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La direttiva dell’organo politico

Organo Politico
Organo Politico

Indice:

1. Introduzione

2. Definizione

3. Organi

4. Finalità

5. Conclusioni

 

1. Introduzione

L’elemento qualificante dell’attività politica è quello di poter determinare i fini dell’azione amministrativa, individuando, attraverso una serie tipologica di atti di diversa natura, gli scopi da perseguire per il miglior raggiungimento dell’interesso pubblico e la cura dell’interesse dei cittadini. Particolarmente significativo è il riconoscimento del potere di emanare direttive generali per l’azione amministrativa e la gestione.

 

2. Definizione

La direttiva può essere definita come l’atto mediante il quale l’autorità superiore invita l’ente o l’organo dipendente a realizzare un determinato programma o ad adottare una determinata iniziativa (ad es., direttiva dello Stato alle regioni).

Come noto, si tratta di uno strumento di organizzazione correlato al potere di direzione e di indirizzo. Mentre l’atto di indirizzo ha un carattere più ampio – indicando di solito l’obiettivo da perseguire – la direttiva presenta connotati più specifici e puntuali, prevedendo, oltre l’obiettivo, gli strumenti necessari a perseguirlo.

Alla direttiva il soggetto destinatario deve uniformarsi, mantenendo una relativa autonomia, e potendo disattendere i contenuti della direttiva ove la stessa presenti caratteri di illegittimità, ovvero quando, applicata alla singola fattispecie concreta, pregiudichi il perseguimento dell’obiettivo e dei risultati prefigurati dall’Ente.

 

3. Organi

Pertanto, spetta esclusivamente all’organo politico la funzione di indirizzo politico-amministrativo, attraverso la determinazione

degli obiettivi e dei programmi da attuare, con ciò indicando i risultati ultimi dell’azione politica – che trovano oggettivamente nei progetti – e le finalità del programma di governo;

delle priorità, indicando così la graduazione che in un disegno complessivo deve essere attribuita ai diversi progetti;

dei piani e dei programmi, definendo conseguentemente, attraverso questi strumenti, gli ambiti complessivi e articolati di azione amministrativa;

delle risorse e la verifica dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione in relazione agli indirizzi impartiti.

In tale ultima ipotesi, il soggetto che disattende la direttiva deve darne adeguata motivazione.

La direttiva presenta, inoltre, aspetti di maggiore generalità rispetto all’ordine che, di norma, si concretizza in una disposizione concreta e puntuale che comporta l’obbligo per il destinatario di eseguirlo, anche nel caso in cui i contenuti dell’ordine siano palesemente illegittimi, con esclusione della sola ipotesi in cui l’atto sia vietato dalla legge penale.

Negli enti locali, il combinato disposto dagli articoli 108 e 109 del T.U.E.L. (Testo Unico Enti Locali, “Tuel”), nel definire i compiti del Direttore generale e dei dirigenti (responsabili, negli enti ove manchi la figura del dirigente), stabilisce che le “direttive” costituiscono l’atto attraverso il quale il Sindaco o i propri delegati (assessori) fanno due cose fondamentali:

  1. danno ulteriori indicazioni (tempi, modi, ecc.) al Direttore Generale ed ai dirigenti/responsabili per attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’Ente ovvero dal Consiglio (bilancio, programmazione opere pubbliche, ecc.);
  2. danno indicazioni al Direttore generale (negli enti dove è presente) per sovrintendere alla gestione dell’Ente perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza.

    La direttiva, quindi, si caratterizza come un atto ulteriore e successivo agli atti di pianificazione e programmazione generale annuali e pluriennali costituendo un atto di raccordo tra funzione politica ed attività gestionale specificativo e con valenza nel medio periodo.

 

4. Finalità

È l’atto attraverso il quale vive quotidianamente il rapporto tra politica e gestione, dopo che lo stesso rapporto è nato con il conferimento dell’incarico dirigenziale/responsabile e l’accordo sugli obiettivi.

Le problematiche che nascono sono intuitive.

Fino a che punto la direttiva può spingersi? Non certo fino al punto da eliminare l’autonomia gestionale del dirigente/responsabile. Come sottolinea la migliore dottrina “la direttiva in senso proprio è un provvedimento il quale consiste nell’indicazione pura e semplice dei fini da perseguire e, talvolta, nell’indicazione parziale dei mezzi per il loro perseguimento” (Merusi), altra dottrina ha affermato che “la direttiva si segnala come atto prescrittivo atipico, che però non esclude nei destinatari un ambito di autonoma valutazione” (Gardini).

Le direttive del Sindaco e/o degli assessori non possono eliminare la discrezionalità amministrativa del dirigente/responsabile arrivando a predeterminare il contenuto stesso dell’attività gestionale.

Le direttive possono essere di due tipi:

  1. provvedimenti integrativi dell’indirizzo politico-programmatico già espresso dagli altri organi di governo dell’Ente (Consiglio o Giunta);
  2. provvedimenti di impulso per la verifica preliminare delle condizioni tecniche, finanziarie e gestionali necessarie all’adozione del provvedimento finale.

Se da una parte si può registrare una invadenza della politica nella sfera gestionale cercando di entrare dalla finestra dopo essere usciti dalla porta, dall’altra si registra una deresponsabilizzazione cercata dalla dirigenza con la proposta di direttive gestionali ovvero che riproducono completamente il contenuto di atti gestionali.

Sul corretto utilizzo del potere di direttiva si gioca il nuovo rapporto tra politica e gestione; è proprio su questi atti atipici diversi da quelli tipizzati che si afferma una nuova cultura della politica e una nuova “managerialità” della burocrazia, ad ognuno i suoi compiti e le proprie responsabilità costruendo un quadro di relazioni destinato a riqualificare non solo il ruolo burocratico ma anche quello politico.

Un sistema in cui la netta demarcazione di competenze si accompagni a una loro stretta interrelazione, in quanto ai politici spetta il compito di interpretare correttamente le istanze della popolazione e conseguentemente di determinare gli indirizzi generali dell’Ente, “trasferendoli”, in un rapporto di indispensabile collaborazione, ai dirigenti/responsabili, che sono tenuti ad attuarli nell’autonomia, che trova il proprio fondamento nella professionalità e nella responsabilità di gestione, e il proprio limite nei poteri di controllo degli organi elettivi.

Nonostante appaia chiaro il principio di separazione tra attività di indirizzo, spettante all’organo politico, e gestione concreta, di spettanza della dirigenza, ancora troppo frastagliate si rivelano le linee di confine che separano effettivamente l’azione politica da quella gestionale. Così come, ancora oggi, l’analisi tecnico-giuridica ex articolo 51 della legge 142/90 (oggi, articoli 107 del Tuel 267/2000 e 3 del Decreto Legislativo 29/1993) e del Decreto Legislativo 165/2001 e s.m.i., non ha ancora definito in modo esaustivo il contenuto soprattutto dell’azione di indirizzo politico.

Le direttive di cui all’articolo 51 della legge 142/1990 sono svincolate da una programmazione generale, così come previsto dall’articolo 4 del Decreto Legislativo n. 165/2001, il quale fa espresso riferimento a direttive di carattere generale.

Un’interpretazione lessicale potrebbe lasciare aperta l’ipotesi che le direttive in oggetto possano anche essere di natura per così dire prescrittiva e mirate a indirizzare la gestione corrente, analogamente alle disposizioni impartite da un organo gerarchicamente superiore a quello inferiore.

Il Virga ha considerato il potere di coordinazione, per il quale l’organo superiore può prescrivere mediante istruzioni e circolari le direttive alle quali si deve informare la condotta dell’organo inferiore, un potere specifico della supremazia gerarchica.

L’attribuzione di un così forte potere di indirizzo come quello previsto dal Decreto Legislativo 165/2001 e Tuel 267/2000 apparentemente cozza con il principio della separazione delle funzioni tra politica e gestione, perché appunto in forza di questo principio manca ogni sovraordinazione gerarchica tra organi politici e gestionali. Del resto, l’assetto organizzativo delle interrelazioni tra organi politici e dirigenziali/responsabili, e tra questi nel loro complesso, non è basato sull’ordinamento gerarchico, perché proprio le funzioni dirigenziali di cui all’articolo 107 del Tuel n. 267/2000 esigono un’autonomia spiccatissima nel vertice amministrativo.

Per fare rientrare, allora, il potere di direttiva definito dal Decreto Legislativo 165/2001 e Tuel 267/2000 nel quadro sopra descritto di un’azione amministrativa condotta parallelamente da politici e burocrati, occorre che il regolamento per l’ordinamento degli uffici e dei servizi definisca con precisione gli ambiti entro i quali è consentito agli organi politici emanare direttive, la loro forma ed i presupposti di legittimità.

Quanto meno occorre prevedere come requisiti minimi della direttiva:

la forma scritta e motivata;

la competenza esclusiva dell’organo emanante;

la rispondenza al programma politico amministrativo;

la rispondenza alle priorità e agli obiettivi fissati col P.E.G.;

la legittimità;

il rispetto dell’autonomia operativa del dirigente cui è rivolta e delle sue sfere di competenza.

Non si deve, comunque, dimenticare che la direttiva resta un tipico “atto politico”.

Sicché si può, per altro verso, ritenere che mentre la forma scritta sia in ogni caso necessaria, elementi come la motivazione giuridica possono non rientrare tra i requisiti di una direttiva, in quanto gli atti politici per la loro stessa natura non necessitano di motivazione giuridica, essendo caratterizzati dalla discrezionalità. Le direttive, inoltre, proprio per questo motivo, non devono tradursi in un ordine puntuale e specifico, rivolto dall’organo politico al dirigente che deve adeguarsi alle prescrizioni indicate. Si tratta, invece, di un’indicazione di carattere strategico, che deve comunque lasciare ampia autonomia al dirigente di decidere le modalità e le procedure più opportune per darvi corso.

Questa caratteristica della direttiva è la conferma dell’assetto non gerarchico dei rapporti tra organi politici e organi gestionali. Se, infatti, la direttiva fosse un ordine imperativo, la legge avrebbe riconosciuto alla parte politica il potere di dare ordini precisi e puntuali, oltre alla possibilità di annullare o addirittura avocare a sé gli atti esecutivi delle direttive. La mancanza di siffatti poteri in capo agli organi politici rivela con chiarezza la separazione dei ruoli politico e gestionale.

Il potere di direttiva è, invece, l’espressione della sovraodinazione funzionale dell’organo politico e dell’assessore, che esercitando tale potere controllano che l’organo gestionale espleti la sua azione mirando a realizzare gli obiettivi definiti dalla parte politica. Pertanto, il controllo sull’attività dei dirigenti/responsabili non è riferito a singoli atti emanati, ma riguarda la totalità dell’azione complessivamente svolta e perciò è un’attività fatta a posteriori, perché solo a conclusione dell’attività gestionale si può valutarne l’esito. La direttiva, in qualche modo, è lo strumento mediante il quale l’organo politico si assicura che “strada facendo” il dirigente si attiene alle linee d’azione fissate dal programma.

Attraverso tale potere l’organo detta, nell’ambito della propria competenza, le linee guida di carattere applicativo per l’organizzazione della struttura, la disciplina dei mezzi e degli strumenti, le procedure organizzative, le modalità di trattazione delle pratiche e degli affari, le attività da svolgere.

I destinatari delle direttive sono tenuti ad adeguarsi nell’ambito della propria autonomia e responsabilità organizzativa.

La direttiva, inoltre, è da considerare un atto amministrativo vero e proprio: si è, pertanto, dell’opinione che degli atti amministrativi debba avere i requisiti formali e sostanziali per la sua esistenza ed efficacia. I regolamenti dovrebbero prevedere, date le non trascurabili conseguenze che il mancato rispetto delle direttive comporta in capo ai dirigenti/responsabili, che in mancanza di uno dei requisiti minimi previsti la direttiva non ha alcun valore precettivo e comunque stabilire le modalità con le quali eventualmente i dirigenti/responsabili interessati possono chiedere il riesame della direttiva e la sua determinazione in contraddittorio.

Considerare, viceversa, la direttiva come un semplice monito o indicazione verbale rivolto dall’organo politico a quello tecnico, significa introdurre inaccettabili elementi di incertezza nell’attività amministrativa dei comuni/province. Mancherebbe il riscontro oggettivo del quadro e perché la direttiva sia stata impartita e del perché, eventualmente non sia stata eseguita. Così non potrebbe essere tutelata né la posizione dell’organo emanante, né quella del dirigente/responsabile destinatario.

 

5. Conclusioni

Vi è un fine che va tenuto presente: il ruolo dell’amministrazione non può essere relegato né a quello di un apparato esclusivamente “servente”, né a quello di un organo totalmente “neutrale”. In entrambi i casi, infatti, verrebbe meno la distinzione funzionale prevista a livello costituzionale e realizzata a livello organizzativo e strutturale della PA.

Da quanto sopra rappresentato, sarebbe auspicabile offrire una risposta definitiva al problema della fragilità del principio di separazione tra organi di indirizzo, aventi il compito di definire gli obiettivi e i programmi da attuare e di verificare la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive/indirizzi impartite, e i dirigenti, a cui, invece, è affidata la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti, che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo (art. 3, commi 1 e 2).

Una distinzione, dunque, chiara ed in linea con il principio di “fiduciarietà” che caratterizza l’amministrazione in base alle funzioni svolte, laddove siano di supporto all’attività di indirizzo dell’organo politico, nonché un maggior rispetto da parte dell’organo di governo del principio di imparzialità dell’amministrazione, ad esempio attraverso l’emanazione di atti di indirizzo. Andrebbe infine maggiormente promossa, a partire dalla dimensione politica, una cultura del merito e del risultato che coinvolga anche un processo di riammodernamento della gestione delle risorse umane, organizzative e finanziarie dell’intera dimensione amministrativa.

La separazione delle funzioni, infatti, risponde alla duplice esigenza di assicurare, da un lato, l’autonomia del dirigente rispetto ai condizionamenti del ceto politico e, quindi, l’imparzialità dell’amministrazione e, dall’altro lato, la realizzazione del programma politico, ovvero degli obiettivi che l’amministrazione intende realizzare.

In questo modo si riuscirebbe a rafforzare un equilibrio dovuto alla convivenza di due istanze contrapposte: quella degli amministratori, che facendo leva sul principio di responsabilità politica ritengono l’amministrazione un loro strumento e quella dei burocrati, che rivendicano una maggiore autonomia gestionale all’interno della sfera amministrativa.