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La “responsabilità” del giudice

I temi della giustizia e della responsabilità civile dei giudici da tempo sono oggetto di attento e critico dibattito.

Senza entrare nel merito degli specifici contenuti delle discussioni in atto che risentono, spesso, delle ideologie e delle posizioni, anche personali, di chi le alimenta o vi partecipa, preme sottolineare in questa sede che non sempre i temi trattati sono visti in un contesto di correttezza e di rispetto delle norme e dei principi quali si desumono dall’ordinamento positivo.

È certamente spropositato, infatti, che si ricolleghi alla responsabilità del magistrato ogni disfunzione o carenza che si riscontra oggi nell’amministrazione della giustizia; come certamente è spropositato considerare il giudice alla stregua di un qualsiasi altro funzionario dello Stato e addebitargli per intero ogni responsabilità scaturente dal suo operato; come, infine, è spropositato escludere del tutto il giudice da ogni responsabilità solo perché assolve alla specifica funzione giurisdizionale.

È indubbio, infatti, che l’articolo 28 della Costituzione, nel sancire la responsabilità civile, penale e amministrativa dei pubblici dipendenti per gli atti compiuti in violazione dei diritti, si indirizza a tutti indistintamente e, nelle linee generali, comprende anche il magistrato atteso che la funzione che lo stesso espleta rientra nel novero delle attività statali promosse per il perseguimento di quei fini di tutela e di giustizia  posti a base della civile convivenza.

Ma è vero anche che il magistrato, pur chiamato ad espletare attività nell’interesse dello Stato, di fatto assolve una funzione (quella giurisdizionale) che, per contenuto e caratteristiche, si differenza completamente e nettamente da quella più propriamente amministrativa svolta dai restanti funzionari pubblici.

Non si tratta, infatti, di operare secondo il diritto e nel rispetto dei  limiti imposti dalle normative in vigore e delle procedure all’uopo previste (come, di norma, avviene in sede di attività amministrativa), ma di applicare “anche” la norma giuridica, previa interpretazione della stessa e con riferimento alle singole fattispecie.

Ne consegue, pertanto, che, proprio per quei fini di giustizia e di legalità, cui si è detto prima, appare “irrinunciabile” l’esigenza di sottrarre il magistrato da ogni possibile condizionamento onde consentirgli l’esercizio delle funzioni che gli competono con l’imparzialità e con la consapevolezza di operare nell’interesse della giustizia  e per il rispetto della legalità.

Non è certamente per caso che la Costituzione distingue la funzione giurisdizionale da tutte le altre (articolo 104) collocando il potere giudiziario su posizioni di autonomia e di indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato sancendo, altresì, che i giudici sono soggetti soltanto alla legge (articolo 101).

Ciò naturalmente non porta a sostenere che taluni, solo perché espletano determinati funzioni, possano di fatto agire con arbitrio o faziosamente. Se così fosse, sarebbe la negazione dello stesso diritto.

Bisogna allora da un lato “salvaguardare” il ruolo del magistrato, quale opportunamente delineato dall’ordinamento positivo e dall’altro “contemperare” tale esigenza con quella, anch’essa prevista dallo stesso ordinamento, di rispondere tutti, e indipendentemente dalle mansioni esercitate, di ogni atto posto in essere in nome e per conto dello Stato.

Il tutto, però, senza pregiudicare quella indipendenza e quella autonomia della magistratura che in uno Stato di diritto e costituzionale costituiscono oggi l’aspetto più qualificante dell’ordinamento giuridico, garante per tutti della migliore tutela possibile in un contesto di legalità e di rispetto dei diritti e delle libertà di ciascuno.

Il problema posto è, pertanto, ben più vasto ed articolato di quello che potrebbe apparire e, di conseguenza, non va affrontato con superficialità né all’insegna della generalizzazione a tutti i costi.

Non a caso la Corte Costituzionale, in più occasioni (Corte Costituzionale, Sentenza n. 2/1968; Corte Costituzionale, Sentenza n. 26/1987), ha ribadito che se è vero che il giudice, al pari di ogni altro dipendente dello Stato, non può completamente sottrarsi alla responsabilità civile per colpa grave è anche vero, però, che ciò deve aversi nei limiti e con la prudenza quali imposti dal ruolo che assolve a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni.

Al momento la responsabilità civile dei magistrati è disciplinata dalla Legge 13 aprile 1988, n. 117, adottata dal Parlamento a seguito dell’esito del referendum, tenutosi in data 8 novembre 1987, che con larga maggioranza (oltre l’80 per cento di SI), aveva abrogato gli articoli 55, 56 e 74 del Codice di Procedura Civile per i quali i giudici potevano rispondere solamente in caso di dolo, frode, concussione e diniego di giustizia mentre erano irresponsabili non solo per colpa, ma addirittura anche per colpa grave.

La nuova disciplina prevede (articolo 2, comma 1) che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali ed anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale”.

Costituisce colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento

d) l’emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Mentre per diniego di giustizia si intende il rifiuto, l’omissione, il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria (articolo 3).

Il secondo comma dell’articolo  2 sancisce, altresì, che “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

L’individuazione del confine tra l’attività interpretativa (non sanzionabile) e quella suscettibile di responsabilità per colpa grave (violazione di legge) ha comportato sin dal’inizio non poche difficoltà.

Nel dibattito che ne è seguito, dopo forti contrapposizioni si è, alla fine, convenuto che l’interpretazione di una norma non è sanzionabile se resta nell’arco dei suoi possibili significati (con riferimento all’elemento lessicale e a quello logico), mentre vi è responsabilità al di fuori dei possibili significati della disposizione come formulata dal legislatore.

In caso di accoglimento dell’istanza di risarcimento promossa dal danneggiato nei confronti dello Stato quest’ultimo, entro un anno dalla conclusione del relativo procedimento, avvenuto sulla base di titolo giudiziario o di titolo stragiudiziale, esercita una limitata azione di rivalsa nei confronti del magistrato nei cui confronti sia stata accertata la relativa responsabilità (articolo 7).

Come è dato chiaramente da vedere il principio base che, in materia di responsabilità civile del magistrato, vige nel nostro ordinamento è che l’azione di risarcimento del danno eventualmente subito dal cittadino  è esperibile da quest’ultimo soltanto nei confronti dello Stato (responsabilità diretta) e solo per le causali quali esplicitate dall’articolo 2, primo comma, della citata Legge n. 117/1988, qualora, cioè, nella condotta del magistrato siano ravvisabili il dolo o la colpa grave ovvero si è di fronte ad un diniego di giustizia nei modi e nei tempi quali esplicitati dall’articolo 3.

I casi nei quali, invece, è possibile far valere il diritto al risarcimento del danno subito direttamente contro il magistrato (oltre che, anche, contro lo Stato) sono limitati alla sola  ipotesi in cui il danno sia la conseguenza di un fatto  costituente reato commesso  dal magistrato stesso  nell’esercizio delle sue funzioni (articolo 13).

Si rappresenta, per ultimo, che l’azione risarcitoria è proponibile dall’avente diritto (il cittadino danneggiato) solo previa verifica di ammissibilità della relativa istanza da parte del tribunale competente. La domanda è inammissibile quando non sono rispettati i termini o i presupposti per l’azione risarcitoria  ovvero quando la stessa è manifestamente infondata (articolo 5).

Sin dal momento della sua entrata in vigore la disciplina in interesse è stata oggetto di non pochi approfondimenti e di forti critiche in considerazione, soprattutto, dello scarso livello di tutela offerto al cittadino danneggiato da provvedimenti imputabili alla responsabilità del magistrato tant’è che, nel tempo, sono state avviate non poche iniziative referendarie finalizzate alla abrogazione delle norme ritenute inadeguate o non sostenibili, tentativi che però non hanno superato l’avallo della Corte Costituzionale che ha, ogni volta, ritenuto inammissibile le proposte per “mancanza di chiarezza del quesito” (Corte Costituzionale, Sentenza n. 34/1997) o perché aventi natura propositiva e non, come richiesto, natura abrogativa (Corte Costituzionale, Sentenza n. 38/2000).

Nel corso del 2013, ad iniziativa dei Radicali, sono state proposte ulteriori consultazioni referendarie sulla giustizia, di cui due riguardanti la responsabilità civile dei magistrati. Le stesse, però, nel dicembre scorso sono state cassate dalla Suprema Corte di Cassazione non avendo raggiunto il quorum di firme quale espressamente richiesto dal primo comma dell’articolo 75 della Costituzione  (500.000 firme).

Col  primo quesito si intendeva abrogare il secondo comma dell’articolo 2 della Legge n. 117/1988, la cosiddetta “clausola di salvaguardia” per la quale “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Per i promotori l’abrogazione di tale clausola avrebbe consentito una più accentuata certezza del diritto prospettandosi la possibilità di prevedere razionalmente le conseguenze giuridiche di un determinato comportamento o fatto, ponendo maggiormente l’accento sulla responsabilità del giudice.

Abrogazione fortemente avversata dal Consiglio Superiore della Magistratura per il quale i magistrati, senza una clausola di salvaguardia, “potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia”.

Col secondo quesito si intendeva sopprimere l’intero articolo 5 che, come noto, prevede, da parte del tribunale competente,  un giudizio di ammissibilità volto a valutare  preventivamente il rispetto dei termini nonché la non manifesta infondatezza della domanda.

Per i promotori la soppressione di tale  giudizio preliminare avrebbe consentito l’eliminazione di una serie di fattori ostativi alla speditezza della domanda di risarcimento dal momento che lo stesso, per certi versi, appare “eccessivamente preclusivo”.

Il mancato raggiungimento del quorum delle firme ha, però, reso vano il tentativo di sottoporre a referendum popolare le norme anzidette.

A conclusione delle presenti note si rappresenta anche che, nel tempo, in sede parlamentare sono state elaborati, da più parti, progetti di  modifica  dell’attuale legge che disciplina la responsabilità civile dei giudici. Ad oggi, però, nessuna di tali proposte si è trasformata in legge e ciò malgrado non poche  indicazioni  provenienti da pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea la cui giurisprudenza  fa emergere, spesso, la non conformità al diritto europeo della normativa italiana in materia di responsabilità civile dei giudice prospettando, di fatto, la necessità di modificare la Legge n. 117/1988 con la previsione di ipotesi di responsabilità dei magistrati ulteriori rispetto a quelle al momento previste.

Ad oggi si registrano anche alcuni interventi della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di talune norme quali l’articolo 16, commi 1 e 2  (sentenza n. 18 del 1989); l’articolo 19, comma 2 (sentenza n. 468 del 1990) e, più recentemente, l’articolo 10, comma 9 (sentenza n. 87 del 2009). Interventi che, riguardando aspetti marginali, non hanno assolutamente messo in discussione  i principi di fondo sui quali si incentra  l’attuale disciplina in materia di “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati” di cui alla Legge 13 aprile 1988, n. 117.

I temi della giustizia e della responsabilità civile dei giudici da tempo sono oggetto di attento e critico dibattito.

Senza entrare nel merito degli specifici contenuti delle discussioni in atto che risentono, spesso, delle ideologie e delle posizioni, anche personali, di chi le alimenta o vi partecipa, preme sottolineare in questa sede che non sempre i temi trattati sono visti in un contesto di correttezza e di rispetto delle norme e dei principi quali si desumono dall’ordinamento positivo.

È certamente spropositato, infatti, che si ricolleghi alla responsabilità del magistrato ogni disfunzione o carenza che si riscontra oggi nell’amministrazione della giustizia; come certamente è spropositato considerare il giudice alla stregua di un qualsiasi altro funzionario dello Stato e addebitargli per intero ogni responsabilità scaturente dal suo operato; come, infine, è spropositato escludere del tutto il giudice da ogni responsabilità solo perché assolve alla specifica funzione giurisdizionale.

È indubbio, infatti, che l’articolo 28 della Costituzione, nel sancire la responsabilità civile, penale e amministrativa dei pubblici dipendenti per gli atti compiuti in violazione dei diritti, si indirizza a tutti indistintamente e, nelle linee generali, comprende anche il magistrato atteso che la funzione che lo stesso espleta rientra nel novero delle attività statali promosse per il perseguimento di quei fini di tutela e di giustizia  posti a base della civile convivenza.

Ma è vero anche che il magistrato, pur chiamato ad espletare attività nell’interesse dello Stato, di fatto assolve una funzione (quella giurisdizionale) che, per contenuto e caratteristiche, si differenza completamente e nettamente da quella più propriamente amministrativa svolta dai restanti funzionari pubblici.

Non si tratta, infatti, di operare secondo il diritto e nel rispetto dei  limiti imposti dalle normative in vigore e delle procedure all’uopo previste (come, di norma, avviene in sede di attività amministrativa), ma di applicare “anche” la norma giuridica, previa interpretazione della stessa e con riferimento alle singole fattispecie.

Ne consegue, pertanto, che, proprio per quei fini di giustizia e di legalità, cui si è detto prima, appare “irrinunciabile” l’esigenza di sottrarre il magistrato da ogni possibile condizionamento onde consentirgli l’esercizio delle funzioni che gli competono con l’imparzialità e con la consapevolezza di operare nell’interesse della giustizia  e per il rispetto della legalità.

Non è certamente per caso che la Costituzione distingue la funzione giurisdizionale da tutte le altre (articolo 104) collocando il potere giudiziario su posizioni di autonomia e di indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato sancendo, altresì, che i giudici sono soggetti soltanto alla legge (articolo 101).

Ciò naturalmente non porta a sostenere che taluni, solo perché espletano determinati funzioni, possano di fatto agire con arbitrio o faziosamente. Se così fosse, sarebbe la negazione dello stesso diritto.

Bisogna allora da un lato “salvaguardare” il ruolo del magistrato, quale opportunamente delineato dall’ordinamento positivo e dall’altro “contemperare” tale esigenza con quella, anch’essa prevista dallo stesso ordinamento, di rispondere tutti, e indipendentemente dalle mansioni esercitate, di ogni atto posto in essere in nome e per conto dello Stato.

Il tutto, però, senza pregiudicare quella indipendenza e quella autonomia della magistratura che in uno Stato di diritto e costituzionale costituiscono oggi l’aspetto più qualificante dell’ordinamento giuridico, garante per tutti della migliore tutela possibile in un contesto di legalità e di rispetto dei diritti e delle libertà di ciascuno.

Il problema posto è, pertanto, ben più vasto ed articolato di quello che potrebbe apparire e, di conseguenza, non va affrontato con superficialità né all’insegna della generalizzazione a tutti i costi.

Non a caso la Corte Costituzionale, in più occasioni (Corte Costituzionale, Sentenza n. 2/1968; Corte Costituzionale, Sentenza n. 26/1987), ha ribadito che se è vero che il giudice, al pari di ogni altro dipendente dello Stato, non può completamente sottrarsi alla responsabilità civile per colpa grave è anche vero, però, che ciò deve aversi nei limiti e con la prudenza quali imposti dal ruolo che assolve a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni.

Al momento la responsabilità civile dei magistrati è disciplinata dalla Legge 13 aprile 1988, n. 117, adottata dal Parlamento a seguito dell’esito del referendum, tenutosi in data 8 novembre 1987, che con larga maggioranza (oltre l’80 per cento di SI), aveva abrogato gli articoli 55, 56 e 74 del Codice di Procedura Civile per i quali i giudici potevano rispondere solamente in caso di dolo, frode, concussione e diniego di giustizia mentre erano irresponsabili non solo per colpa, ma addirittura anche per colpa grave.

La nuova disciplina prevede (articolo 2, comma 1) che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali ed anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale”.

Costituisce colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento

d) l’emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Mentre per diniego di giustizia si intende il rifiuto, l’omissione, il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria (articolo 3).

Il secondo comma dell’articolo  2 sancisce, altresì, che “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

L’individuazione del confine tra l’attività interpretativa (non sanzionabile) e quella suscettibile di responsabilità per colpa grave (violazione di legge) ha comportato sin dal’inizio non poche difficoltà.

Nel dibattito che ne è seguito, dopo forti contrapposizioni si è, alla fine, convenuto che l’interpretazione di una norma non è sanzionabile se resta nell’arco dei suoi possibili significati (con riferimento all’elemento lessicale e a quello logico), mentre vi è responsabilità al di fuori dei possibili significati della disposizione come formulata dal legislatore.

In caso di accoglimento dell’istanza di risarcimento promossa dal danneggiato nei confronti dello Stato quest’ultimo, entro un anno dalla conclusione del relativo procedimento, avvenuto sulla base di titolo giudiziario o di titolo stragiudiziale, esercita una limitata azione di rivalsa nei confronti del magistrato nei cui confronti sia stata accertata la relativa responsabilità (articolo 7).

Come è dato chiaramente da vedere il principio base che, in materia di responsabilità civile del magistrato, vige nel nostro ordinamento è che l’azione di risarcimento del danno eventualmente subito dal cittadino  è esperibile da quest’ultimo soltanto nei confronti dello Stato (responsabilità diretta) e solo per le causali quali esplicitate dall’articolo 2, primo comma, della citata Legge n. 117/1988, qualora, cioè, nella condotta del magistrato siano ravvisabili il dolo o la colpa grave ovvero si è di fronte ad un diniego di giustizia nei modi e nei tempi quali esplicitati dall’articolo 3.

I casi nei quali, invece, è possibile far valere il diritto al risarcimento del danno subito direttamente contro il magistrato (oltre che, anche, contro lo Stato) sono limitati alla sola  ipotesi in cui il danno sia la conseguenza di un fatto  costituente reato commesso  dal magistrato stesso  nell’esercizio delle sue funzioni (articolo 13).

Si rappresenta, per ultimo, che l’azione risarcitoria è proponibile dall’avente diritto (il cittadino danneggiato) solo previa verifica di ammissibilità della relativa istanza da parte del tribunale competente. La domanda è inammissibile quando non sono rispettati i termini o i presupposti per l’azione risarcitoria  ovvero quando la stessa è manifestamente infondata (articolo 5).

Sin dal momento della sua entrata in vigore la disciplina in interesse è stata oggetto di non pochi approfondimenti e di forti critiche in considerazione, soprattutto, dello scarso livello di tutela offerto al cittadino danneggiato da provvedimenti imputabili alla responsabilità del magistrato tant’è che, nel tempo, sono state avviate non poche iniziative referendarie finalizzate alla abrogazione delle norme ritenute inadeguate o non sostenibili, tentativi che però non hanno superato l’avallo della Corte Costituzionale che ha, ogni volta, ritenuto inammissibile le proposte per “mancanza di chiarezza del quesito” (Corte Costituzionale, Sentenza n. 34/1997) o perché aventi natura propositiva e non, come richiesto, natura abrogativa (Corte Costituzionale, Sentenza n. 38/2000).

Nel corso del 2013, ad iniziativa dei Radicali, sono state proposte ulteriori consultazioni referendarie sulla giustizia, di cui due riguardanti la responsabilità civile dei magistrati. Le stesse, però, nel dicembre scorso sono state cassate dalla Suprema Corte di Cassazione non avendo raggiunto il quorum di firme quale espressamente richiesto dal primo comma dell’articolo 75 della Costituzione  (500.000 firme).

Col  primo quesito si intendeva abrogare il secondo comma dell’articolo 2 della Legge n. 117/1988, la cosiddetta “clausola di salvaguardia” per la quale “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Per i promotori l’abrogazione di tale clausola avrebbe consentito una più accentuata certezza del diritto prospettandosi la possibilità di prevedere razionalmente le conseguenze giuridiche di un determinato comportamento o fatto, ponendo maggiormente l’accento sulla responsabilità del giudice.

Abrogazione fortemente avversata dal Consiglio Superiore della Magistratura per il quale i magistrati, senza una clausola di salvaguardia, “potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia”.

Col secondo quesito si intendeva sopprimere l’intero articolo 5 che, come noto, prevede, da parte del tribunale competente,  un giudizio di ammissibilità volto a valutare  preventivamente il rispetto dei termini nonché la non manifesta infondatezza della domanda.

Per i promotori la soppressione di tale  giudizio preliminare avrebbe consentito l’eliminazione di una serie di fattori ostativi alla speditezza della domanda di risarcimento dal momento che lo stesso, per certi versi, appare “eccessivamente preclusivo”.

Il mancato raggiungimento del quorum delle firme ha, però, reso vano il tentativo di sottoporre a referendum popolare le norme anzidette.

A conclusione delle presenti note si rappresenta anche che, nel tempo, in sede parlamentare sono state elaborati, da più parti, progetti di  modifica  dell’attuale legge che disciplina la responsabilità civile dei giudici. Ad oggi, però, nessuna di tali proposte si è trasformata in legge e ciò malgrado non poche  indicazioni  provenienti da pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea la cui giurisprudenza  fa emergere, spesso, la non conformità al diritto europeo della normativa italiana in materia di responsabilità civile dei giudice prospettando, di fatto, la necessità di modificare la Legge n. 117/1988 con la previsione di ipotesi di responsabilità dei magistrati ulteriori rispetto a quelle al momento previste.

Ad oggi si registrano anche alcuni interventi della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di talune norme quali l’articolo 16, commi 1 e 2  (sentenza n. 18 del 1989); l’articolo 19, comma 2 (sentenza n. 468 del 1990) e, più recentemente, l’articolo 10, comma 9 (sentenza n. 87 del 2009). Interventi che, riguardando aspetti marginali, non hanno assolutamente messo in discussione  i principi di fondo sui quali si incentra  l’attuale disciplina in materia di “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati” di cui alla Legge 13 aprile 1988, n. 117.