x

x

La tela di Penelope dell’arbitrato delle opere pubbliche. Il Decreto Legislativo 20 marzo 2010 n.53: Ulisse non è ancora giunto ad Itaca!

[Intervento tenuto il 7 maggio 2010 nel corso di perfezionamento organizzato dall’Università di Bari, dalla Facoltà di Giurisprudenza, sede di Taranto, dalla Sezione Puglia de la Cour Européenne d’Arbitrage de Strasbourg, dal CEDICLO, dalla Scuola Forense dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, dalla Provincia di Taranto e dal Comune di Taranto sul macrotema Dignità dell’uomo: migrazione, mediazione, arbitrati]

Sommario:

1. Premesse

2. Considerazioni sul carattere generalizzato dell’arbitrato nell’ambito della giurisdizione amministrativa

3. L’arbitrato e la materia delle OO.PP.

4. L’arbitrato nella Merloni

5. L’arbitrato facoltativo nelle previsioni della Merloni

6. L’ambito oggettivo delle controversie deferibili ad arbitri

7. La disciplina della Camera arbitrale per i LL.PP.

8. L’intervento del Consiglio di Stato

9. La disciplina postulata dall’art. 5, commi 16-sexies e 16-septies della L. 14.5.2005 n°80 e dall’art.1, commi 70 e 71 della L. 23.12.2005 n°266

10. Il regime previsto dal D.Lgs 12.4.2006 n°163 dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE

11. Il divieto (assurdo) per le P.A. di far ricorso all’istituto arbitrale ed il suo superamento.

12. Il D.Lgs 20.3.2010 n°53 di attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici e la sua forza razionalizzatrice nei confronti dell’arbitrato. Le nuove disposizioni in materia di arbitrato

1. Premesse

L’odierno argomento è per me, da tempo, oggetto di un interesse che ho, peraltro, rappresentato in precedenti scritti[1].

In entrambe quelle occasioni di riflessione ho cercato di evidenziare come l’arbitrato nella materia dei LL.PP., ancorché da più di un secolo si sia connotato come soluzione ampiamente praticata per la risoluzione delle controversie tra P.A. ed appaltatori, costituisce ancor oggi il nodo focale di una vicenda particolarmente travagliata che soltanto con l’introduzione delle disposizioni del codice dei contratti pubblici, di lavori e forniture[2] era sembrato avviarsi a più razionale soluzione, anche se non sono mancate spinte oscurantiste tendenti a ridimensionare la funzione ed il ruolo che il codice “de Lise” ha inteso conferire all’istituto; spinte negative che, per fortuna, il D.Lgs. n°53/10, ha obiettivamente contrastato con l’introduzione[3] di norme, seppure oggettivamente non risolutive del problema, comunque tendenzialmente votate ad infondere maggior coerenza logica all’arbitrato.

2. Considerazioni sul carattere generalizzato dell’arbitrato nell’ambito della giurisdizione amministrativa

L’art. 6, 2° comma, della L. n°205/00 - ponendo ragionevolmente fine ad un lungo e tormentato dibattito dottrinario e sulla scorta di due semplici ma efficaci considerazioni secondo le quali l’art. 806 c.p.c. non contiene alcuna preclusione sulla compromettibilità di controversie affidate alla giurisdizione di un giudice diverso da quello ordinario e sulla assoluta inesistenza di qualsivoglia indisponibilità dell’interesse pubblico a risolvere in via alternativa a quella giustiziale situazioni di diritto soggettivo in cui la P.A. si trova ad agire nel contesto di rapporti paritetici - introduce l’importante novità rappresentata dal fatto che “le controversie concernenti diritti soggettivi (disponibili) devoluti alla giurisdizione esclusiva del G.A. possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto” che si svolge con le regole del c.p.c. per ciò che riguarda il compromesso (ossia la decisione ormai vietata di deferire ad arbitri una lite già insorta) o la clausola compromissoria, le controversie arbitrabili[4], le modalità di nomina degli arbitri ed il procedimento che gli arbitri stessi sono tenuti ad osservare.

In ordine a siffata novità, costituita dall’introduzione della facoltà di ricorso all’istituto dell’arbitrato, la giurisprudenza del Consiglio di Stato[5] si è subito espressa nel senso di ammettere la compromissibilità in arbitri di quelle vertenze il cui oggetto è ravvisabile nel danno patrimoniale che il titolare assume di aver subito, in conseguenza dell’ accertata illegittimità dell’ esercizio della funzione pubblica, ovvero in quelle nelle quali le pretese patrimoniali nascano da un rapporto convenzionale del quale non si contesta la legittimità, ma si reclama la pretesa di una sua corretta esecuzione.

In applicazione del disposto normativo testè enunciato, nell’ambito di controversie relative a diritti soggettivi ed in presenza di compromesso (oggi vietato) o di clausola compromissoria che richieda un arbitrato rituale di diritto, e sempreché sia ritualmente posta la relativa eccezione, il G. A. non può fare altro che declinare la propria competenza in favore di quella degli arbitri.

Infatti allorquando le parti in causa eccepiscano la sussistenza di un accordo per la devoluzione della controversia ad arbitrato rituale, sono tenuti a formulare una formale eccezione di incompetenza del G.A., che per il carattere relativo e derogabile di cui è connotata, va tassativamente proposta in limine litis, non potendo essere, in alcun caso, rilevata di ufficio né rilevata per la prima volta in appello.

Nessun obbligo di devoluzione agli arbitri della vicenda contenziosa sorge, invece, nel G.A. a seguito di eccezione che fa leva sulla pattuizione di un arbitrato irrituale, non essendo quest’ultima idonea ad inibire l’esercizio della funzione giurisdizionale.

La distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale va definita avuto riguardo al contenuto oggettivo del compromesso (come si è detto oggi ormai vietato) o della clausola compromissoria ed alla volontà delle parti nel senso che deve ritenersi che le parti medesime abbiano voluto far ricorso ad un arbitrato rituale laddove si possa evincere che le stesse hanno inteso attribuire agli arbitri una funzione sostitutiva a quella del giudice, mentre, invece, si ritiene che detta volontà sia indirizzata verso l’arbitrato irrituale quando è palese la loro intenzione di demandare agli arbitri il compito di dare contenuto ad un accordo transattivo sottoscritto dalle parti.

Non è inutile riferire che ove permangano dubbi sulla natura dell’arbitrato – in considerazione della eccezionalità che l’arbitrato rituale riveste nel sistema della giurisdizione pubblica, di cui costituisce palese momento di deroga – si deve concludere nel senso che le parti abbiano voluto dar vita ad un arbitrato irrituale.

In ordine alle modalità per lo svolgimento dell’eccezione, la competenza degli arbitri va sollevata mediante l’atto di costituzione in giudizio o con memoria.

Con espresso riferimento all’individuazione del giudice competente a ricevere la impugnazione del lodo si è oggi ormai consolidato il principio, anche in forza della lettera della legge[6], che esso sia la Corte di Appello competente per territorio.

In verità non appare questa la soluzione più corretta, ma piuttosto quella individuata da non secondaria dottrina[7] e da autorevole giurisprudenza del G.A[8] secondo la quale, nelle materie oggetto di giurisdizione esclusiva, va inteso quale organo giustiziale competente per l’appello, il Consiglio di Stato, non essendo revocabile in dubbio che il lodo arbitrale debba essere equiparato ad una sentenza di primo grado e che non possono, le relative controversie, che essere definite, in sede di impugnazione all’interno della giurisdizione amministrativa non risultando di alcuna logicità modificare le regole sul riparto della giurisdizione.

La diversa soluzione scelta dal legislatore di attribuire, a seguito dell’impugnazione del lodo, la risoluzione della controversia al giudice ordinario piuttosto che al giudice amministrativo lascia significativi dubbi sulla costituzionalità della indicazione normativa rispetto al criterio postulato dalla Carta in ordine al riparto della giurisdizione, atteso che la devoluzione ad arbitri determina non soltanto la scelta delle parti di utilizzazione di una modalità di risoluzione delle controversie alternativa alla giurisdizione statuale, ma anche un ingiustificato spostamento dall’uno all’altro giudice, in deroga al criterio normativo del riparto.

Analoghi problemi sorgono tanto in relazione all’esecuzione del lodo arbitrale che in ordine all’adattamento delle disposizioni dettate per l’arbitrato rituale dal c.p.c. nei confronti dell’arbitrato avente ad oggetto materie della giurisdizione esclusiva del G.A.

Va ancora detto che per quanto attiene al regime transitorio relativo alla validità delle clausole arbitrali – nelle materie oggetto di giurisdizione esclusiva – stipulate prima dell’entrata in vigore della L.n°205/00, la giurisprudenza[9] ha ritenuto che siffatte clausole, ancorché all’epoca nulle, devono ritenersi sanate e valide per effetto dell’intervenuto art.6 della L.n°205/00.

3. L’arbitrato e la materia delle opere pubbliche

L’istituto in parola, ancorché per più di un secolo abbia rappresentato una soluzione ampiamente praticata per la risoluzione delle controversie tra P.A. ed appaltatori di OO.PP., al contrario dell’arbitrato di diritto comune, che ha trovato nella disciplina del c.p.c. compiuta ed articolata organizzazione sistematica, sino al tentativo determinatosi a seguito dell’entrata in vigore della legge Merloni e del successivo regolamento di attuazione, non ha mai avuto una regolazione di pari armonica organicità.

La riprova di siffatta rilevata assenza di definita organicità la si riscontra ricostruendo le vicende dell’istituto nel settore delle OO.PP.[10]

Invero se si va indietro nel tempo si può riscontrare come prima del 1865 le vertenze nella materia, risultavano appannaggio della cognizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo.

Successivamente la L.20.3.1865 n°2248 che con l’art.2, all. E affidava la cognizione delle riferite controversie al giudice ordinario, ha stabilito, con l’art.349 all. F, che nei capitolati di appalto si potesse prevedere che “… le questioni tra l’Amministrazione e gli appaltatori siano decise da arbitri” .

Sicchè per la diffidenza che la P.A. ha avuto sempre nei confronti del giudice ordinario - tant’è che siffatta situazione di sospetto ha storicamente originato la figura dell’interesse legittimo, come ambito di azione sottratto al sindacato dell’A.G.O. – la previsione del ricorso all’istituto arbitrale in materia di OO.PP., quale sistema alternativo alla giurisdizione ordinaria, non costituisce altro che la conferma di tale atteggiamento di sfiducia verso una giurisdizione che ancora oggi essa P.A. continua a non sentire come sua.

La norma che ha consentito di adire all’istituto arbitrale è stata introdotta prima nei capitolati speciali e poi in quello generale del Ministero dei LL.PP. del 1889 e del 1895.

Successivamente l’istituto arbitrale ha trovato spazio e collocazione pure nel settore dei servizi pubblici anche se, per vero, la sua connotazione peculiare in quell’epoca è stata quella di risultare apparentemente come libera convenzione fra le parti, ma, in realtà, essere un obbligo “… imposto forzatamente dallo Stato a chi contrae con le sue Amministrazioni”.

Il D.P.R. 16.7.1962 n°1063, che pure con l’art.43 ha disposto che “… tutte le controversie tra la P.A. e l’appaltatore … che non si sono potute definire in via amministrativa …sono deferite … al giudizio di cinque arbitri”, con il successivo art.47, ha, tuttavia, attenuato il rappresentato carattere, ha previsto per entrambe le parti la possibilità di derogare alla competenza arbitrale: per l’attore attraverso la proposizione di azione diretta davanti al giudice ordinario; mentre, per il convenuto, ha disposto l’esclusione di detta competenza con la notifica di apposita “declinatoria” nel termine di trenta giorni dalla proposizione della domanda.

Il riferito facoltativo quadro previsionale, però, è stato successivamente intaccato dalla statuizione dell’art.16 della L.10.12.1981 n°741, secondo la quale “la competenza arbitrale può essere esclusa soltanto con apposita clausola inserita nel bando o nell’invito di gara, oppure nel contratto in caso di trattativa privata”.

Siffatta proposizione normativa dimostra viepiù il favore del legislatore dell’epoca nei confronti della procedura arbitrale.

In buona sostanza l’adozione di detta procedura si determinava come obbligatoria per il privato, atteso che la stessa poteva essere evitata unicamente dalla stazione appaltante e soltanto nella fase inziale della gara.

La ricordata disposizione dell’art.47, così come sostituito dall’art.16 della ricordata L. n°741/81 è stata dichiarata incostituzionale dal giudice delle leggi[11], il quale ha ritenuto che siffatta disposizione, attribuendo di fatto soltanto alla P.A. la possibilità di scegliere di ricorrere alla competenza arbitrale, escludendo, invece, tale facoltà di scelta, abbia introdotto un arbitrato sostanzialmente obbligatorio.

In ragione di ciò, infatti, al cospetto di un arbitrato sostanzialmente obbligatorio, la Consulta si è pronunciata nel senso di definire costituzionalmente illegittima la norma nella parte in cui non ha previsto l’esercizio della deroga alla competenza arbitrale per entrambe le parti.

4. L’arbitrato nella Merloni

L’analisi della legge quadro sui LL.PP.[12] rileva uno ondivago atteggiamento del legislatore il quale passa da una espressa volontà di rifiuto dell’istituto arbitrale[13] alla

delineazione di un arbitrato c.d. “amministrato” la cui disciplina è stata regolata dall’art.32 della Merloni, così come modificato dall’art.10 della L.18.11.1998 n°415, dagli artt. 149, 150 e 151 del regolamento (approvato con D.P.R. 21.12.1999 n°554), dagli articoli che vanno dall’1 al 12 del regolamento di procedura del giudizio arbitrale (D.M. della Giustizia del 2.12.2000 n°398), dagli artt.32, 33 e 34 del capitolato generale d’appalto dei LL.PP. (D.M. LL.PP. 19.4.2000 n°145), dall’art. 5, commi 16-sexies e 16-septies della L.14.5.2005 n°80 e dall’art. 1, commi 70 e 71 della L.23.12.2005 n°266.

Il complesso di siffatte riferite previsioni sostituendo in radice l’originaria formulazione dell’art.32 della Merloni, in stretta aderenza al principio della facoltatività più volte richiamato, ha stabilito che tutte le controversie derivanti dalla mancata esecuzione del contratto, ivi comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario può ben essere deferito agli arbitri.

In buona sostanza in presenza di situazioni conflittuali generati dalla esecuzione del contratto non sussiste più alcun limite alla possibilità di ricorso all’istituto dell’arbitrato.

5. L’arbitrato facoltativo nelle previsioni della Merloni

L’art.32 della Merloni-ter esplicita in maniera inequivoca e definitiva il carattere facoltativo dell’arbitrato allorché dispone che le controversie discendenti dall’esecuzione dell’appalto “possono essere deferite ad arbitri”.

Alla luce della prefata disposizione e dell’art.150 del regolamento di attuazione approvato con D.P.R. n°554/99[14], la disciplina per lo svolgimento dell’arbitrato risulta essere quella propria del c.p.c., poiché la forma di arbitrato prevista dalla legge quadro si fonda sulla concorde volontà delle parti di devolvere la risoluzione delle controversie che dovessero insorgere tra la stazione appaltante e l’appaltatore nella interpretazione e nella esecuzione del contratto ad arbitri, mediante la previsione di una clausola compromissoria, ovvero la stipula di un compromesso (oggi vietato) a controversia già insorta.

Anche se la legge parla di “atti contrattuali” non è escluso che la possibilità di adire all’arbitrato sia contenuta anche nel bando di gara o nella lettera di invito o nel capitolato, ma tale possibilità deve necessariamente essere completata nel senso che in detti atti deve essere palesemente riferito che l’arbitrato è facoltativo e che a tale espressione l’appaltatore deve dare il proprio consenso attraverso l’inserimento della clausola compromissoria nel contratto di appalto, ovvero la stipula di compromesso (oggi vietato) a controversia già insorta.

Di talchè non appare condivisibile quanto stabilito dall’Autorità per la vigilanza sui LL. PP. allorquando negli schemi da essa predisposti affidava, in maniera apodittica alla scelta unilaterale della P.A., il deferimento o meno delle controversie ad arbitri[15].

Fra l’altro l’operato della ricordata Autorità di assegnare alla unilaterale scelta della stazione appaltante la possibilità del ricorso all’istituto arbitrale, cozza con la già richiamata decisione n°152/96 del giudice delle leggi, la quale, proprio con espresso riferimento al problema delle clausole compromissorie imposte dai bandi di gara, nei casi in cui il contratto sia predisposto dalla P.A., ha espressamente concluso che è, in ogni caso, necessario garantire il rispetto del “principio essenziale della effettiva e libera volontà di ciascuna parte sulla scelta della competenza”.

Ne consegue che ben può la P.A. dichiarare di non voler accedere alla procedura arbitrale, poiché per adire alla stessa occorre la volontà espressa di entrambi i contraenti, ma se vuole accedere è necessario avere il consenso dell’appaltatore per poter inserire apposita clausola per deferire ad arbitri le eventuali controversie derivanti dall’esecuzione dell’appalto.

Va da sé che una volta riportato l’arbitrato nella materia dei LL.PP. nell’alveo dello schema logico postulato dal c.p.c. ed alla alternativa tra clausola compromissoria contenuta negli atti contrattuali e compromesso (oggi vietato) stipulato a controversia già insorta, viene meno – sia sul piano dogmatico che su quello pratico – ogni giustificazione ed utilità di declinazione della competenza arbitrale.

Invero, come è stato giustamente rilevato in dottrina, per rendere effettiva la facoltà del ricorso all’istituto arbitrale, occorre inserire la clausola compromissoria nel contratto e non già negli atti di g

[Intervento tenuto il 7 maggio 2010 nel corso di perfezionamento organizzato dall’Università di Bari, dalla Facoltà di Giurisprudenza, sede di Taranto, dalla Sezione Puglia de la Cour Européenne d’Arbitrage de Strasbourg, dal CEDICLO, dalla Scuola Forense dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, dalla Provincia di Taranto e dal Comune di Taranto sul macrotema Dignità dell’uomo: migrazione, mediazione, arbitrati]

Sommario:

1. Premesse

2. Considerazioni sul carattere generalizzato dell’arbitrato nell’ambito della giurisdizione amministrativa

3. L’arbitrato e la materia delle OO.PP.

4. L’arbitrato nella Merloni

5. L’arbitrato facoltativo nelle previsioni della Merloni

6. L’ambito oggettivo delle controversie deferibili ad arbitri

7. La disciplina della Camera arbitrale per i LL.PP.

8. L’intervento del Consiglio di Stato

9. La disciplina postulata dall’art. 5, commi 16-sexies e 16-septies della L. 14.5.2005 n°80 e dall’art.1, commi 70 e 71 della L. 23.12.2005 n°266

10. Il regime previsto dal D.Lgs 12.4.2006 n°163 dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE

11. Il divieto (assurdo) per le P.A. di far ricorso all’istituto arbitrale ed il suo superamento.

12. Il D.Lgs 20.3.2010 n°53 di attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici e la sua forza razionalizzatrice nei confronti dell’arbitrato. Le nuove disposizioni in materia di arbitrato

1. Premesse

L’odierno argomento è per me, da tempo, oggetto di un interesse che ho, peraltro, rappresentato in precedenti scritti[1].

In entrambe quelle occasioni di riflessione ho cercato di evidenziare come l’arbitrato nella materia dei LL.PP., ancorché da più di un secolo si sia connotato come soluzione ampiamente praticata per la risoluzione delle controversie tra P.A. ed appaltatori, costituisce ancor oggi il nodo focale di una vicenda particolarmente travagliata che soltanto con l’introduzione delle disposizioni del codice dei contratti pubblici, di lavori e forniture[2] era sembrato avviarsi a più razionale soluzione, anche se non sono mancate spinte oscurantiste tendenti a ridimensionare la funzione ed il ruolo che il codice “de Lise” ha inteso conferire all’istituto; spinte negative che, per fortuna, il D.Lgs. n°53/10, ha obiettivamente contrastato con l’introduzione[3] di norme, seppure oggettivamente non risolutive del problema, comunque tendenzialmente votate ad infondere maggior coerenza logica all’arbitrato.

2. Considerazioni sul carattere generalizzato dell’arbitrato nell’ambito della giurisdizione amministrativa

L’art. 6, 2° comma, della L. n°205/00 - ponendo ragionevolmente fine ad un lungo e tormentato dibattito dottrinario e sulla scorta di due semplici ma efficaci considerazioni secondo le quali l’art. 806 c.p.c. non contiene alcuna preclusione sulla compromettibilità di controversie affidate alla giurisdizione di un giudice diverso da quello ordinario e sulla assoluta inesistenza di qualsivoglia indisponibilità dell’interesse pubblico a risolvere in via alternativa a quella giustiziale situazioni di diritto soggettivo in cui la P.A. si trova ad agire nel contesto di rapporti paritetici - introduce l’importante novità rappresentata dal fatto che “le controversie concernenti diritti soggettivi (disponibili) devoluti alla giurisdizione esclusiva del G.A. possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto” che si svolge con le regole del c.p.c. per ciò che riguarda il compromesso (ossia la decisione ormai vietata di deferire ad arbitri una lite già insorta) o la clausola compromissoria, le controversie arbitrabili[4], le modalità di nomina degli arbitri ed il procedimento che gli arbitri stessi sono tenuti ad osservare.

In ordine a siffata novità, costituita dall’introduzione della facoltà di ricorso all’istituto dell’arbitrato, la giurisprudenza del Consiglio di Stato[5] si è subito espressa nel senso di ammettere la compromissibilità in arbitri di quelle vertenze il cui oggetto è ravvisabile nel danno patrimoniale che il titolare assume di aver subito, in conseguenza dell’ accertata illegittimità dell’ esercizio della funzione pubblica, ovvero in quelle nelle quali le pretese patrimoniali nascano da un rapporto convenzionale del quale non si contesta la legittimità, ma si reclama la pretesa di una sua corretta esecuzione.

In applicazione del disposto normativo testè enunciato, nell’ambito di controversie relative a diritti soggettivi ed in presenza di compromesso (oggi vietato) o di clausola compromissoria che richieda un arbitrato rituale di diritto, e sempreché sia ritualmente posta la relativa eccezione, il G. A. non può fare altro che declinare la propria competenza in favore di quella degli arbitri.

Infatti allorquando le parti in causa eccepiscano la sussistenza di un accordo per la devoluzione della controversia ad arbitrato rituale, sono tenuti a formulare una formale eccezione di incompetenza del G.A., che per il carattere relativo e derogabile di cui è connotata, va tassativamente proposta in limine litis, non potendo essere, in alcun caso, rilevata di ufficio né rilevata per la prima volta in appello.

Nessun obbligo di devoluzione agli arbitri della vicenda contenziosa sorge, invece, nel G.A. a seguito di eccezione che fa leva sulla pattuizione di un arbitrato irrituale, non essendo quest’ultima idonea ad inibire l’esercizio della funzione giurisdizionale.

La distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale va definita avuto riguardo al contenuto oggettivo del compromesso (come si è detto oggi ormai vietato) o della clausola compromissoria ed alla volontà delle parti nel senso che deve ritenersi che le parti medesime abbiano voluto far ricorso ad un arbitrato rituale laddove si possa evincere che le stesse hanno inteso attribuire agli arbitri una funzione sostitutiva a quella del giudice, mentre, invece, si ritiene che detta volontà sia indirizzata verso l’arbitrato irrituale quando è palese la loro intenzione di demandare agli arbitri il compito di dare contenuto ad un accordo transattivo sottoscritto dalle parti.

Non è inutile riferire che ove permangano dubbi sulla natura dell’arbitrato – in considerazione della eccezionalità che l’arbitrato rituale riveste nel sistema della giurisdizione pubblica, di cui costituisce palese momento di deroga – si deve concludere nel senso che le parti abbiano voluto dar vita ad un arbitrato irrituale.

In ordine alle modalità per lo svolgimento dell’eccezione, la competenza degli arbitri va sollevata mediante l’atto di costituzione in giudizio o con memoria.

Con espresso riferimento all’individuazione del giudice competente a ricevere la impugnazione del lodo si è oggi ormai consolidato il principio, anche in forza della lettera della legge[6], che esso sia la Corte di Appello competente per territorio.

In verità non appare questa la soluzione più corretta, ma piuttosto quella individuata da non secondaria dottrina[7] e da autorevole giurisprudenza del G.A[8] secondo la quale, nelle materie oggetto di giurisdizione esclusiva, va inteso quale organo giustiziale competente per l’appello, il Consiglio di Stato, non essendo revocabile in dubbio che il lodo arbitrale debba essere equiparato ad una sentenza di primo grado e che non possono, le relative controversie, che essere definite, in sede di impugnazione all’interno della giurisdizione amministrativa non risultando di alcuna logicità modificare le regole sul riparto della giurisdizione.

La diversa soluzione scelta dal legislatore di attribuire, a seguito dell’impugnazione del lodo, la risoluzione della controversia al giudice ordinario piuttosto che al giudice amministrativo lascia significativi dubbi sulla costituzionalità della indicazione normativa rispetto al criterio postulato dalla Carta in ordine al riparto della giurisdizione, atteso che la devoluzione ad arbitri determina non soltanto la scelta delle parti di utilizzazione di una modalità di risoluzione delle controversie alternativa alla giurisdizione statuale, ma anche un ingiustificato spostamento dall’uno all’altro giudice, in deroga al criterio normativo del riparto.

Analoghi problemi sorgono tanto in relazione all’esecuzione del lodo arbitrale che in ordine all’adattamento delle disposizioni dettate per l’arbitrato rituale dal c.p.c. nei confronti dell’arbitrato avente ad oggetto materie della giurisdizione esclusiva del G.A.

Va ancora detto che per quanto attiene al regime transitorio relativo alla validità delle clausole arbitrali – nelle materie oggetto di giurisdizione esclusiva – stipulate prima dell’entrata in vigore della L.n°205/00, la giurisprudenza[9] ha ritenuto che siffatte clausole, ancorché all’epoca nulle, devono ritenersi sanate e valide per effetto dell’intervenuto art.6 della L.n°205/00.

3. L’arbitrato e la materia delle opere pubbliche

L’istituto in parola, ancorché per più di un secolo abbia rappresentato una soluzione ampiamente praticata per la risoluzione delle controversie tra P.A. ed appaltatori di OO.PP., al contrario dell’arbitrato di diritto comune, che ha trovato nella disciplina del c.p.c. compiuta ed articolata organizzazione sistematica, sino al tentativo determinatosi a seguito dell’entrata in vigore della legge Merloni e del successivo regolamento di attuazione, non ha mai avuto una regolazione di pari armonica organicità.

La riprova di siffatta rilevata assenza di definita organicità la si riscontra ricostruendo le vicende dell’istituto nel settore delle OO.PP.[10]

Invero se si va indietro nel tempo si può riscontrare come prima del 1865 le vertenze nella materia, risultavano appannaggio della cognizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo.

Successivamente la L.20.3.1865 n°2248 che con l’art.2, all. E affidava la cognizione delle riferite controversie al giudice ordinario, ha stabilito, con l’art.349 all. F, che nei capitolati di appalto si potesse prevedere che “… le questioni tra l’Amministrazione e gli appaltatori siano decise da arbitri” .

Sicchè per la diffidenza che la P.A. ha avuto sempre nei confronti del giudice ordinario - tant’è che siffatta situazione di sospetto ha storicamente originato la figura dell’interesse legittimo, come ambito di azione sottratto al sindacato dell’A.G.O. – la previsione del ricorso all’istituto arbitrale in materia di OO.PP., quale sistema alternativo alla giurisdizione ordinaria, non costituisce altro che la conferma di tale atteggiamento di sfiducia verso una giurisdizione che ancora oggi essa P.A. continua a non sentire come sua.

La norma che ha consentito di adire all’istituto arbitrale è stata introdotta prima nei capitolati speciali e poi in quello generale del Ministero dei LL.PP. del 1889 e del 1895.

Successivamente l’istituto arbitrale ha trovato spazio e collocazione pure nel settore dei servizi pubblici anche se, per vero, la sua connotazione peculiare in quell’epoca è stata quella di risultare apparentemente come libera convenzione fra le parti, ma, in realtà, essere un obbligo “… imposto forzatamente dallo Stato a chi contrae con le sue Amministrazioni”.

Il D.P.R. 16.7.1962 n°1063, che pure con l’art.43 ha disposto che “… tutte le controversie tra la P.A. e l’appaltatore … che non si sono potute definire in via amministrativa …sono deferite … al giudizio di cinque arbitri”, con il successivo art.47, ha, tuttavia, attenuato il rappresentato carattere, ha previsto per entrambe le parti la possibilità di derogare alla competenza arbitrale: per l’attore attraverso la proposizione di azione diretta davanti al giudice ordinario; mentre, per il convenuto, ha disposto l’esclusione di detta competenza con la notifica di apposita “declinatoria” nel termine di trenta giorni dalla proposizione della domanda.

Il riferito facoltativo quadro previsionale, però, è stato successivamente intaccato dalla statuizione dell’art.16 della L.10.12.1981 n°741, secondo la quale “la competenza arbitrale può essere esclusa soltanto con apposita clausola inserita nel bando o nell’invito di gara, oppure nel contratto in caso di trattativa privata”.

Siffatta proposizione normativa dimostra viepiù il favore del legislatore dell’epoca nei confronti della procedura arbitrale.

In buona sostanza l’adozione di detta procedura si determinava come obbligatoria per il privato, atteso che la stessa poteva essere evitata unicamente dalla stazione appaltante e soltanto nella fase inziale della gara.

La ricordata disposizione dell’art.47, così come sostituito dall’art.16 della ricordata L. n°741/81 è stata dichiarata incostituzionale dal giudice delle leggi[11], il quale ha ritenuto che siffatta disposizione, attribuendo di fatto soltanto alla P.A. la possibilità di scegliere di ricorrere alla competenza arbitrale, escludendo, invece, tale facoltà di scelta, abbia introdotto un arbitrato sostanzialmente obbligatorio.

In ragione di ciò, infatti, al cospetto di un arbitrato sostanzialmente obbligatorio, la Consulta si è pronunciata nel senso di definire costituzionalmente illegittima la norma nella parte in cui non ha previsto l’esercizio della deroga alla competenza arbitrale per entrambe le parti.

4. L’arbitrato nella Merloni

L’analisi della legge quadro sui LL.PP.[12] rileva uno ondivago atteggiamento del legislatore il quale passa da una espressa volontà di rifiuto dell’istituto arbitrale[13] alla

delineazione di un arbitrato c.d. “amministrato” la cui disciplina è stata regolata dall’art.32 della Merloni, così come modificato dall’art.10 della L.18.11.1998 n°415, dagli artt. 149, 150 e 151 del regolamento (approvato con D.P.R. 21.12.1999 n°554), dagli articoli che vanno dall’1 al 12 del regolamento di procedura del giudizio arbitrale (D.M. della Giustizia del 2.12.2000 n°398), dagli artt.32, 33 e 34 del capitolato generale d’appalto dei LL.PP. (D.M. LL.PP. 19.4.2000 n°145), dall’art. 5, commi 16-sexies e 16-septies della L.14.5.2005 n°80 e dall’art. 1, commi 70 e 71 della L.23.12.2005 n°266.

Il complesso di siffatte riferite previsioni sostituendo in radice l’originaria formulazione dell’art.32 della Merloni, in stretta aderenza al principio della facoltatività più volte richiamato, ha stabilito che tutte le controversie derivanti dalla mancata esecuzione del contratto, ivi comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario può ben essere deferito agli arbitri.

In buona sostanza in presenza di situazioni conflittuali generati dalla esecuzione del contratto non sussiste più alcun limite alla possibilità di ricorso all’istituto dell’arbitrato.

5. L’arbitrato facoltativo nelle previsioni della Merloni

L’art.32 della Merloni-ter esplicita in maniera inequivoca e definitiva il carattere facoltativo dell’arbitrato allorché dispone che le controversie discendenti dall’esecuzione dell’appalto “possono essere deferite ad arbitri”.

Alla luce della prefata disposizione e dell’art.150 del regolamento di attuazione approvato con D.P.R. n°554/99[14], la disciplina per lo svolgimento dell’arbitrato risulta essere quella propria del c.p.c., poiché la forma di arbitrato prevista dalla legge quadro si fonda sulla concorde volontà delle parti di devolvere la risoluzione delle controversie che dovessero insorgere tra la stazione appaltante e l’appaltatore nella interpretazione e nella esecuzione del contratto ad arbitri, mediante la previsione di una clausola compromissoria, ovvero la stipula di un compromesso (oggi vietato) a controversia già insorta.

Anche se la legge parla di “atti contrattuali” non è escluso che la possibilità di adire all’arbitrato sia contenuta anche nel bando di gara o nella lettera di invito o nel capitolato, ma tale possibilità deve necessariamente essere completata nel senso che in detti atti deve essere palesemente riferito che l’arbitrato è facoltativo e che a tale espressione l’appaltatore deve dare il proprio consenso attraverso l’inserimento della clausola compromissoria nel contratto di appalto, ovvero la stipula di compromesso (oggi vietato) a controversia già insorta.

Di talchè non appare condivisibile quanto stabilito dall’Autorità per la vigilanza sui LL. PP. allorquando negli schemi da essa predisposti affidava, in maniera apodittica alla scelta unilaterale della P.A., il deferimento o meno delle controversie ad arbitri[15].

Fra l’altro l’operato della ricordata Autorità di assegnare alla unilaterale scelta della stazione appaltante la possibilità del ricorso all’istituto arbitrale, cozza con la già richiamata decisione n°152/96 del giudice delle leggi, la quale, proprio con espresso riferimento al problema delle clausole compromissorie imposte dai bandi di gara, nei casi in cui il contratto sia predisposto dalla P.A., ha espressamente concluso che è, in ogni caso, necessario garantire il rispetto del “principio essenziale della effettiva e libera volontà di ciascuna parte sulla scelta della competenza”.

Ne consegue che ben può la P.A. dichiarare di non voler accedere alla procedura arbitrale, poiché per adire alla stessa occorre la volontà espressa di entrambi i contraenti, ma se vuole accedere è necessario avere il consenso dell’appaltatore per poter inserire apposita clausola per deferire ad arbitri le eventuali controversie derivanti dall’esecuzione dell’appalto.

Va da sé che una volta riportato l’arbitrato nella materia dei LL.PP. nell’alveo dello schema logico postulato dal c.p.c. ed alla alternativa tra clausola compromissoria contenuta negli atti contrattuali e compromesso (oggi vietato) stipulato a controversia già insorta, viene meno – sia sul piano dogmatico che su quello pratico – ogni giustificazione ed utilità di declinazione della competenza arbitrale.

Invero, come è stato giustamente rilevato in dottrina, per rendere effettiva la facoltà del ricorso all’istituto arbitrale, occorre inserire la clausola compromissoria nel contratto e non già negli atti di g