La PEC e due falsi problemi di democrazia: l’assegnazione interna e la configurazione della casella “chiusa”

1. Dovere di risposta e diritto di conoscenza dell’identità di chi scrive

Chiunque ha diritto di scrivere a un’amministrazione pubblica e di ricevere risposta cortese, univoca e in tempi certi. L’omessa risposta, infatti, rappresenta una violazione dei doveri d’ufficio ed è sanzionabile penalmente (art. 328 codice penale, così come modificato dall’art. 16 della legge 26 aprile 1990, n. 86, e ribadito dalla giurisprudenza, ex multis, dalla Cassazione penale, sez. VI, 4 ottobre 2001, n. 41645).

L’amministrazione pubblica ha però il dovere istituzionale di conoscere l’identità del corrispondente, non tanto quando si tratta di semplici informazioni diffondibili erga omnes, quanto piuttosto di documenti amministrativi o comunque contenenti informazioni giuridicamente rilevanti erga partes.

Una regola generale da seguire è di utilizzare di norma lo stesso canale di comunicazione: a una email si risponde con una email, a una PEC con una PEC, a un documento amministrativo con un documento amministrativo rilevante a tutti gli effetti di legge, sia tradizionale che digitale, con eccezioni limitatissime.

Fatte queste doverose premesse, possiamo entrare nel cuore del problema.

2. L’assegnazione interna delle caselle di PEC e la supposta diminutio

Non poche amministrazioni hanno indistintamente distribuito caselle di PEC a sindaci, presidenti, assessori, segretari comunali, direttori generali, dirigenti, responsabili dei procedimenti amministrativi e così via.

Va chiarito che il non avere a disposizione una casella di PEC non significa una diminutio del ruolo che – in qualche inverosimile immaginario collettivo – verrebbe rafforzato proprio dall’assegnazione di una PEC. Alla domanda “quante caselle servono per un ente?” la risposta dovrebbe essere semplice: ne basta una. Più correttamente, ne basta una per area organizzativa omogenea (AOO), così come prevista dall’art. 50, comma 4, del DPR 445/2000 e in base all’art. 16, comma 8, della legge 2/2009.

L’indirizzo di posta elettronica certificata rappresenta, dunque, il parallelo informatico della sede legale di un ente pubblico e non sembra il caso di moltiplicare i punti di consegna della posta, ancorché in ambiente digitale, in quanto deve sussistere un identificabile e istituzionalmente dedicato canale ufficiale per la posta in entrata. Infatti, come ha rilevato il giudice amministrativo in ambito tradizionale, la consegna della posta al di fuori dell’indirizzo istituzionale “rileva al fine di impedire effetti decadenziali che non prendano avvio dalla consegna e registrazione degli atti al protocollo dei suddetti enti” (TAR Veneto, sez. I, 18 gennaio 1988, n. 1).

A ciò va aggiunto il fatto che, con l’introduzione dell’art. 4, comma 4, del DPCM 6 maggio 2009, «l’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, del decreto legislativo n. 82 del 2005».

Nella sostanza, ciò significa che l’assegnazione di una casella di PEC può essere configurata come l’assegnazione di un dispositivo di firma, in una sorta di deregolamentazione degli stessi poteri di firma, così come normati dal vigente art. 4 del D.Lgs. 165/2001.

In questa logica, la conseguenza è che un messaggio di PEC deve essere considerato, a tutti gli effetti di legge, un documento informatico e, come tale, ai sensi dell’art. 53, comma 5, del DPR 28 dicembre 2000, n. 445, deve essere obbligatoriamente protocollato, con le eccezioni previste dal medesimo comma. Invece, proprio la distribuzione massiva di caselle di PEC sarà causa di non rispetto del principio di economicità (art. 1 della legge 241/1990), non tanto per il costo – del tutto esiguo – di attivazione, quanto piuttosto per i costi connessi alla sua gestione organizzativa e ai costi della conservazione nel tempo non solo dei singoli messaggi, ma anche degli allegati trasmessi, delle buste di consegna, di ricezione e di anomalia.

Si tratta, infatti, di documenti informatici da conservare in forma autentica attraverso formati idonei, dei quali non vi è però traccia nel nostro ordinamento, pur essendo previsti dall’art. 68, comma 4, del Codice dell’amministrazione digitale (CAD, D.Lgs. 82/2005). Sembra dunque necessario frenare l’ipertrofia di PEC e soprattutto regolamentare i casi di accettazione di messaggi di PEC e i casi in cui risulti invece necessario l’invio di un documento informatico allegato alla PEC, in armonia con quanto previsto dall’art. 38 del DPR 445/2000 coordinato con l’art. 65 del CAD. In assenza di regole certe di accettazione (o di non accettazione) dei messaggi anche ai fini procedimentali, andremo sicuramente contro a una babele di comportamenti che disorienteranno i cittadini e le imprese.

L’utilizzo della PEC, lungi dall’essere massivo, risulterà necessario nei soli casi in cui effettivamente servirà una prova opponibile a terzi dell’avvenuta consegna. Non è pensabile, infatti, spedire tutto attraverso un sistema qualificato, nonostante i costi limitati. Soprattutto per l’attività prodromica e per l’istruttoria procedimentale risulterà ancora efficiente ed economico l’utilizzo dell’email semplice (detta anche “standard” o “convenzionale”), magari come vettore non qualificato di un documento sottoscritto con firma digitale, in armonia con quanto previsto dall’art. 47 del CAD.

3. La configurazione della PEC “chiusa”

Lo spam che ci sta invadendo tutti i giorni si sta progressivamente allargando alla casella di PEC. Premesso che esiste anche una sorta di spam anche tra PEC e PEC, va chiarito in modo fermo che le caselle dovranno essere configurate dal gestore (o direttamente dall’utente) come “chiuse”, cioè dovranno poter ricevere messaggi e documenti esclusivamente da altri vettori qualificati. Quindi, con una PEC si scrive a un’altra PEC.

Si tratta, in buona sostanza, di un consiglio “salvavita”, al fine di evitare che tutto ciò che prima veniva veicolato attraverso l’email semplice venga ora trasferito nell’ambito della casella certificata.

Nel caso di invio da parte di terzi di un messaggio di posta elettronica semplice a una casella PEC, il mittente riceverà un messaggio di anomalia, cioè una busta di “mancata consegna” direttamente dal gestore.

Tutto ciò deve avvenire al fine di non rendere inefficace la natura giuridico-probatoria dello stesso messaggio di PEC, il cui utilizzo si fonda proprio nella comunicazione tra due vettori qualificati.

Non si tratta, come paventa qualcuno, di un vulnus alla democrazia in quanto un cittadino non potrebbe così godere del diritto di scrivere a una casella di PEC, semplicemente perché esiste un obbligo di legge per le amministrazioni pubbliche di istituire una casella di posta istituzionale (art. 47, comma 3, del CAD, già previsto dall’art. 15 del DPCM 31 ottobre 2000), alla quale il cittadino potrà rivolgersi, senza dunque ricorrere alla PEC.

Insomma, oltre a una puntuale regolamentazione, da inserire tra i casi previsti dal Manuale di gestione del protocollo informatico (art. 3 e 5 del DPCM 31 ottobre 2000), serve la consapevolezza a tutti i livelli che non si può pensare di trasferire tutta la corrispondenza ordinaria alla PEC, che anzi verrà utilizzata esclusivamente in tutti quei casi in cui serve il parallelo digitale della cartolina di ricevimento di una raccomandata a/r. Non dunque un uso massivo, ma un uso limitato ai soli casi necessari, senza contare il fatto che con le future applicazioni del web 2.0 con ogni probabilità l’utilizzo dei sistemi di trasmissione digitale saranno progressivamente sostituiti da sistemi di “auto-amministrazione” attraverso i siti istituzionali compatibili con la registrazione, gestione e selezione di documenti informatici born digital, in ambienti idonei a garantirne nel tempo l’autenticità, l’integrità e intelleggibilità.

Per questo è necessario implementare un software per la gestione documentale e il protocollo informatico aggiornato alle nuove funzioni richieste per la tenuta e la conservazione degli oggetti digitali prodotti in ambito PEC, cioè messaggi, documenti informatici allegati e buste.

4. Macrofunzioni per un software PEC compliant

Un software per la gestione della PEC in ambito documentale deve prevedere, oltre all’accesso alla casella direttamente dal software senza passaggio a webmail o a client dedicati, per i messaggi in arrivo:

• la registrazione automatica dei messaggi di PEC o, in alternativa, dei documenti allegati attraverso interventi minimi su oggetto e corrispondente da parte del protocollista, con contestuale classificazione e fascicolazione;

• la classificazione e la fascicolazione di tutti gli oggetti collegati al messaggio di PEC, quali ricevuta di presa in carico, di consegna, anomalie, etc.

• la conservazione di tutti gli oggetti digitali in formati idonei, non proprietari e aperti

Per i documenti in partenza il software dovrà prevedere, oltre a quanto previsto per i messaggi in arrivo:

• la redazione e la trasmissione di un messaggio di PEC direttamente dal software per qualsiasi dipendente abilitato

Con queste premesse l’amministrazione digitale viaggerà in modo sicuro, affidabile, efficace, efficiente ed economico. Da un lato assisteremo alla progessiva e necessaria fase di transizione verso l’amministrazione digitale, dall’altro si ristabiliranno gli equilibri tra i diversi sistemi di trasmissione di documenti ammessi dal CAD, senza incappare in una democrazia apparente, in quanto senza garanzie certificatorie per i cittadini e per le imprese.

1. Dovere di risposta e diritto di conoscenza dell’identità di chi scrive

Chiunque ha diritto di scrivere a un’amministrazione pubblica e di ricevere risposta cortese, univoca e in tempi certi. L’omessa risposta, infatti, rappresenta una violazione dei doveri d’ufficio ed è sanzionabile penalmente (art. 328 codice penale, così come modificato dall’art. 16 della legge 26 aprile 1990, n. 86, e ribadito dalla giurisprudenza, ex multis, dalla Cassazione penale, sez. VI, 4 ottobre 2001, n. 41645).

L’amministrazione pubblica ha però il dovere istituzionale di conoscere l’identità del corrispondente, non tanto quando si tratta di semplici informazioni diffondibili erga omnes, quanto piuttosto di documenti amministrativi o comunque contenenti informazioni giuridicamente rilevanti erga partes.

Una regola generale da seguire è di utilizzare di norma lo stesso canale di comunicazione: a una email si risponde con una email, a una PEC con una PEC, a un documento amministrativo con un documento amministrativo rilevante a tutti gli effetti di legge, sia tradizionale che digitale, con eccezioni limitatissime.

Fatte queste doverose premesse, possiamo entrare nel cuore del problema.

2. L’assegnazione interna delle caselle di PEC e la supposta diminutio

Non poche amministrazioni hanno indistintamente distribuito caselle di PEC a sindaci, presidenti, assessori, segretari comunali, direttori generali, dirigenti, responsabili dei procedimenti amministrativi e così via.

Va chiarito che il non avere a disposizione una casella di PEC non significa una diminutio del ruolo che – in qualche inverosimile immaginario collettivo – verrebbe rafforzato proprio dall’assegnazione di una PEC. Alla domanda “quante caselle servono per un ente?” la risposta dovrebbe essere semplice: ne basta una. Più correttamente, ne basta una per area organizzativa omogenea (AOO), così come prevista dall’art. 50, comma 4, del DPR 445/2000 e in base all’art. 16, comma 8, della legge 2/2009.

L’indirizzo di posta elettronica certificata rappresenta, dunque, il parallelo informatico della sede legale di un ente pubblico e non sembra il caso di moltiplicare i punti di consegna della posta, ancorché in ambiente digitale, in quanto deve sussistere un identificabile e istituzionalmente dedicato canale ufficiale per la posta in entrata. Infatti, come ha rilevato il giudice amministrativo in ambito tradizionale, la consegna della posta al di fuori dell’indirizzo istituzionale “rileva al fine di impedire effetti decadenziali che non prendano avvio dalla consegna e registrazione degli atti al protocollo dei suddetti enti” (TAR Veneto, sez. I, 18 gennaio 1988, n. 1).

A ciò va aggiunto il fatto che, con l’introduzione dell’art. 4, comma 4, del DPCM 6 maggio 2009, «l’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, del decreto legislativo n. 82 del 2005».

Nella sostanza, ciò significa che l’assegnazione di una casella di PEC può essere configurata come l’assegnazione di un dispositivo di firma, in una sorta di deregolamentazione degli stessi poteri di firma, così come normati dal vigente art. 4 del D.Lgs. 165/2001.

In questa logica, la conseguenza è che un messaggio di PEC deve essere considerato, a tutti gli effetti di legge, un documento informatico e, come tale, ai sensi dell’art. 53, comma 5, del DPR 28 dicembre 2000, n. 445, deve essere obbligatoriamente protocollato, con le eccezioni previste dal medesimo comma. Invece, proprio la distribuzione massiva di caselle di PEC sarà causa di non rispetto del principio di economicità (art. 1 della legge 241/1990), non tanto per il costo – del tutto esiguo – di attivazione, quanto piuttosto per i costi connessi alla sua gestione organizzativa e ai costi della conservazione nel tempo non solo dei singoli messaggi, ma anche degli allegati trasmessi, delle buste di consegna, di ricezione e di anomalia.

Si tratta, infatti, di documenti informatici da conservare in forma autentica attraverso formati idonei, dei quali non vi è però traccia nel nostro ordinamento, pur essendo previsti dall’art. 68, comma 4, del Codice dell’amministrazione digitale (CAD, D.Lgs. 82/2005). Sembra dunque necessario frenare l’ipertrofia di PEC e soprattutto regolamentare i casi di accettazione di messaggi di PEC e i casi in cui risulti invece necessario l’invio di un documento informatico allegato alla PEC, in armonia con quanto previsto dall’art. 38 del DPR 445/2000 coordinato con l’art. 65 del CAD. In assenza di regole certe di accettazione (o di non accettazione) dei messaggi anche ai fini procedimentali, andremo sicuramente contro a una babele di comportamenti che disorienteranno i cittadini e le imprese.

L’utilizzo della PEC, lungi dall’essere massivo, risulterà necessario nei soli casi in cui effettivamente servirà una prova opponibile a terzi dell’avvenuta consegna. Non è pensabile, infatti, spedire tutto attraverso un sistema qualificato, nonostante i costi limitati. Soprattutto per l’attività prodromica e per l’istruttoria procedimentale risulterà ancora efficiente ed economico l’utilizzo dell’email semplice (detta anche “standard” o “convenzionale”), magari come vettore non qualificato di un documento sottoscritto con firma digitale, in armonia con quanto previsto dall’art. 47 del CAD.

3. La configurazione della PEC “chiusa”

Lo spam che ci sta invadendo tutti i giorni si sta progressivamente allargando alla casella di PEC. Premesso che esiste anche una sorta di spam anche tra PEC e PEC, va chiarito in modo fermo che le caselle dovranno essere configurate dal gestore (o direttamente dall’utente) come “chiuse”, cioè dovranno poter ricevere messaggi e documenti esclusivamente da altri vettori qualificati. Quindi, con una PEC si scrive a un’altra PEC.

Si tratta, in buona sostanza, di un consiglio “salvavita”, al fine di evitare che tutto ciò che prima veniva veicolato attraverso l’email semplice venga ora trasferito nell’ambito della casella certificata.

Nel caso di invio da parte di terzi di un messaggio di posta elettronica semplice a una casella PEC, il mittente riceverà un messaggio di anomalia, cioè una busta di “mancata consegna” direttamente dal gestore.

Tutto ciò deve avvenire al fine di non rendere inefficace la natura giuridico-probatoria dello stesso messaggio di PEC, il cui utilizzo si fonda proprio nella comunicazione tra due vettori qualificati.

Non si tratta, come paventa qualcuno, di un vulnus alla democrazia in quanto un cittadino non potrebbe così godere del diritto di scrivere a una casella di PEC, semplicemente perché esiste un obbligo di legge per le amministrazioni pubbliche di istituire una casella di posta istituzionale (art. 47, comma 3, del CAD, già previsto dall’art. 15 del DPCM 31 ottobre 2000), alla quale il cittadino potrà rivolgersi, senza dunque ricorrere alla PEC.

Insomma, oltre a una puntuale regolamentazione, da inserire tra i casi previsti dal Manuale di gestione del protocollo informatico (art. 3 e 5 del DPCM 31 ottobre 2000), serve la consapevolezza a tutti i livelli che non si può pensare di trasferire tutta la corrispondenza ordinaria alla PEC, che anzi verrà utilizzata esclusivamente in tutti quei casi in cui serve il parallelo digitale della cartolina di ricevimento di una raccomandata a/r. Non dunque un uso massivo, ma un uso limitato ai soli casi necessari, senza contare il fatto che con le future applicazioni del web 2.0 con ogni probabilità l’utilizzo dei sistemi di trasmissione digitale saranno progressivamente sostituiti da sistemi di “auto-amministrazione” attraverso i siti istituzionali compatibili con la registrazione, gestione e selezione di documenti informatici born digital, in ambienti idonei a garantirne nel tempo l’autenticità, l’integrità e intelleggibilità.

Per questo è necessario implementare un software per la gestione documentale e il protocollo informatico aggiornato alle nuove funzioni richieste per la tenuta e la conservazione degli oggetti digitali prodotti in ambito PEC, cioè messaggi, documenti informatici allegati e buste.

4. Macrofunzioni per un software PEC compliant

Un software per la gestione della PEC in ambito documentale deve prevedere, oltre all’accesso alla casella direttamente dal software senza passaggio a webmail o a client dedicati, per i messaggi in arrivo:

• la registrazione automatica dei messaggi di PEC o, in alternativa, dei documenti allegati attraverso interventi minimi su oggetto e corrispondente da parte del protocollista, con contestuale classificazione e fascicolazione;

• la classificazione e la fascicolazione di tutti gli oggetti collegati al messaggio di PEC, quali ricevuta di presa in carico, di consegna, anomalie, etc.

• la conservazione di tutti gli oggetti digitali in formati idonei, non proprietari e aperti

Per i documenti in partenza il software dovrà prevedere, oltre a quanto previsto per i messaggi in arrivo:

• la redazione e la trasmissione di un messaggio di PEC direttamente dal software per qualsiasi dipendente abilitato

Con queste premesse l’amministrazione digitale viaggerà in modo sicuro, affidabile, efficace, efficiente ed economico. Da un lato assisteremo alla progessiva e necessaria fase di transizione verso l’amministrazione digitale, dall’altro si ristabiliranno gli equilibri tra i diversi sistemi di trasmissione di documenti ammessi dal CAD, senza incappare in una democrazia apparente, in quanto senza garanzie certificatorie per i cittadini e per le imprese.