Il declassamento degli enti di area vasta in Sicilia

Marco Rigamonti – Periplo siciliano
Marco Rigamonti – Periplo siciliano

Il declassamento degli enti di area vasta in Sicilia

 

Il 27 aprile 2025 può essere considerata una data storica per la Regione Sicilia e non solo perché i suoi 9 enti di area vasta si sono dotati degli organi di governo dopo un lungo commissariamento durato 11 anni. Per la prima volta, infatti, si è data concreta attuazione all’art. 15 dello statuto siciliano che, a differenza delle Regioni a statuto ordinario, non ha affidato alle Province il governo dell’area vasta ma ai Comuni.

April 27, 2025 can be considered a historic date for the Sicily Region and not only because the 9 large area entities have equipped themselves with governing bodies after a long 11-year administration. For the first time, in fact, art. 15 of the Sicilian statute has been implemented in practice, which, unlike the Regions with ordinary statutes, has not entrusted the government of the large area to the Provinces but to the Municipalities.

 

Sommario: Introduzione. 1. L’ente di area vasta nella Costituzione. 2. L’ente di area vasta in Sicilia. 3. La [s]copertura costituzionale dell’ente di area vasta. 4. La legittimazione ad agire in giudizio per la difesa degli interessi generali. 5. Le attività di promozione dello sviluppo della comunità. 6. La funzione impositiva. 7. Considerazioni finali

Introduzione.

La sofferta e mal tollerata elezione degli organi di governo degli enti di area vasta in Sicilia non potrà rappresentare un traguardo raggiunto ma, al contrario, un punto di partenza per un legislatore regionale che in questi 11 anni ha risentito particolarmente dell’incertezza di una riforma rimasta ferma con le “quattro frecce” anche in ambito statale. In tale contesto, in cui i cittadini/elettori hanno trasferito i rispettivi diritti di elettorato attivo e passivo in capo agli amministratori locali (Sindaci e Consiglieri comunali), la rivoluzione ordinamentale non deriva, come appare, dall’avvenuta elezione di 2° grado degli organi di governo delle istituite Città metropolitane (Catania, Palermo e Messina) e dai (re)istituiti  liberi Consorzi comunali (Enna, Caltanissetta, Agrigento, Trapani, Siracusa e Ragusa) ma dalla scelta di fare a meno di un ente territoriale di governo dotato di autonomia politica.

1. L’ente di area vasta nella Costituzione

L’ente di area vasta previsto dall’art. 3, comma 3, del TUEL e dall’art. 114 della Costituzione è la “Provincia”, è un ente locale intermedio tra Comune e Regione che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo. Un ente pubblico territoriale, cioè un ente “per antica dottrina sede propria di policentrismo autonomistico o, come si dice oggi, di federalismo[1], che realizza l’autogoverno della comunità provinciale e sovrintende all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima. Il profilo che emerge da questa definizione riguarda la diversa configurazione della Provincia come comunità territoriale sia sotto l’aspetto formale che sostanziale, ossia legata ad un substrato socio-politico di appartenenza collettiva unitaria, con una precisa identità.

Quindi un ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di cittadini, stanziata su un territorio d’ambito provinciale, della quale cura istituzionalmente anche gli interessi a promuovere lo sviluppo. La Provincia costituisce, quindi, un ente territoriale con competenze potenzialmente rappresentative della generalità[2] degli interessi sociali, economici e culturali delle comunità amministrate[3], cioè legati alla pluralità degli interessi propri della collettività rappresentata. La Provincia, al pari del Comune, è un ente pubblico portatore di autonomia locale nel “senso della portata del principio di autonomia, che viene inteso sempre più come un riconoscimento di effettive responsabilità, come uno spazio di autogoverno riconosciuto alle istituzioni rappresentative delle collettività locali di diverso livello: e questo senso dell’autonomia ha sempre più un contenuto complessivo che comprende anzitutto l’autonomia normativa, ossia la capacità di darsi regole proprie sia statutarie che regolamentari, e poi comprende la dimensione organizzativa, la dimensione amministrativa e la dimensione finanziaria”.[4]

2. L’ente di area vasta in Sicilia

A differenza di quanto previsto dall’art. 114 della Costituzione per le Regioni a statuto ordinario, in Sicilia l’ente intermedio (al netto delle soppresse circoscrizioni provinciali) è sempre esistito solo nella formula consortile utilizzata dai Comuni. L’art. 15 dello Statuto della Regione siciliana (approvato con Rdl 15/5/1946, n. 455 e conv. con l. cost. 26/2/1948, n. 2), avente rango di legge costituzionale, così recita: “Le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell’ambito della Regione siciliana. L’ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui comuni e sui liberi consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria. Nel quadro di tali principi generali spetta alla Regione la legislazione esclusiva e l’esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali”. Il modello scelto è chiaro, risolvendosi in una forma istituzionale che privilegia i Comuni e le loro aggregazioni consortili per governare le diverse aree vaste del territorio isolano.

Ciò nonostante, a seguito dell’auto-qualificazione operata dal legislatore regionale (art. 1, comma 3, l.r. n. 15/2015), i liberi Consorzi comunali e le Città metropolitane sono stati definiti “enti territoriali di area vasta dotati di autonomia statutaria, regolamentare, amministrativa, impositiva e finanziaria nell’ambito dei propri statuti e regolamenti, delle leggi regionali e delle leggi statali di coordinamento della finanza pubblica”. La scelta del legislatore regionale sembra replicare la “forzatura istituzionale” già consumata con la l.r. n. 9/86, allorquando i liberi Consorzi comunali (artatamente denominati “province regionali”) furono istituiti solo formalmente e solo per usufruire della copertura di cui al citato art. 15 dello statuto regionale. Nella pratica istituzionale, durata 27 anni circa, tali enti di area vasta sono stati invece equiparati alle Province presenti nel resto d’Italia.

E’ in tale contesto che si collocano i pronunciamenti di tre diverse giurisdizioni che, nel tempo, hanno concorso ad evidenziare la non conformità statutaria, e quindi costituzionale, delle scelte fin qui operate dal legislatore regionale. 

Nel 1955 l’Alta corte per la Regione siciliana (poi abrogata dalla Corte costituzionale con sent. n. 38/1957) dichiarò l’illegittimità del decreto legislativo di approvazione delle “norme sul nuovo ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana” nella parte dedicata a ricostituire le province statali sotto il titolo di province regionali. In quella sede fu affermato che “(…) il disposto dell’art. 15 dello Statuto sostituisce alle circoscrizioni provinciali e relativi organi ed enti, i liberi consorzi dei comuni. Tali consorzi non possono non avere origine dalla volontà dei rappresentanti comunali, ai quali spetterebbe precisare le finalità, i mezzi, gli organi pur nel quadro di una legge regionale[5].  

Nel 2012, il TAR Palermo ebbe l’occasione di affermare che “l’art. 15 dello Statuto siciliano attribuisce una diversa configurazione all’assetto istituzionale sovra comunale rispetto a quello scaturito dalla l.r. n. 9/1986 che ha attuato la norma costituzionale solo apparentemente secundum legem nel momento in cui ha determinato l’organizzazione delle province nella Regione siciliana, come nel resto dell’Italia, quali enti locali territoriali dotati di autonomia politica e non solo amministrativa e finanziaria[6].  

Ma la conferma del diverso status giuridico dell’ente di area vasta siciliano è arrivata con la sentenza n. 168/2018, attraverso la quale la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale la previsione dell’elezione diretta del presidente dei liberi Consorzi comunali per violazione dei principi di grande riforma economica e sociale contenuti nella legge statale Delrio, ha così concluso: “E ciò a prescindere dall’ulteriore profilo di contrasto – diretto – delle nuove disposizioni regionali sulla elezione a suffragio universale del presidente e del Consiglio del libero consorzio comunale con l’art. 15 dello statuto di autonomia della Regione siciliana, che ha riconfigurato le «soppress[e]» circoscrizioni provinciali su base, appunto, di «consorzi» tra comuni”.

Nè, d’altra parte, la natura giuridica dei nuovi enti di area vasta può essere determinata dalla sola apodittica affermazione del legislatore regionale, ma deve invece ricercarsi nell’oggetto della normativa statutaria, nella sua motivazione politico-sociale, nel suo scopo, nel suo contenuto e nella modificazione che essa apporta nei rapporti sociali.

Quindi, checchè ne dica il legislatore siciliano, i 6 liberi Consorzi comunali sono enti pubblici non territoriali di 2° livello che presentano solo due tipi di autonomia, quella amministrativa e quella finanziaria, risultando sprovvisti della terza autonomia, quella politica, di cui sono invece dotati solo gli enti territoriali di governo sia comunali che provinciali. Medesimo status è rinvenibile nelle tre Città metropolitane, così come affermato anche dal Tar Veneto prima, secondo cui “la cd. legge Delrio (l. n. 56/2014), promulgata in attuazione degli artt. 114 e 117, secondo comma, lett. p), Cost., ha istituito un nuovo Ente territoriale minore, leCittà Metropolitane” – solo in apparenza coincidente con l’Ente di cui ha preso il posto e cioè le Province –, disciplinandone la struttura, l’organizzazione ed il funzionamento e, per quanto qui interessa, prevedendo tra le altre la Città Metropolitana di Venezia[7] e dal Consiglio di Stato dopo: “È piuttosto da incentrare l’attenzione sulla circostanza che il sindaco metropolitano, per espressa previsione della legge, è di diritto il sindaco del comune del capoluogo: e quest’immedesimazione ratione officii da un lato attenua il collegamento effettivo con la rappresentanza popolare, connotando la città metropolitana come “ente di secondo livello”, cioè come ente non direttamente rappresentativo; da un altro lato previene il pericolo di una sorta di possibile diarchia sostanziale nella conduzione della città metropolitana[8]

Così, mentre la Provincia prevista dall’art. 114 della Costituzione è certamente l’ente esponenziale della rispettiva comunità, l’ente consortile siciliano è l’ente esponenziale dei propri Comuni. Tale ente costituisce certamente un’entità soggettiva autonoma e distinta dai singoli Comuni che ne fanno parte, sicché ogni attività svolta dai propri organi va imputata esclusivamente all’ente che essi rappresentano e non ai vari soggetti che di questo fanno parte e che hanno contribuito a costituire, così godendo di propria soggettività. Tuttavia, non costituisce un ente territoriale con competenze potenzialmente rappresentative della generalità degli interessi sociali, economici e culturali delle comunità amministrate, cioè legati alla pluralità degli interessi propri della collettività rappresentata.

Ora, mentre per gli enti locali territoriali di governo è un dato definitivamente acquisito come la loro autonomia vada in primo luogo intesa quale potere di indirizzo politico-amministrativo, per quelli non territoriali, quali sono le 3 Città metropolitane ed i 6 liberi Consorzi comunali, sono previste modalità di attuazione delle scelte di indirizzo politico di ciascun Comune tramite la mediazione della specifica formula consortile. Ciò, perché l’ente pubblico consortile risulta pur sempre una proiezione degli enti stessi. L’esponenzialità è, in questo schema, garantita dai rappresentanti dei componenti dei Comuni riuniti in consorzio, con maggiore coerenza alla realtà locale di quanto possa avvenire nei consorzi di scopo o meramente gestionali.

La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 164/1990, ha affermato che i soggetti istituzionali rientranti nel novero degli enti locali dovessero essere individuati “sulla base di più complesse coordinate istituzionali, quali la territorialità e la rappresentatività diretta o indiretta degli interessi comunitari”, e, nella successiva sentenza n. 286/1997, ha rilevato come “non vi è un principio costituzionale per cui i servizi pubblici debbono essere erogati solo da soggetti che siano rappresentanti diretti della collettività servita”.

In sostanza, la “sovranità” che nell’ente territoriale di governo appartiene alla comunità (rectius, popolo), nell’ente consortile appartiene ai Comuni. In tale contesto, mentre l’elezione di 2° grado consumatasi per l’elezione degli organi di governo rappresenta coerentemente il corollario ordinamentale di un modello che trova il suo ancoraggio nella previsione statutaria, i diritti di elettorato attivo e passivo traslano dai cittadini agli amministratori dei Comuni consorziati.

In questa direzione si colloca coerentemente anche la gratuità nell’esercizio delle funzioni (voluta dalla legge Delrio n. 56/2014 che ha fatto coincidere i Sindaci metropolitani con i Sindaci del Comune capoluogo, già percettori di un emolumento come tali) che costituisce, infatti, un profilo conseguenziale del principio di elezione indiretta degli organi di vertice dei ridisegnati enti territoriali.

3. La [s]copertura costituzionale dell’ente di area vasta

A questo punto bisogna anche capire se gli enti di area vasta siciliani (nelle due versioni di Città metropolitane e liberi Consorzi comunali) godono di quell’autonomia costituzionale  riservata agli enti territoriali di governo in forza del combinato disposto di cui agli art. 5 e 114 della Costituzione alla luce di quanto affermato dalla giustizia amministrativa secondo cui “Il Consorzio d’ambito (quantunque composto dai Comuni rientranti nell’A.T.O.) non può essere annoverato tra gli enti dotati di autonomia costituzionalmente protetta[9]. Peraltro, la Corte costituzionale[10] ha già avuto occasione di affermare per le consorelle Unioni di Comuni che siffatti enti associativi non costituiscono “un ente territoriale ulteriore e diverso rispetto all’ente Comune”. 

Tutto ruota, quindi, attorno alla qualificazione di “ente territoriale di governo”. Infatti il  Consorzio di comuni ha tradizionalmente (art. 31 del TUEL), ma anche secondo le specifiche previsioni di cui all’art. 20 della l.r. 18 marzo 1955 n. 17 ed all’art. 13 del d.l. del Presidente della regione n. 6 del 29/10/1955, “…natura di ente pubblico non territoriale, dotato di autonomia amministrativa e finanziaria” ed avente natura associativa e strumentale rispetto agli enti che vi partecipano. Orbene, l’assenza dello status di ente territoriale di governo oltre a privare l’ente di area vasta in Sicilia della copertura costituzionale comporta una serie di problemi i cui effetti indesiderati si potrebbero presto presentare alle rispettive comunità amministrate.

Alcuni di questi effetti (rispetto dei vincoli di finanza pubblica e del patto di stabilità, esercizio di funzioni impositive, assoggettamento passivo all’IRES) sono stati già evidenziati[11] altri ancora proviamo qui ad argomentarli.

4. La legittimazione ad agire in giudizio per la difesa degli interessi generali

Oltre ai singoli interessi legittimi di cui è portatore ogni cittadino, il nostro ordinamento riconosce gli interessi diffusi o collettivi, cioè quella tipologia di interessi di cui sono portatori contestualmente tutti i cittadini stanziati in una comunità. Trattasi, sostanzialmente, del riconoscimento di nuove posizioni giuridiche differenziate rispetto a quelle del singolo, che derivano dai mutamenti sia della società che della Pubblica Amministrazione e, soprattutto, dalla conquista di nuove frontiere del diritto. Il Giudice Amministrativo ha nel tempo riconosciuto all’ente locale territoriale, ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della propria comunità nelle materie di competenza istituzionale, una più ampia legittimazione per “altre materie non direttamente conferitegli dalla legge[12]. In tal senso è stato riconosciuto all’ente pubblico territoriale, in quanto già individuato ex lege quale ente esponenziale degli interessi dei propri amministrati, la potestà di impugnare, ad esempio, il provvedimento avente ad oggetto gli aumenti dei pedaggi autostradali[13], la riorganizzazione delle rete scolastica[14], il riordino della rete ospedaliera[15] o, ancora, la localizzazione di discariche[16], “giacché i diritti dei cittadini in tema di tutela di interessi diffusi, possono trovare modi di esercizio paralleli e ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura a un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc”.

La diversa natura giuridica dell’ente di area vasta, evidentemente, rileva anche sul piano della suddetta legittimazione ad agire in nome e per conto della comunità provinciale amministrata. Applicando un siffatto paradigma in diversa direzione e con riferimento agli enti di area vasta siciliani, ai quali lo Statuto siciliano nega la rappresentatività degli interessi collettivi degli aderenti e degli interessi diffusi della comunità amministrata, si può comprendere come si sia determinato, più o meno consapevolmente, la riduzione della capacità di agire in sede giudiziaria di questi nuovi soggetti istituzionali a tutela di una molteplicità di interessi in attuazione dell’art. 45 Cost., afferenti all’economia, al mercato, alle regole della concorrenza e per l’efficienza della P.A..

Corollario di questo ragionamento è che, mentre alla Provincia della Costituzione, quale ente esponenziale della comunità provinciale, spetta la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli interessi collettivi (purché si tratti di interessi differenziati e qualificati che ruotino attorno all’incidenza sul territorio provinciale dei provvedimenti amministrativi adottati da altri enti pubblici e potenzialmente lesivi), la medesima legittimazione non può essere riconosciuta ad un ente consortile o associativo qual è il libero Consorzio di comuni, trattandosi di une ente privo della funzione esponenziale degli interessi della collettività stanziata.

5. Le attività di promozione dello sviluppo della comunità

Lo status di ente territoriale a fini generali consente all’ente territoriale di governo di esercitare funzioni amministrative e di erogare servizi d’interesse generale non solo in forza di una specifica previsione di legge, ma anche in conformità di quanto auto normato attraverso il proprio statuto. Ciò può avvenire in considerazione del ruolo che la riforma del titolo V° Cost. ha assegnato agli statuti degli enti locali. Gli statuti, dopo tale riforma, costituiscono una peculiare fonte di livello sub-primario, poiché, contrariamente ai vecchi regolamenti comunali e provinciali, previsti dalla legge ordinaria, sono espressamente contemplati dalla Costituzione.

In tale contesto la Provincia può mettere a disposizione di tale mission istituzionale anche il proprio patrimonio (art. 119 Cost., comma 7). Fermo restando le esigenze di redditività di detto patrimonio ed il rispetto del regime giuridico connesso alla natura dei beni (diverso se appartenenti al demanio, al patrimonio disponibile o indisponibile), la provincia, quale ente locale a fini generali può certamente disporre dello stesso in funzione dell’individuato interesse pubblico più idoneo da curare. Tanti e cristallizzati sono, ad esempio, i rapporti tra provincia e associazionismo locale nell’ottica di un sano e trasparente principio di sussidiarietà orizzontale. Così come diffusi sono i casi di messa a disposizione della comunità amministrata del patrimonio provinciale in regime di comodato d’uso gratuito o attraverso un canone di locazione ridotto. E’ infatti possibile valutare l’opportunità/necessità di optare per un canone di locazione ridotto rispetto al valore di mercato (ex art. 32, comma 8, l. n. 724/94) atteso che la provincia non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato economico in senso stretto nell’utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata.

Appare utile in questa fase evidenziare quanto affermato dalla Corte dei Conti secondo cui “il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni[17]. In questo caso la mancata redditività piena del bene è comunque manifestamente compensata dall’avvenuta valorizzazione di un altro bene (lo sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio amministrato) ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento negli artt. 3, 33 e 34 della Costituzione nonché, come spessa accade, in specifiche disposizioni statutarie. Ciò posto, come precisato altresì da altra sezione dalla Corte dei Conti, “se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo[18].

Diffusi sono altresì i casi in cui la Provincia partecipa, con proprie quote associative, per la promozione di un determinato bene o servizio a favore della comunità amministrata. Società, consorzi e fondazioni, sono strumenti associativi di cui tutte e nove le province regionali hanno fatto uso per promuovere aeroporti, consorzi universitari, licei linguistici e musicali, distretti turistici, culturali, della pesca ecc… Tutte attività non espressamente previste da norme positive, ed in alcuni casi non sempre coerenti con le finalità istituzionali delle province regionali, ma promosse in forza di specifiche previsioni statutarie.

Orbene, nell’azione di governo provinciale tale discrezionalità può essere riconosciuta solo ad un ente territoriale di governo e non anche ad un ente strumentale dei comuni qual è l’attuale libero Consorzio di comuni.

6. La funzione impositiva

Il precetto contenuto nell’art. 23 della Costituzione comporta che le prestazioni patrimoniali imposte dagli enti pubblici debbano essere previamente contemplate in una fonte legislativa di rango primario, essendo necessaria una disposizione tenuto nell’art. 23 della Costituzione comporta che le prestazioni patrimoniali imposte dagli enti pubblici debbano essere previamente contemplate in una fonte legislativa di rango primario, essendo necessaria una disposizione primaria che legittimi l’imposizione di prestazioni patrimoniali ai soggetti obbligati.

Le scelte in materia di determinazione delle aliquote di tributi locali (così come, più in generale, tutte quelle relative alla fiscalità locale) rappresentano – in uno con il governo della spesa pubblica – lo strumento essenziale mediante cui ciascun ente locale può assolvere ai propri compiti di “rappresenta(re) la propria comunità”, “cura(rne)” e “promuove(rne) lo sviluppo” ex art. 3, terzo comma, del d.lgs. n. 267/2000.

Il comma 6 dell’art. 1 della l.r. n. 8/2014 stabilisce che i liberi Consorzi comunali continuano ad esercitare le funzioni già attribuite alle Province regionali mantenendo la titolarità dei relativi rapporti giuridici. Il comma 7 stabilisce che i Consorzi continuano ad utilizzare le risorse finanziarie, materiali e umane già di spettanza delle corrispondenti province regionali.

Tali previsioni non possono riguardare anche l’esercizio delle funzioni amministrative di tipo impositivo perché contrasterebbero con l’art. 117, comma 2°, lett. e, Cost. in base al quale non è consentito alle Regioni derogare alla disciplina dei tributi dello Stato. Infatti, come ha affermato la Corte costituzionale, in attesa dell'attuazione da parte del legislatore statale del nuovo disegno costituzionale di cui all’art. 119 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, l'attuale sistema rimane caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in parte “derivata”, cioè dipendente dal bilancio statale, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi, con limitate possibilità riconosciute a Regioni ed enti locali di effettuare autonome scelte. Pertanto i tributi di cui la legge dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legge riconosce spazi limitati di autonomia agli enti in ordine alla loro disciplina, in quanto istituiti dalla legge statale, trovano in essa stessa la disciplina propria, salvo che per i soli aspetti espressamente rimessi all'autonomia degli enti territoriali. Da ciò consegue che, salvi gli ambiti di disciplina espressamente riconosciuti dalla legge statale alla competenza regionale, si deve tuttora ritenere preclusa alle Regioni la potestà di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati da leggi statali[19].

Il nuovo quadro normativo regionale così configurato, infatti, non tiene conto che le funzioni amministrative di tipo impositivo non possono essere esercitate da un ente sprovvisto dello status di ente territoriale di governo. Il soggetto attivo del rapporto tributario (sia in relazione all’an che in relazione al quantum) non può che essere un ente pubblico dotato dello specifico imperium (potestà impositiva); potere che deve essere necessariamente esercitato dagli organi elettivi, secondo le procedure democratiche e non mediante delega a soggetti consortili, o associativi, quali sono i consorzi di che trattasi, politicamente irresponsabili perché sprovvisti di autonomia politica.

Peraltro, l’art. 119 della Costituzione attribuisce alle sole Province la facoltà di stabilire ed applicare tributi. Tale articolo stabilisce chiaramente che le “Province…hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa…Le Province hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio”. La legge delega in materia di federalismo fiscale n. 42 del 05/05/2009 costituisce l’attuazione del citato art. 119 Cost., assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni, garantendo i principi di solidarietà e di coesione sociale in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e di garantire la loro massima responsabilizzazione nonché l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti.

L’art. 11 di tale legge, rubricato “Principi e criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane” prevede il finanziamento delle funzioni fondamentali anche delle province. Su questa architettura istituzionale, la cui applicabilità nelle regioni a Statuto speciale è circoscritta agli articoli 15, 22 e 27[20], si dovrebbe quindi realizzare il principio costituzionale dell’autonomia finanziaria, contenuto nell’art. 119 della Costituzione, di ciascun soggetto territoriale del sistema, fondata su risorse proprie, compartecipazioni ed eventuali riequilibri perequativi. Sulle norme del federalismo fiscale trova consacrazione il nesso inscindibile tra assetto delle competenze amministrative e assetto delle risorse finanziarie, nella prospettiva di una piena valorizzazione dell’autonomia finanziaria delle province regionali. In tale contesto, fermo restando le prerogative riconosciute nello Statuto agli articoli 36 e 38, “anche per le Regioni speciali appare ineludibile l’applicazione del criterio dei costi standard, superando la logica dei trasferimenti legati ai costi storici o a <<contrattazioni>> nell’ambito della definizione delle norme d’attuazione o delle leggi finanziarie annuali, in modo che – pur salvaguardando le maggiori sfere di autonomia e di funzioni riconosciute – non ci si discosti da un’impostazione di sistema che deve sostanzialmente fondarsi su principi comuni e sulla ratio delle pari opportunità, di cui l’art. 119 è inequivocabilmente espressione, anche a tutela della coesione nazionale[21].

7. Considerazioni finali

La riforma dell’ente intermedio siciliano, nel tentativo di adeguarsi ai principi di grande riforma contenuti nella legge statale Delrio n. 56/2014 in coerenza con lo spirito dell’art. 15 dello statuto, ha finito per declassare un ente che era riuscito a camuffare con la l.r. n. 9/86 denominandolo “Provincia regionale”. Oggi il legislatore siciliano sembra perdere, più o meno consapevolmente, lo status di ente locale. Ma a pensarci bene ed alla luce di quanto sopra argomentato, le ricadute di tale declassamento si avranno nelle comunità amministrate, che perderanno un autorevole alleato istituzionale.

Nè, infine, può essere dirimente l’esigenza di uniformare il modello di ente intermedio a quello presente nel resto d’Italia, poiché l’art. 15 dello statuto siciliano rimane insuperabile in assenza di una mirata modifica di rango costituzionale, al pari di quanto si sta facendo per la consorella Regione a statuto speciale Friuli Venezia-Giulia.

 

[1]   C.G.A., sent. n. 48/2009.

[2]  Secondo una prospettiva più ampia, generale è la competenza non circoscritta perché volta ad assolvere tutti i compiti necessari per il soddisfacimento degli interessi di comunità: Pier luigi Portaluri, “Appunti su alcune premesse costituzionali dell’esperienza di normazione federalista”, Giustizia-amministrativa.it, 16/03/2011.

[3]  Sulla natura giuridica di ente territoriale si è espressa positivamente la Corte dei Conti a Sezioni riunite, 22/12/1997, n. 82, riconoscendo tale status alle Province.

[4]  Gian Candido De Martin, Atti del seminario su “La legge 265/99 di riforma delle Autonomie locali: l’adeguamento degli statuti delle Province”, Villa Umbra, 05/11/1999, Pila (Perugia)

[5]  Sent. n. 38/1957

[6]  Sent. n. 1276/2012

[7]  Tar Veneto, sent. n. 864/2018

[8]  Cons. St. sent. n. 236/2019

[9]   Tar Palermo, sez. I, 04/07/2008, n. 881

[10]  Sent. n. 50/2015.

[11]  Riflessioni pubblicate su “LeggiOggi”, quotidiano d’informazione giuridica pubblicato sul web all’indirizzo http://www.leggioggi.it/cerca-su-leggioggi/?q=massimo+greco.

[12]    Consiglio di Stato, Sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8683.

[13]    Cons. St., sent. n. 7925/2023

[14]    Tar Calabria, sez. II, sent. n. 1066/2025

[15]    Tar Palermo, sent. n. 2528/2020

[16]    Cons. St., sent. n. 5095/2025

[17]  Corte Conti Sez. Reg.le di Contr. per il Veneto, parere n. 716 del 02/10/2012

[18]  Corte Conti, Sez. Lombardia n. 262 del 31/05/2012

[19] ex multis, v. Corte Cost., sentenze n. 357/2010, n. 37/2004, n. 297, n. 296/2003.

[20]    Si veda Corte Cost. n. 201/2010.

[21] Gian Candido De Martin, “I nodi per attuare (correttamente) una riforma di sistema incompiuta”, Amministrazione in Cammino, 10/10/2008.