Punire l’astensionismo: perché no?
Nell’avvicinarsi delle elezioni politiche di settembre, mi permetto di lanciare una proposta (o se preferite una provocazione) ai governanti italiani di oggi e a quelli che saranno eletti prossimamente. La proposta è quella di (tornare a) sanzionare, nei modi che saranno ritenuti più appropriati, l’astensionismo elettorale e gli astensionisti.
La premessa è molto semplice e deriva dalla constatazione che la percentuale di italiani che disertano le urne in occasione delle consultazioni elettorali è in continua crescita, secondo un trend che pare inarrestabile.
Tale fenomeno pare favorito dal fatto che in Italia, contrariamente a quanto avviene in numerosi altri Paesi democratici, questo comportamento, malgrado un chiaro dettato costituzionale, non riceve alcun tipo di sanzione o di pubblica riprovazione.
Ma è sempre stato così?
Proviamo di seguito a rispondere con una breve analisi storico/giuridica.
I Padri costituenti, nel disciplinare il voto in quanto basilare strumento di democrazia, dibatterono tra una tesi più rigorista che voleva stabilire espressamente l’obbligo giuridico del voto, il che avrebbe autorizzato chiaramente delle sanzioni al non votante, ed una tesi più morbida, che invece ne voleva fare un semplice impegno morale. Ne sortì una formulazione intermedia, che definiva il voto come “dovere civico”.
Questo è infatti il testo vigente dei primi due commi dell’ articolo 48 della Costituzione:
Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
Dunque, quello che è prima di tutto un diritto dei cittadini, faticosamente conquistato a caro prezzo, è anche un dovere.
Ma come si è tradotta nel concreto questa affermazione di principio ?
In realtà il Legislatore del dopoguerra ha sì adottato delle norme al riguardo, ma rimanendo sul piano di quello che, con termine oggi in voga, si potrebbe definire lo “stigma sociale” dei renitenti al voto, senza arrivare a vere e proprie sanzioni. Tuttavia anche questa tutto sommato blanda riprovazione è venuta meno nel 1993, per cui oggi in Italia recarsi o meno alle urne non comporta di fatto alcuna conseguenza pratica.
Ma andiamo per ordine.
Nel 1957 il Legislatore si occupò della materia elettorale attraverso il Decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati (pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 139 del 3 giugno 1957). Ivi all’articolo 4 (tuttora in vigore) si riaffermava il principio costituzionale, nei termini seguenti:
Il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica.
Le conseguenze di tale postulato venivano contemplate nel successivo articolo 115, che richiedeva di giustificarsi di fronte al Sindaco per il fatto di non adempiere il proprio dovere civico di elettore, pena una sorta di pubblica gogna. Questa norma, come detto, è stata abrogata ormai da quasi una trentina d’anni, in forza del Decreto Legislativo 20 dicembre 1993, n. 534. La riportiamo per esteso, per quello che può essere oggi il suo interesse storico.
L’elettore, che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco del comune nelle cui liste elettorali è iscritto, entro quindici giorni dalla scadenza del termine previsto dal terz’ultimo comma dell’art. 75 per il deposito dell’estratto delle liste elettorali delle sezioni.
Il sindaco, valutati i motivi che abbiano impedito l’esercizio del voto, procede alla compilazione dell’elenco degli astenuti, agli effetti del primo comma dell’art. 4, escludendone in ogni caso:
1) i ministri di qualsiasi culto:
2) i candidati in una circoscrizione diversa da quella nella quale sono iscritti come elettori;
3) coloro che dimostrino di essersi trovati, per tutta la durata delle operazioni di votazione, in una località distante più di trenta chilometri dal luogo di votazione, in conseguenza: a) del trasferimento della residenza dopo la compilazione o la revisione delle liste elettorali del comune in cui sono iscritti; b) di obblighi di servizio civile o militare; c) di necessità inerenti alla propria professione, arte o mestiere; d) di altri gravi motivi;
4) coloro che siano stati impediti dall’esercitare il diritto di voto da malattia o da altra causa di forza maggiore.
L’elenco di coloro che si astengono dal voto nelle elezioni per la camera dei deputati, senza giustificato motivo, è esposto per la durata di un mese nell’albo comunale.
Il sindaco notifica per iscritto agli elettori che si sono astenuti dal voto l’avvenuta inclusione nell’elenco di cui al comma precedente entro dieci giorni dalla affissione di esso nell’albo comunale. Contro l’inclusione nell’elenco degli astenuti gli interessati possono ricorrere, entro quindici giorni dalla scadenza del termine di pubblicazione, al prefetto che decide con proprio decreto.
Il provvedimento del prefetto ha carattere definitivo.
Per il periodo di cinque anni la menzione “non ha votato” è iscritta nei certificati di buona condotta che vengano rilasciati a chi si è astenuto dal voto senza giustificato motivo.
Dunque, le generazioni di italiani under 30 (ma il discorso può bene estendersi anche a quelle via via meno giovani), sono nate e cresciute in un contesto di indifferenza rispetto all’obbligo di andare a votare, dove quello che è scritto nella Costituzione è rimasto sullo sfondo, ignorato da molti e privo d’incidenza pratica. Quindi non è il caso di colpevolizzare oltre misura i più giovani per la loro diffusa latitanza dal seggio elettorale.
La proposta che lancio a coloro cui spetta di decidere in materia è allora quella di ripristinare, in considerazione della funzione “pedagogica” della legge, forme di pubblica riprovazione per la diserzione delle urne, fino alla sanzione amministrativa o penale, che la Costituzione non impone in materia ma nemmeno vieta.
Penso a quello che la vecchia normativa definiva come certificazione di “buona condotta”, come potrebbe essere ad esempio il requisito della “condotta specchiatissima ed illibata” che la vecchia legge professionale (ma anche la nuova, con linguaggio più moderno) imponeva per poter accedere alla professione di avvocato; o a requisiti analoghi previsti per l’esercizio di altre professioni regolamentate. Non potrebbe, in concreto, beneficiare dell’attestazione di buona condotta colui che, privo di valida giustificazione, si astenesse sistematicamente dal voto, qualora ciò risultasse dalla tessera elettorale.
Oppure penso a limitazioni nell’accesso a concorsi pubblici o nell’ottenimento di pubblici benefici. L’elenco di esempi potrebbe essere lungo ed eccederebbe i limiti di questo articolo.
Qualcuno potrebbe a questo punto obiettare che queste e analoghe disposizioni, da me auspicate, potrebbero conculcare la libertà di coloro i quali, non sentendosi rappresentati da alcuna delle forze politiche in campo, o volendo esprimere il proprio malcontento in generale verso la politica, non ritenessero di dare il loro voto a chicchessia.
L’obiezione è molto facilmente superabile osservando che a questi cittadini è data pur sempre liberamente la facoltà di deporre nell’urna la scheda bianca oppure di annullare la scheda. Ciò che si vorrebbe sanzionare non è certo questo genere di libere scelte, quanto piuttosto il (crescente) menefreghismo rispetto ai doveri sociali, tra i quali quello di andare a votare non è certo il meno importante.
Saranno prese in considerazione queste proposte, finalizzate ad un ritorno alla situazione ante-1993, con un po’ di severità in più? In verità, non sono molto ottimista. Per quanto (credo) motivate, tali proposte oggi forse suonerebbero “passatiste”, ma soprattutto impopolari e la politica teme moltissimo l’impopolarità.
Ma non è detta l’ultima parola. E, ad ogni modo, è una provocazione che ritengo meriti di essere lanciata.