitato dal concorso del diritto di proprietà dell’altro e che, estinto il diritto concorrente, si espandeva nella sua pienezza

Nella communio il comproprietario poteva, senza il consenso degli altri, alienare la propria quota, ma nulla di più; poteva su di essa costituire usufrutto e pegno; partecipava alle spese nella misura corrispondente alla sua quota e, nella stessa misura, faceva suoi i frutti; pure pro quota rispondeva dei danni che la cosa comune avesse provocato a terzi.

L’eco del regime dell’antico consortium si coglie nella regola per cui ciascun comproprietario poteva da solo, senza il consenso preventivo degli altri, operare nella gestione e fruizione della cosa comune, e nel principio per cui, trattandosi di innovazioni, spettava a ciascuno dei contitolari il diritto di veto.

Attraverso lo ius proibendi, infatti, uno solo dei condomini poteva impedire con la forza, di sua autorità[13] qualsiasi azione iniziata dagli altri sulla cosa e distruggere l’opera compiuta senza il suo consenso. Tale figura risulta informata alla concezione del condominio come pluralità di diritti di proprietà. Ogni condomino aveva il diritto di fare sulla cosa comune le spese occorrenti perché fosse possibile l’amministrazione della propria parte e di chiedere agli altri condomini il rimborso delle spese sostenute per le quote loro spettanti.

Ogni condomino, infine, poteva chiedere la divisione della cosa comune e a tale diritto non era lecito rinunciare che per un tempo determinato. Serviva a tal uopo l’actio communi dividendo. In essa si teneva conto di tutto ciò che l’un condomino doveva all’altro, ripartendosi equamente gli utili della cosa, i danni a causa di essa, le spese fatte sulla cosa o a causa della medesima per il comune vantaggio.



[1] Louis Genet, Diritto e civiltà in Grecia antica, La nuova Italia, 2000; Arnaldo Biscardi, diritto greco antico, Giuffrè, 1982.

[2] A. Biscardi, op. cit., pag 10

[3] Paoli, La difesa del possesso in diritto attico, Studi Albertoni, Padova 1937, pag 311

[4] Aristotele, Politica II, 1262b.

[5] A. Biscardi, op. cit., pag. 178.

[6] Platone, leggi, 740.

[7] Asheri, Attribuzione di terre nell’antica Grecia, in Memorie Accad. Scienze Torino, 4°, X, 1966.

[8] Brunk, Totenteil und Seelgerat im griechischen Recht. Eine entwicklungsgeschichtliche Untersuchung zum Verhaltnis von Recht und Religion mit Beitragen zur Geschichte des Eigentums und des Erbrechts, Munchen, 1970.

[9] Guiraud, La propriété fonciere en Grèce jusqu’à la consuete romaine, Paris 1893.

[10] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955.

[11] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955, citato, pag. 108.

[12] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955 ,citato, pagg. 115-118.

[13] Riccobono, Communio e comproprietà, Essays in legal history, Oxford, 1913, pag.39, che è studio fondamentale.