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La Passione non è per i curiosi

Cenacolo, Leonardo da Vinci, 1494-1498, Santa Maria delle Grazie
Cenacolo, Leonardo da Vinci, 1494-1498, Santa Maria delle Grazie

Indice:

1. Cristiani per hobby

2. Quel vuoto che lasciamo

3. Il paradosso dell’inclusione

 

1. Cristiani per hobby

Ogni anno il Mercoledì delle Ceneri c’introduce in un periodo, quello quaresimale, che potrebbe essere descritto come un lungo atto d’accusa che ogni cristiano compie di fronte al Signore. Difatti, solo in questi giorni anche noi, spesso credenti più per hobby che per mestiere, riusciamo a ricordarci del dovere della penitenza e di ciò che questo comporta nelle nostre vite.

Devo ammettere che, da hobbista quale sono, mi conforta sapere che questa tendenza ha da sempre accompagnato la vita delle Chiesa. Tertulliano infatti, autore cristiano cartaginese vissuto a cavallo fra il II ed il III secolo dopo Cristo, scrive nel suo scritto sulla penitenza: “È bene o no fare la penitenza? Perché ti arrovelli su questa questione? Dio lo ordina! E non solo ordina ma anche esorta, invita con una ricompensa, cioè con la salvezza, e lo giura dicendo Io vivo, desidera che gli si creda[1]”.

Il fatto che questo autore abbia sentito il dovere di porsi una simile domanda e di tentare una risposta ci fa capire che nella vita cristiana c’è sempre stata la strisciante tendenza a vedere la penitenza solo come una risposta ad un senso di colpa. Ciò che voglio dire è che molto spesso ci accostiamo a questa pratica spinti dalla volontà di lenire una sensazione di manchevolezza spontanea e soggettiva, trasformandola da dovere a semplice necessità privata.

La Quaresima possiede invece la stessa forza comunicativa delle parole di Tertulliano sopra riportate, poiché riesce a trasformare una semplice reazione soggettiva in un vero dovere, ossia in qualcosa che prescinde dalla nostra condizione.

 

2. Quel vuoto che lasciamo

Credo sia lecito a questo punto chiedersi quale peculiarità dia al periodo quaresimale questa capacità, questa forza che spesso neppure le parole ispirate del Vangelo sembrano possedere.

La risposta, secondo me, sta nello stesso fine della penitenza. Essa ci appare come una riparazione, un’azione che va a riempire un vuoto lasciato dalle nostre scelte. Quel vuoto non è tuttavia costituito solo dalla privazione dell’atto medesimo, ma anche dall’assenza dell’intento che dovrebbe accompagnare l’atto. Per fare un esempio, se non facciamo il regalo di compleanno a nostra sorella, ciò che neghiamo non è solo il gesto concreto del dono, ma anche l’amoroso intento che ne costituisce il carattere formale. Ecco che quindi, una volta consci di tale mancanza, la penitenza dovrà colmare entrambi questi elementi.

Se la vita in Cristo è una relazione amorosa che c’impegna in una costante risposta alla Sua donazione, la penitenza andrà a riempire l’evitamento di questa responsabilità sotto entrambi i caratteri.

A questo punto è più facile comprendere perché simili pratiche s’incarnano tradizionalmente in forme di volontaria sofferenza: quando pecchiamo infatti, quando cioè rifiutiamo di rispondere a quell’amore che Dio ci ha donato, stiamo semplicemente evitando di accompagnare Cristo sul Cavario, di portare con Lui quella croce di sofferenza che tanto ci spaventa; ecco che quindi, nell’insufficienza della riparazione e nell’appello alla Divina Misericordia, la penitenza è il nostro emergere dalla folla in cui eravamo spariti, il nostro afferrare un angolo della croce per poter fare con Cristo perlomeno alcuni metri.

Nel momento in cui la Santa Chiesa ci pone di fronte alla Quaresima, quando cioè ci chiede di contemplare il sacrificio di Gesù come chiave di lettura di tutta la Salvezza, noi scorgiamo necessariamente la nostra assenza in quella storia, leggiamo i nostri rifiuti alla luce dello sguardo sofferente di Cristo. Solo allora la penitenza cessa di essere legata a soggettivi sensi di colpa, limitati a singoli ambiti, ma diviene parametro dell’intera vita del cristiano, che inizia a comprendersi come colui che, ogni giorno, grava del legno le spalle del Salvatore.

 

3. Il paradosso dell’inclusione

Ammettiamo pure che la Quaresima costituisca per tutti i credenti un richiamo perentorio alla consapevolezza: ma dopo che succede? Una volta terminata l’annuale via crucis liturgica e penitenziale, cosa rimane al credente? Razionalmente dovremmo dire che la stessa ciclicità della Quaresima evidenzia il suo essere la riproposizione di una condizione altrimenti stabile e costante dell’uomo. Questo implica che il credente, uscito dal clima penitenziale proprio di questo specifico periodo, dovrebbe assimilarne la preziosa lezione e fare della sua esistenza una costante penitenza, magari celata da un pudico velo.

Anche solo ascoltando queste parole noi hobbisti, se siamo sinceri, ci rendiamo subito conto di quanto distante sia la nostra realtà. Quella pia necessità di conformare la nostra vita all’incolmabile debito che abbiamo verso Gesù Salvatore, dopo la gioia della Pasqua, viene come coperta dalla neve e, gradualmente, finisce per apparirci sempre più remota, come una parola uscita da tempi lontani. Intanto però si fa strada in noi il germe sottile dell’ignavia, quella colpa che Dante gravò di un sapiente disprezzo; nasce cioè nel nostro cuore il dubbio se sia davvero necessaria la radicalità implicita nel non poter distogliere lo sguardo da Cristo sofferente. Se ci sforziamo forse riusciremo persino a sentirne i suadenti argomenti, parole sussurrate che apparentemente evidenziano la totale dipendenza della nostra salvezza dall’iniziativa di Dio, ma che in verità tendono a ridurre il nostro ruolo nella Redenzione a quello di semplici lattanti in attesa passiva del seno materno.

Il nostro Tertulliano, uomo deciso e tagliente nello scritto, ha delineato molto bene questa visione delle cose nel brano che vi riporto di seguito: “Ma alcuni sostengono che il Signore si accontenta di essere accolto nel cuore e nell’animo, benché ciò non avvenga di fatto, e che quindi si può peccare se si salvaguardia il timor di Dio e la fede; il che equivale a profanare i matrimoni senza perdere la castità o avvelenare i genitori senza ledere la pietà filiale[2]”. I due paradossi con cui si conclude il brano evidenziano bene la vera radice del problema: la volontà di mediare a tutti i costi.

Cova in noi infatti la primordiale convinzione che, in fondo, con la giusta attenzione e moderazione, ogni estremo possa convivere con il suo opposto, quasi che la contraddittorietà sia una qualche forma di fallimento della diplomazia. Animati da questa sottile arroganza, ci convinciamo che la radicalità propria della penitenza sia alla fine una semplice fase, un po’ infantile, da superare con questa rinnovata maturità. Non ci accorgiamo invece che la vera moderazione non si nutre del sangue di una scelta retta, ma proprio della sofferenza che la testimonia.

Vi lascio con il discorso ancora parzialmente aperto, adatto forse a diventare oggetto di meditazione proprio durante la Quaresima di quest’anno. Viviamola con intensità, tenendo gli occhi ben fissi su Cristo e, quando quel sangue sembrerà non chiederci più conto, cerchiamo di fare della nostra stessa costanza una penitenza celata ed intima che nel quotidiano diventa consapevolezza.

 

[1] Cfr Tertulliano, La Penitenza (a cura di Attilio Carpin e J. C. Ph. Borleffs) 4,7, ESD e ESC, Bologna 2011.

[2] Cfr La penitenza (ed. cit.), 5,10.

Testo Consigliato:

  • Tertulliano, La Penitenza (a cura di Attilio Carpin e J. C. Ph. Borleffs), ESD e ESC, Bologna 2011.