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La successione penale delle leggi al tempo del Covid-19

successione leggi
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Il Covid-19 sta sottoponendo ad un forte stress-test non solo le strutture sanitarie italiane, ma anche le istituzioni dello Stato. Difatti, con l’espandersi dell’epidemia e con l’aggravarsi della situazione, si sono accavallati in pochissimi giorni – meno di un mese – numerosi atti normativi, provenienti da più organi, con cui sono stati predisposti precetti, divieti e persino suggerimenti nei confronti del cittadino, la cui violazione è stata accompagnata dapprima da sanzioni di rilievo penale ed ora di natura amministrativa.

Di talché si è creata confusione e non è ben chiaro – all’interprete giurista, come al quivis de populo – quale sanzione possa essere applicata, specie nel caso in cui una persona disattenda le prescrizioni imposte dall’autorità in materia di libertà di movimento ed esca dalla propria abitazione per motivi che non siano di salute, necessità o di lavoro. 

Non è compito di questo contributo fare una disamina sulle sanzioni previste dai vari provvedimenti normativi succedutisi. Invero, si propone di fare chiarezza circa la successione delle norme nel tempo in materia penale, specie alla luce del Decreto-legge 25 Marzo 2020, che al momento della pubblicazione di questo contributo cristallizza lo stato dell’arte.

Occorre, comunque, brevemente esplicitare che gli interpreti si sono orientati nel ritenere sussumibile nell’ambito di un reato contravvenzionale – e cioè l’articolo 650 Codice Penale,  rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità” – la condotta di colui che non osserva il provvedimento emanato dall’Autorità, prescindendo dal fatto che tale provvedimento abbia forza di legge – come hanno i decreti legge – o di mero atto amministrativo – quali sono i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. In tal senso, tale reato è fatto proprio espressamente dall’articolo 3, comma 4, del Decreto-Legge 23 febbraio 2020, n. 6, e dall’articolo 4, comma 2, del DPCM 8 marzo 2020.

Tale contravvenzione, però, all’occhio dei giuristi più raffinati – e di molte Procure della Repubblica – che ben conoscono la realtà pratica del processo penale, è parsa inadeguata rispetto al contesto, per una pluralità di ragioni. Perciò, alcuni uffici giudiziari hanno proposto interpretazioni alternative: è il caso della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, che ha proposto l’articolo 260 del Testo unico delle leggi sanitarie (TULS), che punisce chi non osserva un ordine "legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva”.

Tuttavia, anche tale interpretazione presenta delle problematiche, giacché l’articolo 260 TULS è norma risalente al legislatore del ventennio, e in molti la tacciano di dubbia costituzionalità.

Oltre a ciò, il legislatore ha, fino all’entrata in vigore del Decreto-legge 25 marzo 2020 n. 19, come si è visto, previsto espressamente l’applicazione dell’articolo 650 Codice Penale, e non di altri reati. Da ultimo, tale reato sembra più facilmente applicabile alle fattispecie di inottemperanza del periodo di quarantena legalmente imposto, come ha previsto infine il Decreto-legge 25 marzo 2020, prevedendo che si applichi per le violazioni del “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus”.

A queste problematiche giuridiche, sollecitato dai vari formanti, l’Esecutivo ha risposto con il citato Decreto-legge 25 Marzo 2020, con la previsione secondo cui il mancato rispetto delle misure di contenimento, limitanti la libertà di movimento, sia punibile con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 400 a 3.000 euro, salvo che il fatto non costituisca reato.

Appare chiaro, quindi, che il legislatore abbia approntato una depenalizzazione del reato, con contestuale introduzione di un illecito amministrativo, operando perciò una successione mediata di leggi penali. Con ciò si intende dire che si è verificato un fenomeno successorio, in cui a mutare non sono state le disposizioni incriminatrici - l’articolo 650 Codice Penale non è stato abrogato - bensì sono mutate le disposizioni esterne ad esse (come, appunto, i Decreti-Legge e i DPCM), che al contempo le richiamavano a qualificare un elemento normativo della fattispecie.

A questo punto, l’interrogativo principale che ci si pone è se tale vicenda successoria possa essere inquadrata nell’ambito dell’articolo 2 Codice Penale, comma II, che sancisce il principio di retroattività della norma penale abolitrice dell’incriminazione, applicando la norma abolitrice più favorevole, oppure nelle fattispecie di cui all’articolo 2, comma V, Codice Penale e articolo 14 Disp. Preliminari al Codice Civile (c.d. “Preleggi”), che disciplinano l’applicazione delle leggi eccezionali e temporanee.

Dapprima, si potrebbe sostenere che la legislazione creata per contrastare la diffusione del coronavirus sia composta di norme penali eccezionali e temporanee.

L’articolo 2, comma 5, Codice Penale, statuisce che “se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti”, introducendo così un regime derogatorio per le leggi eccezionali e temporanee, che saranno sostenute dal principio del tempus regit actum.

Secondo l’articolo 14 delle Preleggi, rubricato Applicazione delle leggi penali ed eccezionali”, «le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati».

Ma cosa si intende per legge eccezionale e/o temporanea? 

Il carattere di temporaneità è chiarito dalla relazione ai “Lavori preparatori del Codice penale”, secondo cui si definiscono leggi temporanee, ex articolo 2, comma V, «quelle che hanno vigore entro un limite di tempo da esse stesse determinato» (cfr. vol. V, parte I, p. 24), mentre l’eccezionalità è dovuta ad un ambito di operatività temporale in cui insiste uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dal comune, come potrebbe ben essere un’epidemia.

Ma ci sono vari motivi per ritenere che la normativa in tema di coronavirus non abbia questi caratteri. 

In primis, il successivo comma VI dell’articolo 2 Codice Penale prevede che anche alle norme penali introdotte con decreto legge si applichi la disciplina di cui all’articolo 2, comma II, Codice Penale.

Oltre a questo, è evidente come il Decreto-legge 23 febbraio 2020 non abbia introdotto la fattispecie di cui all’articolo 650 Codice Penale, ma ne abbia solo richiamato l’applicazione. L’articolo 650 Codice Penale era previgente rispetto all’epidemia, e presumibilmente esisterà successivamente ad essa. Addirittura, avrebbe potuto essere applicato anche senza essere stato richiamato espressamente, in quanto norma penale “in bianco”, la cui descrizione del precetto è pertanto affidata a norme extrapenali, che si possono riferire potenzialmente a qualsiasi inottemperanza di un provvedimento legalmente dato dall’Autorità.

È chiaro, quindi, che il Decreto-legge citato non abbia introdotto alcuna norma penale eccezionale e temporanea. Pertanto, la depenalizzazione dell’inottemperanza al provvedimento dell’Autorità in materia di contenimento della libertà di movimento dovuto all’emergenza epidemiologica è un fenomeno da inquadrarsi nell’ambito della c.d. successione mediata della legge nel tempo. Con questa dicitura, si intende quel fenomeno per cui a mutare non sono le disposizioni incriminatrici, bensì disposizioni esterne ad esse e, al contempo, da queste richiamate a qualificare un elemento normativo della fattispecie.

Infatti, l’opinione maggioritaria è positiva circa l’applicazione dell’articolo 2 Codice Penale, comma II, per il caso in cui la norma successiva abolitrice preveda anche l’introduzione di un illecito amministrativo (cfr. Trib. Milano, sent. 1° marzo 2001), ma ci si è chiesto se il Giudice, in tale ipotesi, nel pronunciare sentenza di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, debba applicare la neo-introdotta sanzione amministrativa.

La risposta a tale quesito ci è data dalle Sezioni Unite della Cassazione che, con sentenza 28 giugno 2012, n. 25457, hanno affermato che l’Autorità giudiziaria che assolve l’imputato per sopravvenuta depenalizzazione del fatto non deve trasmettere gli atti all’autorità amministrativa per l’irrogazione della relativa sanzione, in assenza di disposizioni transitorie ad hoc nella legge di depenalizzazione. Difatti, vi sarebbe di ostacolo il principio di irretroattività dell’illecito amministrativo, come sancito dall’articolo 1 Legge 689/1981 (c.d. legge di depenalizzazione), e perciò non si potrebbe far retroagire l’operatività di una nuova sanzione amministrativa. 

A far da contraltare a ciò, però, vi è la ratio legis immanente a quasi tutti i fenomeni di depenalizzazione e cioè di attenuare gli effetti sanzionatori di un fatto che rimane illecito, senza eliminarli del tutto. Come conciliare questa ratio con le esigenze di garanzia sanzionatoria del processo penale? La Suprema Corte ritiene che il Giudice penale non può trasmettere gli atti all’Autorità amministrativa, se non alla condizione che la legge di depenalizzazione abbia previsto espressamente questa possibilità, per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore

Rapportando tutto ciò alle norme emergenziali per contrastare il coronavirus, è evidente che il legislatore ha fatto tesoro di questa sentenza, poiché il Decreto-legge 25 marzo 2020 prevede, nel proprio testo, la necessaria disciplina transitoria.

Difatti, l’articolo 4, comma VIII, del Decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, statuisce che: «Le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni degli articoli 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507».

Le conseguenze sono facilmente prevedibili:

  • il Giudice penale – perlopiù il Giudice per le indagini preliminari – alternativamente procederà alla archiviazione del procedimento o applicherà l’articolo 129 Codice Procedura Penale e pronuncerà sentenza di assoluzione perché rileverà che il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Nel dichiarare l’archiviazione o l’assoluzione, potrà trasmettere gli atti all’autorità amministrativa competente, cioè al Prefetto;
  • sono stati iniziati circa 100.000 procedimenti penali invano, con tantissimo lavoro inutile da parte delle Autorità inquirenti e della polizia giudiziaria. Basti pensare, a titolo esemplificativo, per ogni procedimento, all’invio della notizia di reato, all'acquisizione del certificato di nascita e residenza, al casellario, all'assegnazione ad un sostituto procuratore, al verbale di identificazione, all’elezione di domicilio e notifica al difensore di ufficio;
  • si è rinunciato a fornire al cittadino un equo procedimento penale, in favore di una sanzione amministrativa. La seconda offre molte meno possibilità di tutela al sanzionato, anche solo per il fatto che in un procedimento penale vi è un Giudice.

In attesa di ulteriori sviluppi legislativi, e dei primi sviluppi giurisprudenziali relativi alle tristi vicende di questi tempi, appaiono pertanto già chiare alcune delle grosse problematiche che gli interpreti si troveranno ad affrontare.