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L’applicabilità agli enti della sospensione con messa alla prova: il parere negativo delle Sezioni Unite

messa alla prova
Ph. Alessandro Saggio / messa alla prova

L’applicabilità agli enti della sospensione con messa alla prova: il parere negativo delle Sezioni Unite

 

Indice

Introduzione

Gli orientamenti contrapposti della giurisprudenza di merito

La posizione della dottrina

La messa alla prova e il Decreto Legislativo 231/2001: discipline a confronto nella giurisprudenza di legittimità e costituzionale

Le conclusioni delle Sezioni Unite: la messa alla prova non è applicabile agli enti

Alcune considerazioni conclusive

 

 

Introduzione

 

L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, introdotto con la legge 28 aprile 2014, n. 67[1], costituisce una causa di estinzione del reato applicabile ai delitti puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni e a quelli elencati nell’articolo 550 comma 2 c.p.p. (quali la resistenza a pubblico ufficiale; rissa e furto aggravati; lesioni personali aggravate, ecc.).

La sospensione del procedimento rappresenta una scelta che l’imputato può formulare prima della celebrazione del processo, rinunciando in questo modo all’accertamento sulla sua responsabilità penale per il fatto contestato: qualora la messa alla prova abbia esito positivo, infatti, il reato si estingue, con la conseguente definizione del procedimento penale. Dal punto di vista pratico, la messa alla prova fa sorgere alcuni specifici obblighi, quali l’elisione delle conseguenze dannose o pericolose, il risarcimento del danno e, in particolare, l’affidamento ad un servizio sociale per lo svolgimento di un programma o l’adempimento di specifiche prescrizioni oltre allo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità in base alle attitudini lavorative dell’imputato, non retribuito, da svolgere a favore della collettività.

Le finalità perseguite da tale istituto sono sostanzialmente tre, aventi tutte una funzione special preventiva: l’attivazione di un circuito solidaristico nei confronti della collettività e della persona offesa, il reinserimento sociale e la rimozione delle conseguenze dannose del reato.

L’assenza di riferimenti alle persone giuridiche, nelle disposizioni che regolano la sospensione del procedimento con messa alla prova, ha sollecitato un dibattito interpretativo circa l’applicabilità di tale istituto ai procedimenti a carico degli enti incardinati ai sensi del Decreto Legislativo 231/2001. Sul tema si sono registrati orientamenti contrapposti, che hanno condotto all’intervento delle Sezioni Unite con sentenza n. 14840 del 27 ottobre 2022, le cui motivazioni sono state pubblicate il 6 aprile 2023.

 

Gli orientamenti contrapposti della giurisprudenza di merito

ito della giurisprudenza di merito si sono rapidamente delineate due posizioni in netto contrasto. Alcune pronunce[2] hanno escluso l’applicabilità dell’istituto della sospensione con messa alla prova alle persone giuridiche; altre[3], invece, si sono invece espresse favorevolmente.

L’orientamento negativo valorizza il principio di legalità e, in particolare, di riserva di legge di cui all’articolo 25 comma 2 Cost., in base al quale l’istituto in esame non è applicabile alla responsabilità da reato delle persone giuridiche, perché manca una disposizione espressa che ne consenta l’applicazione. A ciò si aggiunge che la sospensione del procedimento con messa alla prova è modellato sulla persona fisica, perché presenta una spiccata vocazione rieducativa, insuscettibile di applicazione analogica alle persone giuridiche. Da ultimo, l’orientamento negativo valorizza l’autonomia dell’accertamento della responsabilità degli enti, regolato dal Decreto Legislativo 231/2001, rispetto a quello regolato dalle disposizioni sostanziali e processuali penali per le persone fisiche: tale regime differenziato renderebbe ancor più evidente la necessità di una previsione normativa espressa che consenta l’applicazione dell’istituto in esame alle società.

Gli argomenti valorizzati nelle pronunce favorevoli alla sua applicazione sono i medesimi accreditati nelle sentenze che negano agli enti l’accesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova: in particolare, il vuoto normativo sarebbe superabile grazie all’applicazione analogica dell’articolo 168 bis c.p. al Decreto Legislativo 231/2001.

Tale applicazione analogica, lungi dall’essere vietata, è supportata sia da un argomento teleologico sia da uno sistematico. Sul piano teleologico, la disciplina della responsabilità amministrativa da reato degli enti regola alcuni meccanismi connotati da una finalità preventiva e “rieducativa”. In particolare, il Decreto Legislativo 231/2001 prevede che gli enti che si dotino di un modello di organizzazione e gestione dopo il fatto ma prima del processo, ottengano un beneficio sul piano sanzionatorio, favorendo in questo modo l’adozione di comportamenti virtuosi e conformi alla legge. Quanto ai limiti dell’applicazione analogica, che deve essere esclusa per le sole disposizioni eccezionali e per quelle penali di natura afflittiva, non ricorrerebbe alcun effetto negativo ostativo, poiché l’applicazione della sospensione con messa alla prova produce un effetto favorevole, che consiste nell’estinzione dell’illecito amministrativo dipendente da reato contestato all’ente.

 

La posizione della dottrina

La dottrina appare più coesa della giurisprudenza a favore della applicabilità dell’istituto in esame alle società.

Le disposizioni processuali di cui agli articoli 464 bis e seguenti c.p.p., infatti, sarebbero applicabili all’ente alla luce degli articoli 34 e 35 Decreto Legislativo 231/2001, che estendono al procedimento a carico di quest’ultimo le disposizioni processuali penali, anche relative all’imputato, in quanto compatibili[4].

 

La messa alla prova e il Decreto Legislativo 231/2001: discipline a confronto nella giurisprudenza di legittimità e costituzionale

Al fine di dirimere il contrasto, le Sezioni Unite pongono a confronto la ratio sottesa, rispettivamente, alla disciplina del Decreto Legislativo 231/2001 e alla messa alla prova, secondo la ricostruzione offerta dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte costituzionale.

Il tema della natura giuridica della responsabilità dell’ente è stato affrontato ex professo nella nota sentenza ThyssenKrupp[5], in cui le Sezioni Unite hanno manifestato di condividere la qualificazione di tale responsabilità come un tertium genus, che coniuga tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo.

Non vi è dubbio che il complesso di disposizioni contenuto nel Decreto Legislativo 231/2001 presenti elementi di rilievo penale, anzitutto perché trova applicazione in presenza della commissione di un reato, in secondo luogo per la severità dell’apparato sanzionatorio e, infine, per le modalità processuali del suo accertamento. Il profilo penale di tale responsabilità non si pone tuttavia in contrasto con i principi che caratterizzano l’accertamento della responsabilità penale: il principio di responsabilità per fatto proprio e il principio di colpevolezza. Invero, la sanzione viene applicata all’ente soltanto nell’ipotesi in cui sia accertata la commissione del reato da parte della persona fisica che riveste le qualità descritte nell’articolo 5 Decreto Legislativo 231/2001 e sia stata verificata la carente regolamentazione interna dell’ente, che può offrire prova liberatoria al riguardo.

Diversamente, secondo le Sezioni Unite, l’istituto della messa alla prova deve essere inquadrato nell’ambito di un trattamento sanzionatorio di natura esclusivamente penale, connotato da una duplice finalità di prevenzione sia generale sia speciale e di risocializzazione.

Così come sulla natura giuridica della responsabilità degli enti, anche rispetto alla natura giuridica della sospensione del procedimento con messa alla prova si è sviluppato un ampio dibattito, che è stato oggetto di pronunce sia della Corte di cassazione[6] sia della Corte costituzionale[7].

È stato in particolare chiarito che nell’ambito della sospensione del procedimento con messa alla prova non viene effettuato alcun accertamento sulla colpevolezza dell’imputato, analogamente a quanto accade con l’applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento). L’imputato, nel rinunciare a tale accertamento, si giova del vantaggio consistente nell’estinzione del reato se accetta di rispettare un programma alternativo alla pena e se l’esecuzione di quel programma viene valutata positivamente dal giudice. L’eventuale sospensione del programma alternativo e preventivo rispetto alla pena, che l’imputato accetta spontaneamente di eseguire, comporta la riattivazione del procedimento penale a suo carico.

Nonostante queste peculiarità, la messa alla prova ha un’effettiva natura sanzionatoria, sia perché la sua disciplina è contenuta nelle disposizioni del codice penale e di procedura penale, sia perché il programma di volontariato di rilievo sociale e la prestazione del lavoro di pubblica utilità sono sottoposti ad una valutazione prognostica di idoneità rispetto all’astensione dell’imputato dalla commissione di futuri illeciti penali. Tale valutazione è svolta alla stregua dei parametri indicati dall’articolo 133 c.p. dal giudice, che tiene conto della gravità del fatto contestato e della proporzionalità delle prescrizioni rispetto ad esso. Inoltre, ad ulteriore conferma della natura sanzionatoria dell’istituto, vi è la previsione di cui all’articolo 657 bis c.p.p., in base al quale, in caso di revoca o esito negativo della messa alla prova, tale periodo viene detratto dalla pena da eseguire, nell’ipotesi in cui il procedimento penale venga definito con una sentenza di condanna. Milita, infine, a sostegno della natura sanzionatoria della messa alla prova, anche la previsione dell’obbligo di porre in essere condotte volte all’eliminazione delle conseguenze derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno.

 

Le conclusioni delle Sezioni Unite: la messa alla prova non è applicabile agli enti

Tutti gli argomenti sopra sintetizzati in ordine alla diversa natura giuridica della responsabilità da reato degli enti e dell’istituto dell’affidamento, la prima ascrivibile ad un tertium genus e la seconda connotata da una natura spiccatamente penale, conducono le Sezioni Unite a concludere nel senso dell’inapplicabilità dell’istituto della messa alla prova ai procedimenti a carico degli enti.

Oltre alla diversità di ratio sottesa alle due discipline, le Sezioni Unite valorizzano il principio di riserva di legge di cui all’articolo 25 comma 2 Cost.[8], perché nell’ambito Decreto Legislativo 231/2001 non vi è alcun riferimento alla causa di estinzione del reato consistente nella messa prova.

Non possono neppure trovare applicazione istituti quali l’interpretazione estensiva o l’applicazione analogica in bonam partem. Quest’ultima, in particolare, andrebbe esclusa in ragione del disposto dell’articolo 14 disp. prel. c.c., secondo il quale le leggi penali e quelle eccezionali non trovano applicazione a casi diversi da quelli in esse disciplinati. Poiché la messa alla prova, per gli argomenti sintetizzati nel paragrafo precedente, costituisce un microsistema sanzionatorio di natura penale, sebbene produca l’effetto positivo dell’estinzione del reato, questo non può trovare applicazione in assenza di un’espressa disposizione di legge. L’interpretazione estensiva deve essere parimenti esclusa, perché presuppone che il risultato interpretativo si mantenga, comunque, all’interno dei possibili significati della disposizione normativa.

Da ultimo, le Sezioni Unite valorizzano un ulteriore argomento a sostegno dell’inapplicabilità della disciplina della messa in prova alla responsabilità da reato degli enti: il lavoro di pubblica utilità e le attività di volontariato sono suscettibili di applicazione esclusivamente alla persona fisica, che deve osservare alcune prescrizioni inserite all’interno di un programma di trattamento funzionale alla sua risocializzazione.

In questa prospettiva, non sarebbe condivisibile l’argomento dell’immedesimazione organica, valorizzato dai sostenitori dell’applicazione dell’affidamento in prova agli enti. Invero, le persone fisiche che rappresentano l’organo societario sarebbero tenute ad aderire ad un programma di risocializzazione per conto di un soggetto diverso, cioè la società.

Da ultimo, ad esito del programma di messa alla prova, in assenza di una disposizione normativa espressa nell’ambito del Decreto Legislativo 231/2001, il giudice non potrebbe neppure pronunciare sentenza di non doversi procedere per essersi il reato estinto ex articolo 464 septies c.p.p. e dovrebbe creare una causa estintiva estranea al dettato normativo.

 

Alcune considerazioni conclusive

Le motivazioni con cui le Sezioni Unite escludono l’applicazione della messa alla prova agli enti sono argomentate in modo rigoroso sul piano logico e dei principi giuridici che regolano la materia penale. Tuttavia, la conclusione cui esse giungono appare distonica rispetto alla scelta del legislatore di incrementare l’applicazione dell’istituto della messa alla prova: infatti, il Decreto Legislativo 150/2022, più noto come “riforma Cartabia”, ha previsto che il programma di risocializzazione possa essere chiesto dall’imputato anche su proposta del Pubblico Ministero[9].

L’unica opzione possibile per garantirne l’applicazione ai procedimenti a carico degli enti, dunque, è rappresentata da un intervento normativo con cui il legislatore preveda espressamente l’applicabilità della sospensione del procedimento con messa alla prova anche agli enti nell’ambito del Decreto Legislativo 231/2001. Resterebbe un unico ostacolo, rappresentato, aderendo all’interpretazione delle Sezioni Unite, dalla difficoltà pratica di applicare un istituto volto alla risocializzazione ad un soggetto, quale una società, privo di substrato fisico.

Tuttavia, tale difficoltà appare agevolmente superabile adeguando le misure connotate da una finalità rieducativa e di risocializzazione alle peculiarità della persona giuridica, analoghe a quelle già attualmente previste dal Decreto Legislativo 231/2001 per escludere l’applicazione delle sanzioni interdittive.

Il dibattimento, infatti, può essere sospeso se, prima della dichiarazione di apertura, l’ente ha risarcito il danno, ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il modello e ha messo a disposizione il profitto del reato (articolo 17 e 65 Decreto Legislativo 321/2001).

Il Decreto Legislativo 231/2001, pertanto, prevede già oggi istituti che determinano la sospensione del processo a carico dell’ente e la possibilità di escludere le sanzioni di natura interdittiva, se l’ente adotta iniziative successive al fatto contestato, idonee a denotarne l’avvenuta resipiscenza. Il lavoro di pubblica utilità e il programma delineato dal servizio sociale, ad esempio, potranno essere declinati tenendo conto dell’ambito operativo dell’ente e del tipo di reato commesso, attraverso una modificazione del modello di organizzazione e gestione e il sostegno ad associazioni con cui il settore produttivo di riferimento dell’ente presenti elementi di collegamento.

 

Note:

[1] L’istituto è disciplinato sia dal Codice penale, agli artt. 168 bis e seguenti, sia dal Codice di procedura penale, ove è regolato dall’apposito Titolo V bis (artt. 464 bis – 464 novies).

[2] Trib. Milano, 27.03.2017; Trib. Bologna, 10.12.2020; Trib. Spoleto, 21.04.2021.

[3] Trib. Modena, 10.10.2020 e Trib. Bari, 22.06.2022.

[4] Un sintetico riepilogo degli interventi della dottrina sul punto è offerto nell’articolo “Niente messa alla prova per le società”, di Ciro Santoriello, rivista online Ilpenalista.it, 14 aprile 2023.

[5] Sentenza resa a Sezioni Unite, n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn

[6] In particolare, Sez. Un. N. 36272 del 31.03.2016, Sorcinelli

[7] Sentenza n. 91/2018 e 68/2019.

[8] L’omologo principio nell’ambito della disciplina della responsabilità da rato degli enti è contenuto nell’art. 2 d.lgs. 231/2001, secondo il quale: “L’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto”.

[9] L’attuale formulazione dell’art. 464 bis comma 1 c.p.p. prevede infatti che: “Nei casi previsti dall’art. 168 bis del codice penale l’imputato, anche su proposta del Pubblico Ministero, può formulare richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Se il Pubblico Ministero formula la proposta in udienza, l’imputato può chiedere un termine non superiore a venti giorni per presentare la richiesta di sospensione con messa alla prova”.