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La Costituzione ha rinunciato a Dio

Parte II
Costituzione
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Il 4 gennaio 1948, sul rotocalco “Oggi”, Ugo Zatterin racconta con ironia e disincanto gli ultimi due giorni dei lavori che portano all’approvazione della Costituzione. Riporto qui fedelmente la seconda parte di quell’articolo, dai toni così lontani da quelli sacrali, ai quali siamo ormai abituati quando si tratta della nostra Carta fondamentale.

In questo e nel precedente mio contributo su Filodiritto, ho scelto di uscire dal mio àmbito di gius-privatista, e dall’àmbito della rubrica che curo, riproducendo un testo che non è di diritto di famiglia, né di diritto ereditario, e che, dopo tutto, non è nemmeno giuridico, quanto, piuttosto, di costume, poiché, ne sono certo, esso apparirà oltremodo interessante e sorprendente al lettore dei nostri giorni. Sul numero della rivista “Oggi” del 4 gennaio 1948, Ugo Zatterin firmò l’articolo che ho pensato di riportare qui, per intero e fedelmente, solamente dividendolo in due parti, per maggior snellezza di lettura. L’articolo è una cronaca, spesso graffiante e dissacrante, degli ultimi due giorni che portarono all’approvazione della Costituzione repubblicana. e del quale qui propongo al lettore la seconda parte.

 

Indice:

1. Nota bene

2. “ LA COSTITUZIONE HA RINUNCIATO A DIO. Tra i “poropopò” dei garibaldini, gli abiti neri dei comunisti, i suoni di campana e gli errori di stampa è nata la carta fondamentale della nuova repubblica italiana” - Parte seconda

 

1. Nota bene

Per l’introduzione all’articolo di Ugo Zatterin di cui ora riproduco la seconda parta, e per la spiegazione della scelta che mi porta fuori dai miei àmbiti abituali, invito il lettore a leggere la breve introduzione, che ho premesso alla prima parte della cronaca zatteriniana, riportata nella mia precedente uscita su Filodiritto.

 

2. “LA COSTITUZIONE HA RINUNCIATO A DIO. Tra i “poropopò” dei garibaldini, gli abiti neri dei comunisti, i suoni di campana e gli errori di stampa è nata la carta fondamentale della nuova repubblica italiana” - Parte seconda

[…] “L’indomani comunque si sarebbe dovuto procedere alla solenne votazione, e pochissime ore restavano ai soloni dei diversi gruppi politici per risolvere le divergenze che inevitabilmente avrebbe suscitato il testo coordinato.  I comunisti che, come dicemmo, avevano avuto visione previa del nuovo testo per l’indiscrezione dei loro rappresentanti, avvertirono in tempo l’on. Ruini delle loro difficoltà. Ma i democristiani, che ricevettero il testo modificato soltanto qualche minuto prima che i capi gruppo si riunissero presso l’on. Terracini per risolvere le estreme controversie e spianare la strada all’ultima votazione, non furono d’accordo col “Licurgo” che assicurava: “Va tutto bene, va tutto benone”. Ruini si indignò per gli interventi negativi dell’on. Gronchi. “E’ troppo tardi”, gridò. “Potevate pensarci prima, come hanno fatto i comunisti”; e fece capire che riteneva ogni ulteriore modificazione del testo un’offesa personale rivolta alla sua canizie, e ad un certo punto minacciò perfino di non intervenire alla seduta solenne dell’indomani.

“La costituzione è il Corano e Ruini è il suo profeta”, comincio a diffondere l’on. Crescenzio Mazza. Ma, scarsamente preoccupato di recare offesa al profeta, ogni gruppo politico avanzò le sue osservazioni e le sue proteste.

Nei casi ancora controversi, come era stato concordato, la soluzione poteva essere una sola, cioè il ritorno al testo approvato dall’assemblea, e così infatti la maggioranza dei dubbi fu sanata. A proposito dell’articolo 3, che aveva offeso Togliatti, Ruini si scusò che si trattava di un errore di stampa. Togliatti prese buona la dichiarazione, ma soltanto “pro bono pacis”. Già altra volta l’on. Ruini, a proposito di un’altra affermazione progressiva che l’assemblea aveva approvata ma che il “Licurgo” non riteneva di proprio gradimento, la combinazione volle che tutte le copie stampate successivamente e in diverse occasioni dalla tipografia della camera, fossero prive di quell’affermazione. “E’ un deprecabile errore di stampa”, si scusava ogni volta Ruini; ed era ingenuo d’altra parte pensare che bastasse un’omissione del proto per mutare i destini della nuova costituzione.

 

Il dramma di due virgole

Davanti all’assemblea, riunita il 22 mattina, l’on. Ruini spiegò le controversie apparse insanabili, perché venissero risolte con la votazione. Una di queste consisteva nell’esistenza di due virgole che, secondo il comunista on. La Rocca, modificavano profondamente la sostanza del testo. Ci vollero ancora tre buone ore perché tutto fosse finito. I deputati, che il giorno avanti non avevano potuto santificare la domenica, a stento riuscirono a salvare il pranzo del lunedì.

All’ultimo istante l’on. La Pira, col suo parlare lento e ricco di bibliche citazioni, cercò di conquistare sul finire ciò che gli era stato negato al principio: cioè che la nuova costituzione italiana cominciasse, come la vecchia, con l’invocazione a Dio. Coloro che non credevano in Dio si opposero con decisione, mentre i legulei chiarirono subito che era chiuso ormai il tempo utile per proporre emendamenti, e non si poteva fare un’eccezione neppure per il Padre Eterno.

Nella confusione che seguì ottenne la parola l’on. Nitti, il quale, anche quando non porta lumi definitivi alle controversie, ha pur sempre la funzione del barile d’olio nel mare in tempesta: e ciò non è poco nel parlamento del nostro paese. Con un colpo al cerchio e l’altro alla botte, il vecchio parlamentare giustificò appieno la richiesta dell’on. La Pira, ma lo pregò al contempo di rinunciare alla sua proposta.

La Pira, ad evitare nuovi inconvenienti, accetto di rinunciare. Questo dette modo all’ateo on. Tonello di ripetere poi in giro, con intenti spiritosi: “La Pira è dei nostri. Anche lui ha finalmente rinunciato a Dio”.

Poche ore dopo la costituzione passò da Montecitorio al paese. La cerimonia di chiusura sprizzava l’aria felice delle feste paesane. I deputati di sinistra in grande maggioranza avevano deciso di indulgere, in onore della repubblica, all’abitudine tutta borghese di indossare l’abito scuro. Quasi tutte le deputate comuniste vestivano infatti di nero, l’on. Rita Montagnana aveva ricoperto con cappotto di quel colore il consueto abito color verde bandiera, e la fusionista on. Angelina Merlin si distingueva tra tutte per la sua fine toeletta da cerimonia. Anche l’on. Togliatti aveva sfoderato il doppio petto blu delle grandi occasioni oratorie e perfino l’on. Di Vittorio portava un abito approssimativamente nero. Sui banchi di destra, per contro, le giacche sportive e i toni chiari testimoniavano in anticipo quei 62 voti contrarii che la costituzione raccolse a scrutinio segreto per appello nominale.

 

Gli ultimi garibaldini

Prima che la cerimonia avesse inizio, un fitto plotone di garibaldini in divisa rossa apparvero nella tribuna riservata ai ministeri. Tra essi, ci informano, erano alcuni dei veri “ultimi garibaldini” e tutti, per un antico privilegio e per evitare alle loro vecchiezze dei perniciosi raffreddori, mantennero il chepì sul capo durante la solenne seduta.

Quando poi l’on. Ruini consegnò al presidente Terracini il testo definitivo della carta costituzionale, tra gli applausi scroscianti dei deputati qualcuno cominciò a rendersi conto che i garibaldini con prassi assolutamente extraregolamentare avevano intonato una canzone. “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta…”, inneggiavano le loro gole indurite ma sempre energiche. Qualche deputato cercò di associarsi ai garibaldini, ma constatò che l’impresa era troppo ardua. Un dubbio tremendo percorse l’assemblea, quando, giunti alla fine del ritornello, dove solitamente si inserisce l’ “a solo” bandistico, i cantori restavano privi di parole. Ma dopo un solo attimo di esitazione, i baldi reduci da Calatafimi osarono, e colmarono la lacuna strumentale con un ben modulato “poropopò, poropopò, poropopò, po, po, po, po…”. Nuovi applausi coprirono la passione di quei vecchietti di buona volontà e li accompagnarono fin quando non ebbero giurato quasi in coro: “…siam pronti alla morte, Italia chiamò, Sì!”.

La votazione si svolse con una certa sollecitudine: 57 minuti in tutto, con una media di 10 deputati al minuto. Votarono tutti i membri del governo e, prima e unica volta, anche il presidente Terracini.

Alle 18,30 furono proclamati i risultati della votazione. La costituzione era stata approvata e il campanone di Montecitorio levò al vento i suoi rotondi rintocchi.

Subito un individuo che si mescolava alla folla sulla piazza antistante il palazzo, salì sui gradini dell’ingresso e cominciò ad arringare i presenti. Nel rintronare della campana, non si capì bene se approvasse o disapprovasse quanto era avvenuto, ma i carabinieri di servizio, ad ogni buon conto, lo arrestarono.

Chi disapprovava ostentatamente era il vecchio on. Fabbri, deputato monarchico. Mentre tutti gli onorevoli colleghi in piedi applaudivano, egli rimase seduto, guardando distrattamente l’orologio. “La monarchia si difende anche col fondo dei pantaloni”, commentò sprezzantemente l’on. Preti. L’on. Benedettini, invece, aveva preferito non essere presente. Nell’allontanarsi disse ad un commesso: “Questo campanone suona a lutto”.

Sul bronzo del campanone sta inciso: “Diligite justitiam, qui judicatis terram”, cioè: “Amate la giustizia, voi che giudicate le cose terrene”.

Ugo Zatterin”.

Letture consigliate:

G. Silvestri, La nascita della Costituzione italiana ed i suoi valori fondamentali, in Riv. trim. dir. pubb., 2006, p. 585 ss.;

P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari-Roma, 2017;

La storia della nostra Costituzione, Senato della Repubblica, 2018;

I. Ciolli, Storia degli anniversari dello Statuto e della Costituzione (storia dei riti), in Nomos, 2020, fasc. 1;

M. Massa, Prospettiva storica e concezioni della costituzione, in Quaderni costituzionali, 2020, p. 275 ss.