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La meraviglia dell’Avvento

Annunciazione, Beato Angelico
Annunciazione, Beato Angelico

Le pelli del racconto

Ricordate la prima volta che avete ascoltato una favola famosa? Probabilmente no, poiché i bambini tendono a dare importanza al presente invece che al passato: per questo non caricano di valore la memoria ma i momenti che conserva. Noi, tuttavia, siamo un po’ più grandicelli, per cui fingiamo di rammentare quel lontano istante in cui, con gli occhi grandi e lo spirito teso, attendevamo di scoprire se Cappuccetto Rosso sarebbe o meno scampata alla trappola ordita dal lupo.

Mi sembra plausibile supporre che le prime volte la nostra attenzione fosse totalmente focalizzata sui fatti narrati solo in seguito, e con qualche anno di più alle spalle, iniziammo probabilmente a notare delle incongruenze fra la realtà, per noi sempre più chiara, e quel racconto immaginoso. Col tempo, la nostra ragione certamente ebbe la meglio sulla solidità del racconto, facendolo franare sotto il suo stesso peso. In piedi su quelle macerie, ci accorgemmo che quel contenuto, profondo e prezioso, che la mamma ci sussurrava al termine della storia, era, con la sua lucentezza, la sola cosa di valore in quella rovina. Da quel momento in avanti, la bella favola dei Fratelli Grimm divenne simile ad un mito, ossia ad una storia che non è vera alla lettera, ma provoca in chi la conosce delle reazioni soggettive, solitamente positive[1].

Il processo mentale che abbiamo appena descritto è quello che, in modo naturale in un adulto sano, permette di passare dalla lettera di un racconto immaginario, o comunque non aderente al reale, al suo significato profondo, simbolico ed edificante. Questa abilità di “traduzione” del linguaggio mitico, la cui finezza passa attraverso la maturità e l’esercizio, ci consente non solo di comprendere l’immaginario nella sua natura di metalinguaggio, ma anche di servircene per comunicare concetti e verità altrimenti impermeabili ai cuori di chi già non li possieda.

Ma che succede se questo processo, così naturale e benefico, viene applicato alle realtà di fede? Che accade cioè se quegli avvenimenti meravigliosi che la Scrittura ci tramanda ed insegna vengono, nelle nostre menti, erosi come antichi picchi? Ciò che resta dopo il crollo sarà ancora abbastanza prezioso da vendere tutto per comprarlo[2]?

 

La dura vita del critico

La domanda non è affatto oziosa come potrebbe apparire ma, al contrario, costituisce uno degli scogli più insidiosi alla fede nei nostri tempi.

La maggior parte di noi entra in contatto con la Rivelazione in età infantile, quando la mente si accontenta dell’accettazione del fatto e non tenta alcun vaglio sul contenuto. Crescendo tuttavia, la società contemporanea ci dota di un senso critico che, basato su vaghe nozioni scientifiche, vuole essere tanto vasto nella portata quanto penetrante nelle conclusioni. Per questo noi, armati di una scienza da sussidiario, ci sentiamo in dovere di attaccare quel meraviglioso che la fede ci ha lasciato con strumenti a dir poco rozzi.

Ecco che, quindi, come chirurghi armati di mannaia, rimuoviamo brani così grossi della Rivelazione che ciò che resta non solo non vive, ma spesso non appare neppure umano. Non si trova in condizioni migliori chi possiede un sapere specialistico, poiché la nostra epoca, che ha dismesso l’universale per manipolare il particolare, partorisce esperti che affrontano l’ardua sfida della verità confidando in strumenti troppo minuti. Ecco che, quindi, volenterosi ma destinati al fallimento, questi personaggi cercano di svuotare il mare armati del loro fine cucchiaino da gelato.

Il risultato cui si giunge è l’imbarazzo: la fede cristiana, con i suoi miracoli e le sue incredibili affermazioni, ci appare come il più splendente dei miti, un qualcosa che, a prescindere dalle intenzioni personali, non può essere accolta così come si presenta. Le reazioni più comuni sono due: da un lato vi sono quelli che, sotto le macerie, non trovano nulla e si convincono che quel bagaglio ricevuto nell’infanzia debba morire con essa; dall’altro vi sono coloro che, percependo la fragranza preziosa della verità, scavano fra le rovine cercando di conservarne perlomeno l’essenza.

Questi ultimi cercano di mettere a nudo il messaggio di Cristo, spogliandolo di ogni elemento giudicato mitico, risultante quindi intollerabile alla loro ragione. Tuttavia, come chi cercasse di rendere puro il profumo di un fiore privandolo dei petali, si trovano in mano qualcosa di amorfo, impossibile da amare e che non può far altro che spegnersi in silenzio[3].

 

Il Natale di un bambino

Anche se considerazioni simili possono apparire desolanti, specie per un credente, è particolarmente importante soffermarcisi all’inizio del periodo dell’Avvento.

La Chiesa, infatti, non ci chiede di aspettare il Natale quasi fosse una parte del ciclo naturale delle stagioni, bensì di prepararci ad accoglierlo come il più prezioso dei doni. Poco importa quindi che sia atteso e noto, poiché, in quanto dono, mai potrà essere legittimamente accolto come inevitabile e necessario, ma sempre come segno d’amore. Per accettare davvero questa verità, è indispensabile venire a patti in modo sano con lo scandalo dell’Incarnazione. Ogni singola fase di questo evento, dall’annuncio dell’angelo fino al primo vagito di Gesù, sfida la nostra ragione e sembra volersi porre con prepotenza in quell’alveo mitico tanto arduo da accogliere.

L’Avvento, in quanto preparazione all’Incarnazione, è quel periodo che da un lato spinge il credente a porsi le domande di cui sopra, dall’altro permette alla Chiesa di guidarlo alle giuste risposte. Di fronte a quell’incredibile storia che sin da bambini ci viene raccontata, possiamo certo reagire rigettandone ogni veridicità, relegandola ad uno di quegli squallidi ed infantili conforti di cui l’infanzia è piena. D’altro canto, potremmo cercare di salvarne perlomeno l’essenza, riducendo l’incarnazione alla semplice metafora di una sapienza che, donataci da un uomo, ci può avvicinare a Dio.

Eppure, anche accettando questa seconda lettura, comunque percepiremmo la mancanza di qualcosa. L’amore di Dio, che pure non verrebbe negato, apparirebbe algido come il bacio formale di un padre assente, incapace di scaldare il cuore di un figlio solo. Rimarrebbe inalterata, sepolta ma presente, l’infantile domanda su come possa esserci amore senza vicinanza, su cosa possa trattenere un amante libero dal correre fra e braccia dell’amata.

Se riuscite a percepire questa contraddizione, a cogliere lo scandalo di questo negarsi di Dio, allora fermatevi, non cercate di andare oltre con le vostre forze. Piuttosto, voltatevi e tornate indietro alla semplicità di quei piccoli ai quali appartiene il Regno[4]. Provate a ricordarvi di quella saggezza che avevate da bambini e che vi permetteva di non porre alla realtà confini che le fossero estranei: solo così, di fronte all’annuncio delle meraviglie dell’amore di Dio, non chiuderete gli occhi, ma li spalancherete fiduciosi.

 

[1]Cf Christoph Schönborn, Natale, il mito diventa realtà (trad. Marco Rainini), ESD, Bologna 2007, pp. 21-22.

[2]Cf Mt 13, 46.

[3]Cf Schönborn, Natale, il mito, pp. 17-27.

[4]Cf Mt 18, 3.

Testo consigliato:

  • Christoph Schönborn, Natale, il mito diventa realtà (trad. Marco Rainini), ESD, Bologna 2007.