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La proroga del regime carcerario differenziato: problematiche applicative

Premessa.

La riforma apportata dalla legge, 19 luglio 2009, n. 94: il regime di proroga.
I motivi deducibili in sede di legittimità: una possibile censura di legittimità costituzionale.
Conclusioni.
 
Premessa.
Scopo del presente articolo è quello di individuare i requisiti richiesti per poter prorogare il “regime carcerario differenziato”.
A tal fine si esaminerà la modifica apportata all’art. 41 bis O.P. dalla legge n. 94 del 2009 e si procederà ad una valutazione della sua conformità ai canoni ermeneutici elaborati dalla Corte Costituzionale “in subiecta materia”(e recepiti “in toto”dalla Corte di Cassazione).
Inoltre, si considererà la questione inerente la limitata deducibilità dei vizi di legittimità prospettabile in Cassazione avverso le ordinanze emesse in “subiecta materia”.
Verranno in conclusione esposte delle brevi riflessioni conclusive.
 
La riforma apportata dalla legge, 19 luglio 2009, n. 94: il regime di proroga.
Preliminarmente si osserva che l’art. 41 bis, comma secondo, della l. n. 354 del 1975, originariamente introdotto dall’art. 19 del D.L. 8 giugno 1992 n. 306, è stato modificato dall’art. 2 della l. 15 luglio 2009, n. 94.
Esso, infatti, nella sua attuale formulazione, dispone che quando “ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente.
Dalla lettura della disposizione succitata, quindi, è evidente che il “legislatore” individui dei ben delimitati requisiti per applicare la norma in questione.
Essi, invero, possono essere circoscritti nei seguenti termini:
1) i “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”;
2) la “sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale”.
La “ratio” dell’istituto, quindi, in estrema sintesi, è quella volta ad impedire che, per “gravi esigenze di ordine pubblico”, il detenuto possa avere rapporti con un’associazione criminale.
Tra le principali “novità” apportate all’articolo in commento dalla legge n. 94 del 2009, sotto il profilo prettamente “sostanziale”, vi è quella riguardante la “proroga del regime carcerario differenziato”.
L’articolo 41 bis, co. II bis, O.P. nella sua attuale formulazione, difatti, stabilisce che la proroga del trattamento detentivo de quoè disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.
Da una prima lettura del dettato normativo summenzionato, quindi, emerge come il “Parlamento” abbia voluto individuare dei criteri ermeneutici (“recte”: degli indici sintomatici) da cui desumere l’attualità dei collegamenti con una consorteria criminale.
Questi indici interpretativi, dunque, sono stati specificati nei seguenti termini:
1)    il “profilo criminale”;
2)    la “posizione rivestita” dal soggetto in seno all’associazione;
3)    la “perdurante operatività del sodalizio criminale”;
4)    la “sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate”;
5)    gli “esiti del trattamento penitenziario”;
6)    il “tenore di vita dei familiari del sottoposto”.
Ebbene, siffatti canoni, isolatamente considerati, appaiono difficilmente riconducibili a dei parametri ontologici omogenei ed unitari e, soprattutto, rispettosi dei “criteri ermeneutici” elaborati dalla Corte Costituzionale “in subiecta materia”.
Difatti, la Consulta, enuncia, già appena dopo l’entrata in vigore della legge del 1992, una serie di “direttive interpretative” che hanno delimitato l’ambito di applicazione del regime detentivo previsto dall’art. 41 bis, comma II bis, O.P. .
Tra queste, si rammenta il “divieto di analogia” posto che “le norme previste dall’Ordinamento penitenziario che siano suscettibili di incidere ulteriormente su (…) diritti inviolabili dell’uomo, fra cui quello alla libertà personale non possono essere applicate per analogia e vanno interpretate in modo rigorosamente restrittivo”[1].
Ulteriore criterio ermeneutico” elaborato dai Giudici di legittimità costituzionale è quello riguardantel’obbligo di enucleare le ragioni che determinano la realizzazione di un “regime carcerario differenziato”[2].  
Di fatto, la Corte Costituzionale prevede che “ogni provvedimento di proroga delle misure dovrà recare una autonoma congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire”[3] non essendo infatti consentite “semplici proroghe immotivate del regime differenziato, né motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte”[4].
Sempre la Consulta,inoltre, afferma che l’ “onere della prova” non spetta al destinatario del “regime differenziato” perché deve essere il “provvedimento ministeriale” a dare congrua motivazione riguardo agli elementi da cui inferire l’esistenza del pericolo in esame (ossia che il detenuto abbia contatti con associazioni criminali o eversive).
Invero, nell’ordinanza n. 417 del 2004, è scritto “che del tutto priva di fondamento sarebbe anche la censura riferita all’art. 24 Cost., perché la norma impugnata, nell’escludere la proroga del regime differenziato nel caso in cui venga meno la capacità dell’interessato di mantenere contatti con le organizzazioni criminali, è coerente con la particolare natura delle ipotesi considerate, che presuppongono l’esistenza di stabili vincoli associativi, e non sembra pregiudicare le potenzialità difensive del destinatario, cui non è rimesso alcun onere di prova negativa”[5].
Viceversa, la modifica apportata all’articolo in commento dalla legge n. 94 del 2009 si discosta, almeno in parte, dai canoni ermeneutici summenzionati e quindi, come verrà esposto nel proseguo dell’analisi, necessita, a modesto avviso dello scrivente, di una lettura “costituzionalmente orientata”.
Per quanto concerne il “profilo criminale” e la “posizione rivestita dentro l’organigramma criminale”, in effetti, tali dati si rilevano intrinsecamente inidonei ad assurgere ad elemento di prova dell’appartenenza attuale ed concreta del ristretto ad un sodalizio criminogeno.
Difatti, aver fatto parte di una consorteria mafiosa, pure se acclarato con una sentenza in passata in giudicato, non dovrebbe bastare per stimare appurata una perdurante colleganza con una consorteria criminale dato che, a rigor di logica, fatti risalenti e passati, proprio perché remoti nel tempo, non possono dimostrare di per sè un pericolo attuale e concreto[6].
A tal proposito, lo scrivente osserva che gli elementi, sui quali si deve basare il “decreto di proroga”,secondo un orientamento giurisprudenziale ormai pacifico, “non possono consistere nella semplice riproduzione della «biografia delinquenziale» del condannato, non accompagnata da riferimenti ad altre e concrete circostanze idonee a provare l’attuale pericolosità del soggetto”[7].
Medesime considerazioni militano per la “perdurante operatività” di un dato gruppo associativo deviante il quale non può da solo accertare il coinvolgimento del detenuto in questa struttura criminale; invero, da tempo, il Supremo Consesso evidenzia che la “proroga del regime di detenzione differenziato previsto dall’art. 41 L. n. 354 del 1975 non può trovare giustificazione soltanto nella permanenza in vita dell’associazione mafiosa”[8].
Parimenti, per quanto riguarda la sopravvenienza di “nuove incriminazioni”, tale circostanza avrebbe avuto una valenza utile in un giudizio di tal tipo, solo laddove fosse stata prevista per fatti (contestati) recenti o prossimi al periodo oggetto della “proroga”.
Al contrario, poiché la norma in esame si limita a riferirsi a questi eventi soltanto nell’ipotesi in cui non siano stati “precedentemente” stimati, vi sono forti dubbi su un loro effettivo utilizzo nel giudizio in oggetto.
Infatti, non si riesce innanzitutto a comprendere, rispetto a quale “sede processuale”, si faccia riferimento alla mancata valutazione delle “nuove incriminazioni”.
Se, per l’appunto, il mancato esame concerne un fatto che avrebbe potuto essere contestato nel “giudizio di cognizione” (e per il quale il detenuto riporti una condanna definitiva), “nulla quaestio” giacché, in ossequio al principio dell’ “intangibilità” del giudicato, le nuove imputazioni non possono avere più “cittadinanza” in sede di “sorveglianza”[9].
Se, all’opposto, le “nuove incriminazioni” riguardano episodi sorti in concomitanza con la “prima applicazione del regime carcerario differenziato”, queste comunque, proprio perché concernono fatti collocabili in un lasso temporale antecedente in quello in cui si deve decidere la “proroga del regime differenziato”, non sono comunque idonee ad accertare nessun pericolo attuale e concreto in questo successivo “iter processuale”.
Ad ogni modo, al di là delle considerazioni appena compiute, è del tutto censurabile, per la violazione del principio della “presunzione di non colpevolezza”[10], l’uso di un criterio che non è ancorato ad un dato processuale accertato in via definitiva atteso che esso si basa esclusivamente su quanto cristallizzato nel “capo di accusa” (ovvero una “fattispecie giudiziale” del tutto antecedente al vaglio critico che sarà determinato nell’ “istruttoria dibattimentale”); questo canone presuntivo, a sua volta, prima di potersi considerare valido elemento indiziante, dovrà essere adeguatamente provato dall’organo requirente[11].
Del tutto “ultroneo”, inoltre, appare essere il richiamo al “tenore di vita dei familiari” del sottoposto poiché:
1)    non si riesce a comprendere, come ed in che termini, da una valutazione patrimoniale dei beni di una cerchia famigliare, si possa pervenire ad un giudizio di “pericolosità sociale” di un membro di essa;
2)    il criterio “de quo” appare essere più confacente a provvedimenti di natura “ablativa” piuttosto che ad una decisione con la quale si protrae un “regime di carcerazione differenziato”.
Una lettura “costituzionalmente orientata” di tale enunciato normativo, quindi, dovrebbe propendere per un utilizzo di questi indici interpretativi solo in via complementare e/o secondaria; in sostanza: detti riferimenti fattuali dovrebbero essere valutati solo se sussistono altri elementi probatori da cui inferire un effettivo collegamento del ristretto con una data consorteria criminosa.
Peraltro, non è un caso che il “legislatore” si sia avvalso, prima di enumerare siffatti criteri, dell’avverbio “anche” lasciando in tal guisa chiaramente intendere la possibilità (o “rectius”: la necessità) per il giudice di doversi avvalere, nel decidere se prorogare (o meno) il regime carcerario “de quo”, anche di altri fattori.
Ed allora, se si suole ancora intendere valido l’indirizzo interpretativo tracciato dalla Corte Costituzionale e quindi, se si vuole appunto preservare una lettura “costituzionale” della norma in esame, i canoni suesposti dovrebbero essere utilizzati solo laddove vi siano altri elementi specifici ed attuali  mediante i quali desumere un effettivo coinvolgimento del detenuto nel compimento di operazioni illecite (ad esempio: il rinvenimento di missive da cui evincere un interessamento del ristretto per date operazioni di natura criminale e/o l’esistenza di contatti personali (o telefonici) con personaggi la cui appartenenza a consorterie criminale è stata processualmente acclarata).
Una “esegesi” di questa “disposizione legislativa” che si limiti ad applicare il “regime di proroga” solo in conformità a questi dati normativamente prefissati, viceversa, produrrebbe, come conseguenza principale, un inammissibile automatismo del regime carcerario differenziato in stridente contrasto non solo, con quanto elaborato dai Giudici legittimità costituzionale (ed in precedenza esaminato) ma anche con quell’orientamento nomofilattico secondo il quale in “tema di sospensione delle regole del trattamento ai sensi dell’art. 41 , comma secondo, L. 26 luglio 1975 n. 354, per il decreto di proroga è richiesta un’autonoma e congrua motivazione in ordine all’attuale persistenza del pericolo per l’ordine e per la sicurezza, non potendosi consentire, per una sorta d’inammissibile «automatismo» semplici e immotivate proroghe del regime differenziato, ovvero motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di concretezza e attualità le misure disposte”[12].
Sulla scorta di questo indirizzo ermeneutico, si è allineata per di più anche la giurisprudenza di merito come si evince da quanto statuito dal Tribunale di Sorveglianza di Roma nella seguente ordinanza: è necessario che “il provvedimento ministeriale, compreso quello di proroga del regime differenziato emesso ai sensi del comma 2bis dell’art. 41 bis O.P.,contenga una autonoma e congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza”[13].
In senso analogo, si colloca altresì la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo secondo la quale, il regime detentivo di cui all’art. 41 bis O.P. se da un lato, è stato reputato non contrastante con la CEDU in quanto non considerato un trattamento né inumano nè degradante[14], dall’altro, tuttavia, è stato ritenuto non giustificabile “astrattamente e automaticamente alla luce delle esigenze di contrasto della criminalità organizzata in quanto il predetto articolo 3 pone un divieto assoluto che non può subire eccezioni, né deroghe, in ragione della gravità del reato o di esigenze di sicurezza o di ordine pubblico, per quanto eccezionali”[15].
Questo stesso organo giurisdizionale comunitario, peraltro,  afferma non solo che “l’applicazione prolungata di certe restrizioni può porre un detenuto in una situazione che potrebbe costituire un trattamento inumano o degradante ai senso dell’art. 3” [16] (C.E.D.U. ndr.) ma stabilisce anche che “vi deve essere un controllo volto a verificare se, il rinnovo e la proroga delle restrizioni, siano giustificate o, se al contrario, costituiscano soltanto la semplice reiterazione di limitazioni che non hanno più alcuna ragion d’essere”[17].
L’usare “sic et simpliciter”solo detti elementi, in più, rappresenterebbe un’abile “escamotage”per “aggirare” l’onere probatorio surriferito.
Difatti, il ricorso a mere “presunzioni legali” eluderebbe l’ obbligo di dare una congrua motivazione in ordine agli elementi da cui acclarare se, il pericolo che il condannato abbia contatti con associazioni criminali o eversive, non sia venuto meno.
Per contro, una valutazione simmetricamente opposta a quella appena compiuta è da formularsi con riferimento agli “esiti del trattamento penitenziario” i quali, viceversa, rappresentano sicuramente un valido elemento sintomatico attraverso il quale stabilire se la pena abbia svolto il suo compito costituzionalmente assegnato o se, al contrario, la propensione criminogena del detenuto, abbia serbata intatta la sua pericolosa attualità.
Invero, siffatti elementi fattuali si collocano, su un piano diacronico, in un lasso temporale prossimo se non del tutto coincidente con quello richiesto per appurare la sussistenza (o meglio: la persistenza) di un pericolo attuale ascrivibile al detenuto.
Per quanto concerne “il decorso del tempo”, invece, è rilevare piuttosto che la regola de qua, sebbene abbia stabilito che il “mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa” (art. 41 bis, co. II bis, O.P.), non esclude però che questo dato ontologico possa essere preso in considerazione insieme ad altri fattori.
A conferma di detto assunto giuridico, vi sono considerazioni di ordine logico -sistematico giacché, ad esempio, in materia “de libertate”, la Cassazione conferisce rilievo al periodo in cui una persona è sottoposta a “misura cautelare personale” nella misura in cui vi siano “altri elementi idonei ad indurre un mutamento della complessiva situazione”[18].
E’ evidente quindi che, se siffatto dettato giurisprudenziale è stato formulato a proposito delle “misure cautelari”, a maggior ragione, questo principio di diritto può essere applicato anche per un trattamento carcerario (seppur di natura speciale).
Infine, il rigoroso vaglio critico imposto dalla Corte Costituzionale al Tribunale di Sorveglianza per il giudizio “de quo”, non è venuto meno a causa delle modifiche apportate dalla legge n. 94.
A tal proposito, per dovere di chiarezza espositiva, lo scrivente osserva che l’art. 41 bis, co. 2 sexies, O.P. prevedeva che il “tribunale, entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo di cui al comma 2-quinquies, decide in camera di consiglio, nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, sulla sussistenza dei presupposti per l’ adozione del provvedimento e sulla congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2” mentre, la legge n. 94, modifica il “testo normativo” su emarginato nei seguenti termini: il “tribunale, entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo di cui al comma 2 quinquies, decide in camera di consiglio, nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento”.
Orbene, la soppressione dell’inciso “sulla congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2”, non esonera in alcun modo i Magistrati di sorveglianza dal compito di accertare se, le “specifiche esigenze di ordine e di sicurezza”, costituiscano il presupposto del regime carcerario differenziato.
Le “restrizioni connesse al regime speciale”, difatti, come recentemente chiarito dalla Consulta in una recente decisione (ossia: l’ordinanza n.220del2010), sono giustificate solo nella misura in cui esse siano imposte “dall’esigenza di contenere la pericolosità di determinati soggetti, individuati non secondo una logica presuntiva, ma in esito ad una valutazione specifica ed individuale”[19].
Peraltro, la Corte Costituzionale, già in un’altra pronuncia di poco precedente (ovvero: la sentenza n.190 del2010), stabilisce come siffatta modifica normativa non abbia in alcun modo comportato il venir meno del controllo di legalità, da parte del Tribunale di sorveglianza, sui contenuti del provvedimento di sospensione posto che, in virtù di una lettura “costituzionalmente orientata” della norma de qua, soccorre la “perdurante esistenza e utilizzabilità del rimedio previsto dall’art. 14-ter ord. pen. per tutti i regimi di sorveglianza particolare, ed anzi, più in generale, quale strumento di garanzia giurisdizionale per i diritti dei detenuti”[20].
Siffatto dictum giurisprudenziale, per di più, oltre a ribadire l’indirizzo ermeneutico suesposto, non si discosta da quello sostenuto dal Supremo Consesso che, anzi, allo stesso modo, sostiene che il Tribunale di Sorveglianza deve procedere ad un rigoroso “vaglio critico”[21] volto a verificare la “concreta possibilità per il condannato di riprendere i vincoli associativi e di continuare ad essere utile alla organizzazione anche all’interno del circuito carcerario ordinario, qualora il regime detentivo differenziato dovesse venire meno”[22].
Tale approdo ermeneutico, d’altronde, è stato di recente confermato; nella sentenza n. 48396 del 6 ottobre 2011, la Corte Suprema di Cassazione, Sez. I, difatti, afferma parimenti che il prolungamentodi questo regime restrittivo deve essere disposto solo nella misura in cui il provvedimento ministeriale di proroga sia sorretto da una “congrua ed autonoma motivazione in ordine agli specifici elementi dai quali desumere la permanenza attuale delle eccezionali ragioni di ordine e di sicurezza, correlate ai pericoli connessi alla persistente capacità del condannato di tenere contatti con la criminalità organizzata, che le misure mirano a prevenire”.
Solo in tal guisa invero il controllo sulla “legalità” della misura in esame, infatti, come già esposto, può rispondere all’esigenza “di salvaguardia della garanzia, riconosciuta dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ad un controllo giurisdizionale effettivo”[23].
 
I motivi deducibili in sede di legittimità: una possibile censura di legittimità costituzionale.
Si rileva infine una palese sperequazione, sotto il profilo dei motivi prospettabili in “sede di legittimità”, tra le “ordinanze” emesse “in subiecta materia”e gli altri provvedimenti adottati sempre dal Tribunale di Sorveglianza.
La Suprema Corte di Cassazione a “Sezioni Unite”, nella decisione n. 31461del 2006, difatti, afferma che “nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza” “la ricorribilità per Cassazione è estesa a tutti i motivi previsti dall’art. 606 c.p.p.” mentre, per contro, l’art. 41 bis, comma 2 sexies, O.P., anche dopo la recente modifica del 2009, limita la possibilità di ricorrere avverso siffatti provvedimenti per Cassazione solo nel caso di “violazione di legge”.
I giudici di legittimità, in più, interpretano la locuzione “violazione di legge” “strictu sensu”facendo rientrare in questo caso solo l’ipotesi in cui, la motivazione del provvedimento, sia “meramente apparente”[24].
E’ evidente di conseguenza, anche in virtù di questo indirizzo “nomofilattico”, l’irragionevolezza della diversa disciplina prevista per il regime carcerario differenziato se si considera che, codesto trattamento restrittivo, viceversa, prevede una limitazione del diritto di impugnazione riconosciuto al detenuto in regime di “carcerazione ordinaria” (e non solo) nella forma più ampia possibile.
Sussistono, pertanto, a modesto avviso dello scrivente, i presupposti per sollevare una “questione di legittimità costituzionale” dell’ art. 41 bis, comma 2 sexies, O.P. per violazione dell’art. 3, comma I, Cost. nella parte in cui non prevede la possibilità di proporre “ricorso per Cassazione” per tutti i motivi indicati dall’art. 606 c.p.p. anziché per la sola “violazione di legge” anche perché, la stessa Suprema Corte di Cassazione, prende atto che invece, il reclamo avverso il provvedimento di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis ord. pen., pur se particolare, resta comunque una “forma di impugnazione, che resta soggetta alla generale disciplina processuale di cui all’art. 581 cod. proc. pen.”[25].
lass="MsoNormal" style="text-align: justify;" align="center">Premessa.
La riforma apportata dalla legge, 19 luglio 2009, n. 94: il regime di proroga.
I motivi deducibili in sede di legittimità: una possibile censura di legittimità costituzionale.
Conclusioni.
 
Premessa.
Scopo del presente articolo è quello di individuare i requisiti richiesti per poter prorogare il “regime carcerario differenziato”.
A tal fine si esaminerà la modifica apportata all’art. 41 bis O.P. dalla legge n. 94 del 2009 e si procederà ad una valutazione della sua conformità ai canoni ermeneutici elaborati dalla Corte Costituzionale “in subiecta materia”(e recepiti “in toto”dalla Corte di Cassazione).
Inoltre, si considererà la questione inerente la limitata deducibilità dei vizi di legittimità prospettabile in Cassazione avverso le ordinanze emesse in “subiecta materia”.
Verranno in conclusione esposte delle brevi riflessioni conclusive.
 
La riforma apportata dalla legge, 19 luglio 2009, n. 94: il regime di proroga.
Preliminarmente si osserva che l’art. 41 bis, comma secondo, della l. n. 354 del 1975, originariamente introdotto dall’art. 19 del D.L. 8 giugno 1992 n. 306, è stato modificato dall’art. 2 della l. 15 luglio 2009, n. 94.
Esso, infatti, nella sua attuale formulazione, dispone che quando “ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente.
Dalla lettura della disposizione succitata, quindi, è evidente che il “legislatore” individui dei ben delimitati requisiti per applicare la norma in questione.
Essi, invero, possono essere circoscritti nei seguenti termini:
1) i “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”;
2) la “sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale”.
La “ratio” dell’istituto, quindi, in estrema sintesi, è quella volta ad impedire che, per “gravi esigenze di ordine pubblico”, il detenuto possa avere rapporti con un’associazione criminale.
Tra le principali “novità” apportate all’articolo in commento dalla legge n. 94 del 2009, sotto il profilo prettamente “sostanziale”, vi è quella riguardante la “proroga del regime carcerario differenziato”.
L’articolo 41 bis, co. II bis, O.P. nella sua attuale formulazione, difatti, stabilisce che la proroga del trattamento detentivo de quoè disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.
Da una prima lettura del dettato normativo summenzionato, quindi, emerge come il “Parlamento” abbia voluto individuare dei criteri ermeneutici (“recte”: degli indici sintomatici) da cui desumere l’attualità dei collegamenti con una consorteria criminale.
Questi indici interpretativi, dunque, sono stati specificati nei seguenti termini:
1)    il “profilo criminale”;
2)    la “posizione rivestita” dal soggetto in seno all’associazione;
3)    la “perdurante operatività del sodalizio criminale”;
4)    la “sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate”;
5)    gli “esiti del trattamento penitenziario”;
6)    il “tenore di vita dei familiari del sottoposto”.
Ebbene, siffatti canoni, isolatamente considerati, appaiono difficilmente riconducibili a dei parametri ontologici omogenei ed unitari e, soprattutto, rispettosi dei “criteri ermeneutici” elaborati dalla Corte Costituzionale “in subiecta materia”.
Difatti, la Consulta, enuncia, già appena dopo l’entrata in vigore della legge del 1992, una serie di “direttive interpretative” che hanno delimitato l’ambito di applicazione del regime detentivo previsto dall’art. 41 bis, comma II bis, O.P. .
Tra queste, si rammenta il “divieto di analogia” posto che “le norme previste dall’Ordinamento penitenziario che siano suscettibili di incidere ulteriormente su (…) diritti inviolabili dell’uomo, fra cui quello alla libertà personale non possono essere applicate per analogia e vanno interpretate in modo rigorosamente restrittivo”[1].
Ulteriore criterio ermeneutico” elaborato dai Giudici di legittimità costituzionale è quello riguardantel’obbligo di enucleare le ragioni che determinano la realizzazione di un “regime carcerario differenziato”[2].  
Di fatto, la Corte Costituzionale prevede che “ogni provvedimento di proroga delle misure dovrà recare una autonoma congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire”[3] non essendo infatti consentite “semplici proroghe immotivate del regime differenziato, né motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte”[4].
Sempre la Consulta,inoltre, afferma che l’ “onere della prova” non spetta al destinatario del “regime differenziato” perché deve essere il “provvedimento ministeriale” a dare congrua motivazione riguardo agli elementi da cui inferire l’esistenza del pericolo in esame (ossia che il detenuto abbia contatti con associazioni criminali o eversive).
Invero, nell’ordinanza n. 417 del 2004, è scritto “che del tutto priva di fondamento sarebbe anche la censura riferita all’art. 24 Cost., perché la norma impugnata, nell’escludere la proroga del regime differenziato nel caso in cui venga meno la capacità dell’interessato di mantenere contatti con le organizzazioni criminali, è coerente con la particolare natura delle ipotesi considerate, che presuppongono l’esistenza di stabili vincoli associativi, e non sembra pregiudicare le potenzialità difensive del destinatario, cui non è rimesso alcun onere di prova negativa”[5].
Viceversa, la modifica apportata all’articolo in commento dalla legge n. 94 del 2009 si discosta, almeno in parte, dai canoni ermeneutici summenzionati e quindi, come verrà esposto nel proseguo dell’analisi, necessita, a modesto avviso dello scrivente, di una lettura “costituzionalmente orientata”.
Per quanto concerne il “profilo criminale” e la “posizione rivestita dentro l’organigramma criminale”, in effetti, tali dati si rilevano intrinsecamente inidonei ad assurgere ad elemento di prova dell’appartenenza attuale ed concreta del ristretto ad un sodalizio criminogeno.
Difatti, aver fatto parte di una consorteria mafiosa, pure se acclarato con una sentenza in passata in giudicato, non dovrebbe bastare per stimare appurata una perdurante colleganza con una consorteria criminale dato che, a rigor di logica, fatti risalenti e passati, proprio perché remoti nel tempo, non possono dimostrare di per sè un pericolo attuale e concreto[6].
A tal proposito, lo scrivente osserva che gli elementi, sui quali si deve basare il “decreto di proroga”,secondo un orientamento giurisprudenziale ormai pacifico, “non possono consistere nella semplice riproduzione della «biografia delinquenziale» del condannato, non accompagnata da riferimenti ad altre e concrete circostanze idonee a provare l’attuale pericolosità del soggetto”[7].
Medesime considerazioni militano per la “perdurante operatività” di un dato gruppo associativo deviante il quale non può da solo accertare il coinvolgimento del detenuto in questa struttura criminale; invero, da tempo, il Supremo Consesso evidenzia che la “proroga del regime di detenzione differenziato previsto dall’art. 41 L. n. 354 del 1975 non può trovare giustificazione soltanto nella permanenza in vita dell’associazione mafiosa”[8].
Parimenti, per quanto riguarda la sopravvenienza di “nuove incriminazioni”, tale circostanza avrebbe avuto una valenza utile in un giudizio di tal tipo, solo laddove fosse stata prevista per fatti (contestati) recenti o prossimi al periodo oggetto della “proroga”.
Al contrario, poiché la norma in esame si limita a riferirsi a questi eventi soltanto nell’ipotesi in cui non siano stati “precedentemente” stimati, vi sono forti dubbi su un loro effettivo utilizzo nel giudizio in oggetto.
Infatti, non si riesce innanzitutto a comprendere, rispetto a quale “sede processuale”, si faccia riferimento alla mancata valutazione delle “nuove incriminazioni”.
Se, per l’appunto, il mancato esame concerne un fatto che avrebbe potuto essere contestato nel “giudizio di cognizione” (e per il quale il detenuto riporti una condanna definitiva), “nulla quaestio” giacché, in ossequio al principio dell’ “intangibilità” del giudicato, le nuove imputazioni non possono avere più “cittadinanza” in sede di “sorveglianza”[9].
Se, all’opposto, le “nuove incriminazioni” riguardano episodi sorti in concomitanza con la “prima applicazione del regime carcerario differenziato”, queste comunque, proprio perché concernono fatti collocabili in un lasso temporale antecedente in quello in cui si deve decidere la “proroga del regime differenziato”, non sono comunque idonee ad accertare nessun pericolo attuale e concreto in questo successivo “iter processuale”.
Ad ogni modo, al di là delle considerazioni appena compiute, è del tutto censurabile, per la violazione del principio della “presunzione di non colpevolezza”[10], l’uso di un criterio che non è ancorato ad un dato processuale accertato in via definitiva atteso che esso si basa esclusivamente su quanto cristallizzato nel “capo di accusa” (ovvero una “fattispecie giudiziale” del tutto antecedente al vaglio critico che sarà determinato nell’ “istruttoria dibattimentale”); questo canone presuntivo, a sua volta, prima di potersi considerare valido elemento indiziante, dovrà essere adeguatamente provato dall’organo requirente[11].
Del tutto “ultroneo”, inoltre, appare essere il richiamo al “tenore di vita dei familiari” del sottoposto poiché:
1)    non si riesce a comprendere, come ed in che termini, da una valutazione patrimoniale dei beni di una cerchia famigliare, si possa pervenire ad un giudizio di “pericolosità sociale” di un membro di essa;
2)    il criterio “de quo” appare essere più confacente a provvedimenti di natura “ablativa” piuttosto che ad una decisione con la quale si protrae un “regime di carcerazione differenziato”.
Una lettura “costituzionalmente orientata” di tale enunciato normativo, quindi, dovrebbe propendere per un utilizzo di questi indici interpretativi solo in via complementare e/o secondaria; in sostanza: detti riferimenti fattuali dovrebbero essere valutati solo se sussistono altri elementi probatori da cui inferire un effettivo collegamento del ristretto con una data consorteria criminosa.
Peraltro, non è un caso che il “legislatore” si sia avvalso, prima di enumerare siffatti criteri, dell’avverbio “anche” lasciando in tal guisa chiaramente intendere la possibilità (o “rectius”: la necessità) per il giudice di doversi avvalere, nel decidere se prorogare (o meno) il regime carcerario “de quo”, anche di altri fattori.
Ed allora, se si suole ancora intendere valido l’indirizzo interpretativo tracciato dalla Corte Costituzionale e quindi, se si vuole appunto preservare una lettura “costituzionale” della norma in esame, i canoni suesposti dovrebbero essere utilizzati solo laddove vi siano altri elementi specifici ed attuali  mediante i quali desumere un effettivo coinvolgimento del detenuto nel compimento di operazioni illecite (ad esempio: il rinvenimento di missive da cui evincere un interessamento del ristretto per date operazioni di natura criminale e/o l’esistenza di contatti personali (o telefonici) con personaggi la cui appartenenza a consorterie criminale è stata processualmente acclarata).
Una “esegesi” di questa “disposizione legislativa” che si limiti ad applicare il “regime di proroga” solo in conformità a questi dati normativamente prefissati, viceversa, produrrebbe, come conseguenza principale, un inammissibile automatismo del regime carcerario differenziato in stridente contrasto non solo, con quanto elaborato dai Giudici legittimità costituzionale (ed in precedenza esaminato) ma anche con quell’orientamento nomofilattico secondo il quale in “tema di sospensione delle regole del trattamento ai sensi dell’art. 41 , comma secondo, L. 26 luglio 1975 n. 354, per il decreto di proroga è richiesta un’autonoma e congrua motivazione in ordine all’attuale persistenza del pericolo per l’ordine e per la sicurezza, non potendosi consentire, per una sorta d’inammissibile «automatismo» semplici e immotivate proroghe del regime differenziato, ovvero motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di concretezza e attualità le misure disposte”[12].
Sulla scorta di questo indirizzo ermeneutico, si è allineata per di più anche la giurisprudenza di merito come si evince da quanto statuito dal Tribunale di Sorveglianza di Roma nella seguente ordinanza: è necessario che “il provvedimento ministeriale, compreso quello di proroga del regime differenziato emesso ai sensi del comma 2bis dell’art. 41 bis O.P.,contenga una autonoma e congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza”[13].
In senso analogo, si colloca altresì la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo secondo la quale, il regime detentivo di cui all’art. 41 bis O.P. se da un lato, è stato reputato non contrastante con la CEDU in quanto non considerato un trattamento né inumano nè degradante[14], dall’altro, tuttavia, è stato ritenuto non giustificabile “astrattamente e automaticamente alla luce delle esigenze di contrasto della criminalità organizzata in quanto il predetto articolo 3 pone un divieto assoluto che non può subire eccezioni, né deroghe, in ragione della gravità del reato o di esigenze di sicurezza o di ordine pubblico, per quanto eccezionali”[15].
Questo stesso organo giurisdizionale comunitario, peraltro,  afferma non solo che “l’applicazione prolungata di certe restrizioni può porre un detenuto in una situazione che potrebbe costituire un trattamento inumano o degradante ai senso dell’art. 3” [16] (C.E.D.U. ndr.) ma stabilisce anche che “vi deve essere un controllo volto a verificare se, il rinnovo e la proroga delle restrizioni, siano giustificate o, se al contrario, costituiscano soltanto la semplice reiterazione di limitazioni che non hanno più alcuna ragion d’essere”[17].
L’usare “sic et simpliciter”solo detti elementi, in più, rappresenterebbe un’abile “escamotage”per “aggirare” l’onere probatorio surriferito.
Difatti, il ricorso a mere “presunzioni legali” eluderebbe l’ obbligo di dare una congrua motivazione in ordine agli elementi da cui acclarare se, il pericolo che il condannato abbia contatti con associazioni criminali o eversive, non sia venuto meno.
Per contro, una valutazione simmetricamente opposta a quella appena compiuta è da formularsi con riferimento agli “esiti del trattamento penitenziario” i quali, viceversa, rappresentano sicuramente un valido elemento sintomatico attraverso il quale stabilire se la pena abbia svolto il suo compito costituzionalmente assegnato o se, al contrario, la propensione criminogena del detenuto, abbia serbata intatta la sua pericolosa attualità.
Invero, siffatti elementi fattuali si collocano, su un piano diacronico, in un lasso temporale prossimo se non del tutto coincidente con quello richiesto per appurare la sussistenza (o meglio: la persistenza) di un pericolo attuale ascrivibile al detenuto.
Per quanto concerne “il decorso del tempo”, invece, è rilevare piuttosto che la regola de qua, sebbene abbia stabilito che il “mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa” (art. 41 bis, co. II bis, O.P.), non esclude però che questo dato ontologico possa essere preso in considerazione insieme ad altri fattori.
A conferma di detto assunto giuridico, vi sono considerazioni di ordine logico -sistematico giacché, ad esempio, in materia “de libertate”, la Cassazione conferisce rilievo al periodo in cui una persona è sottoposta a “misura cautelare personale” nella misura in cui vi siano “altri elementi idonei ad indurre un mutamento della complessiva situazione”[18].
E’ evidente quindi che, se siffatto dettato giurisprudenziale è stato formulato a proposito delle “misure cautelari”, a maggior ragione, questo principio di diritto può essere applicato anche per un trattamento carcerario (seppur di natura speciale).
Infine, il rigoroso vaglio critico imposto dalla Corte Costituzionale al Tribunale di Sorveglianza per il giudizio “de quo”, non è venuto meno a causa delle modifiche apportate dalla legge n. 94.
A tal proposito, per dovere di chiarezza espositiva, lo scrivente osserva che l’art. 41 bis, co. 2 sexies, O.P. prevedeva che il “tribunale, entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo di cui al comma 2-quinquies, decide in camera di consiglio, nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, sulla sussistenza dei presupposti per l’ adozione del provvedimento e sulla congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2” mentre, la legge n. 94, modifica il “testo normativo” su emarginato nei seguenti termini: il “tribunale, entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo di cui al comma 2 quinquies, decide in camera di consiglio, nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento”.
Orbene, la soppressione dell’inciso “sulla congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2”, non esonera in alcun modo i Magistrati di sorveglianza dal compito di accertare se, le “specifiche esigenze di ordine e di sicurezza”, costituiscano il presupposto del regime carcerario differenziato.
Le “restrizioni connesse al regime speciale”, difatti, come recentemente chiarito dalla Consulta in una recente decisione (ossia: l’ordinanza n.220del2010), sono giustificate solo nella misura in cui esse siano imposte “dall’esigenza di contenere la pericolosità di determinati soggetti, individuati non secondo una logica presuntiva, ma in esito ad una valutazione specifica ed individuale”[19].
Peraltro, la Corte Costituzionale, già in un’altra pronuncia di poco precedente (ovvero: la sentenza n.190 del2010), stabilisce come siffatta modifica normativa non abbia in alcun modo comportato il venir meno del controllo di legalità, da parte del Tribunale di sorveglianza, sui contenuti del provvedimento di sospensione posto che, in virtù di una lettura “costituzionalmente orientata” della norma de qua, soccorre la “perdurante esistenza e utilizzabilità del rimedio previsto dall’art. 14-ter ord. pen. per tutti i regimi di sorveglianza particolare, ed anzi, più in generale, quale strumento di garanzia giurisdizionale per i diritti dei detenuti”[20].
Siffatto dictum giurisprudenziale, per di più, oltre a ribadire l’indirizzo ermeneutico suesposto, non si discosta da quello sostenuto dal Supremo Consesso che, anzi, allo stesso modo, sostiene che il Tribunale di Sorveglianza deve procedere ad un rigoroso “vaglio critico”[21] volto a verificare la “concreta possibilità per il condannato di riprendere i vincoli associativi e di continuare ad essere utile alla organizzazione anche all’interno del circuito carcerario ordinario, qualora il regime detentivo differenziato dovesse venire meno”[22].
Tale approdo ermeneutico, d’altronde, è stato di recente confermato; nella sentenza n. 48396 del 6 ottobre 2011, la Corte Suprema di Cassazione, Sez. I, difatti, afferma parimenti che il prolungamentodi questo regime restrittivo deve essere disposto solo nella misura in cui il provvedimento ministeriale di proroga sia sorretto da una “congrua ed autonoma motivazione in ordine agli specifici elementi dai quali desumere la permanenza attuale delle eccezionali ragioni di ordine e di sicurezza, correlate ai pericoli connessi alla persistente capacità del condannato di tenere contatti con la criminalità organizzata, che le misure mirano a prevenire”.
Solo in tal guisa invero il controllo sulla “legalità” della misura in esame, infatti, come già esposto, può rispondere all’esigenza “di salvaguardia della garanzia, riconosciuta dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ad un controllo giurisdizionale effettivo”[23].
 
I motivi deducibili in sede di legittimità: una possibile censura di legittimità costituzionale.
Si rileva infine una palese sperequazione, sotto il profilo dei motivi prospettabili in “sede di legittimità”, tra le “ordinanze” emesse “in subiecta materia”e gli altri provvedimenti adottati sempre dal Tribunale di Sorveglianza.
La Suprema Corte di Cassazione a “Sezioni Unite”, nella decisione n. 31461del 2006, difatti, afferma che “nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza” “la ricorribilità per Cassazione è estesa a tutti i motivi previsti dall’art. 606 c.p.p.” mentre, per contro, l’art. 41 bis, comma 2 sexies, O.P., anche dopo la recente modifica del 2009, limita la possibilità di ricorrere avverso siffatti provvedimenti per Cassazione solo nel caso di “violazione di legge”.
I giudici di legittimità, in più, interpretano la locuzione “violazione di legge” “strictu sensu”facendo rientrare in questo caso solo l’ipotesi in cui, la motivazione del provvedimento, sia “meramente apparente”[24].
E’ evidente di conseguenza, anche in virtù di questo indirizzo “nomofilattico”, l’irragionevolezza della diversa disciplina prevista per il regime carcerario differenziato se si considera che, codesto trattamento restrittivo, viceversa, prevede una limitazione del diritto di impugnazione riconosciuto al detenuto in regime di “carcerazione ordinaria” (e non solo) nella forma più ampia possibile.
Sussistono, pertanto, a modesto avviso dello scrivente, i presupposti per sollevare una “questione di legittimità costituzionale” dell’ art. 41 bis, comma 2 sexies, O.P. per violazione dell’art. 3, comma I, Cost. nella parte in cui non prevede la possibilità di proporre “ricorso per Cassazione” per tutti i motivi indicati dall’art. 606 c.p.p. anziché per la sola “violazione di legge” anche perché, la stessa Suprema Corte di Cassazione, prende atto che invece, il reclamo avverso il provvedimento di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis ord. pen., pur se particolare, resta comunque una “forma di impugnazione, che resta soggetta alla generale disciplina processuale di cui all’art. 581 cod. proc. pen.”[25].