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La Consulta applica gli insegnamenti della scuola di public choice?

Nuvole
Ph. Giovanni Contarelli / Nuvole

La più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale si segnala per una lucida applicazione delle norme che la nostra Carta fondamentale detta a presidio dell’uso accorto dei soldi dei contribuenti.

A tal proposito, risulta di centrale importanza la sentenza n. 18/2019 (Pres. Lattanzi, Red. Carosi), con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 1 comma 714 della legge n. 208/2015 (come sostituito dall’articolo 1 comma 434, della legge n. 232/2016), che consentiva agli enti locali in stato di pre-dissesto di ricorrere all’indebitamento per gestire in disavanzo la spesa corrente per un trentennio. In quell’occasione, il Giudice delle leggi ha eliminato una “scappatoia”, per così dire, che il legislatore aveva congegnato per i tanti enti locali italiani appesantiti da bilanci fuori controllo, consentendo a questi ultimi – pur strutturalmente in disavanzo – di contrarre ulteriore debito per finanziare la spesa corrente e di spalmare il piano di rientro su un arco temporale lunghissimo.

Più di recente, e sulla medesima scia, con la sentenza n. 4/2020 (Pres. e Red. Carosi), la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimi l’articolo 2 comma 6 del decreto legge n. 78/2015 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125/2015) e l’articolo 1 comma 814 della legge n. 205/2017, che consentivano di utilizzare le anticipazioni di liquidità per modificare il risultato di amministrazione dell’ente locale. In questo caso, il Giudice delle leggi ha affermato il principio di diritto secondo cui le anticipazioni di liquidità possono essere utilizzate dagli enti locali, in senso costituzionalmente conforme, solo per pagare passività pregresse iscritte in bilancio.

Leggendo insieme le due citate sentenze, emerge un orientamento della Consulta a evidenziare tre profili di incompatibilità con la Carta costituzionale (in specie, con i suoi artt. 81, 97 comma 1 e 119 comma 6) delle discipline volte a rendere meno stringente il rispetto delle regole di sana gestione finanziaria:

i) violazione del principio dell’equilibrio di bilancio;

ii) violazione del principio di rappresentanza democratica;

iii) violazione del principio dell’equità intergenerazionale.

È necessario spendere qualche parola per ciascuno di questi profili, nella consapevolezza che – all’interno della giurisprudenza della Corte – questi non si pongono come punti a sé stanti, ma sono piuttosto legati da un rapporto di reciproca dipendenza.

Quanto alla violazione del principio dell’equilibrio di bilancio, il Giudice delle leggi ha messo in evidenza come i precetti normativi espressi negli articolo 81 e 97 comma 1 Costituzione – a norma dei quali tanto lo Stato centrale, quanto gli enti locali (in funzione di pubbliche amministrazioni) sono tenuti ad assicurare l’equilibrio dei conti pubblici e la sostenibilità del debito contratto – dettano delle indicazioni chiare su come affrontare (e, auspicabilmente, risolvere) il problema dei disavanzi di bilancio.

Ciò al conclamato scopo di assicurare che al deficit si ponga rimedio quanto più immediato possibile e, in ogni caso, non oltre la scadenza del mandato elettorale, affinché gli amministratori possano presentarsi in modo trasparente al giudizio dell’elettorato, senza lasciare “eredità” finanziariamente onerose e indefinite ai loro successori e ai futuri amministrati.

In caso contrario, si integrerebbe una violazione del principio di rappresentanza democratica, il quale è, innanzitutto, un principio di responsabilità politica di fronte agli elettori: la trasparenza della gestione finanziaria rappresenta un «elemento indefettibile per avvicinare in senso democratico i cittadini all’attività dell’Amministrazione, in quanto consente di valutare in modo obiettivo e informato lo svolgimento del mandato elettorale, e per responsabilizzare gli amministratori» (sentenza n. 4/2020; vd., anche, sentenza n. 49/2018).

Motivo per cui, se agli amministratori in carica dovesse essere consentito di spostare il processo di razionalizzazione e riorganizzazione delle spese, nessuno di loro sarebbe posto «nelle condizioni di presentarsi al giudizio degli elettori separando i risultati direttamente raggiunti dalle conseguenze imputabili alle gestioni pregresse» (sentenza n. 18/2019).

Il che vuol dire, da una parte, che un sindaco o un presidente di regione potrebbe spendere e spandere (in «politiche di “corto respiro”», come le definisce la sentenza da ultimo citata) senza doversi preoccupare delle disponibilità di cassa e, allo stesso tempo, ponendo un’ipoteca sull’azione del suo successore, il quale si troverà obbligato a far quadrare i conti che altri hanno lasciato allo sbando; e, dall’altra, che anche strumenti di carattere eccezionale che l’ordinamento ammette come rimedio particolare a fronte pregressi fenomeni di inappropriata gestione (quali le anticipazioni di liquidità, per tornare sull’oggetto sub iudice nella sentenza n. 4/2020) possono essere utilizzati in senso costituzionalmente conforme solo per pagare passività pregresse iscritte in bilancio, e non per assicurare nuove forme di copertura giuridica della spesa, pena la falsificazione dei risultati di gestione che dovranno essere sottoposti al giudizio degli elettori.

Completa il quadro l’ultimo (e più grave) profilo di illegittimità costituzionale, rappresentato dalla violazione dell’equità intergenerazionale: «la lunghissima dilazione temporale finisce [per far sì] che sugli amministrati futuri verranno a gravare sia risalenti e importanti quote di deficit, sia la restituzione dei prestiti autorizzati nel corso della procedura di rientro dalla norma impugnata» (sentenza n. 18/2019). Ma in questo modo, ammonisce la Consulta, si grava in modo sproporzionato sulle opportunità di crescita delle generazioni future, sottraendo a queste ultime le risorse necessarie per un equilibrato sviluppo.

Volendo fare opera di sintesi, è possibile dire che, con queste sentenze, la Corte Costituzionale ha reso evidente che l’equilibrio dei conti è un presupposto della sana gestione finanziaria, del buon andamento e della corretta e ponderata programmazione delle politiche pubbliche (artt. 81 e 97 Costituzione), e che, in questa prospettiva, i deficit causati da inappropriate gestioni devono essere recuperati in tempi ragionevoli e nel rispetto del principio di responsabilità, secondo cui ciascun amministratore democraticamente eletto deve rispondere del proprio operato agli amministrati.

Ma c’è di più. Il Giudice delle leggi ha mostrato di avere chiaro il funzionamento (perverso) della struttura degli incentivi del finanziamento mediante debito, richiamando la regola aurea consacrata dall’articolo 119 comma 6 Costituzione: «l’indebitamento [deve] essere finalizzato e riservato unicamente agli investimenti in modo da determinare un tendenziale equilibrio tra la dimensione dei suoi costi e i benefici recati nel tempo alle collettività amministrate» (sentenza n. 18/2019). D’altronde, «dati elementari dell’esperienza» dimostrano che «solo un investimento efficace può compensare in positivo l’onere debitorio sotteso alla sua realizzazione», mentre «destinazioni diverse dall’investimento finiscono inevitabilmente per depauperare il patrimonio dell’ente pubblico che ricorre al credito» (sentenza n. 4/2020; vd., inoltre, sentenza n. 188/2014).

Forse è solo una suggestione di chi scrive, ma pare possibile ritrovare, in questi ultimi passaggi, traccia degli insegnamenti della scuola di public choice e, in particolare, di James Buchanan e Richard Wagner, i quali, non a caso, sono stati tra i principali fautori della costituzionalizzazione del principio del pareggio/equilibrio di bilancio (richiamato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze analizzate) e hanno mostrato con chiarezza i guasti cagionati da una «democrazia in deficit».

E, cioè, da un sistema che – per mezzo della leva del debito, che scarica i costi della spesa corrente sulle generazioni future – finisce per deresponsabilizzare non solo gli eletti, ma anche gli elettori.