L’autotutela doverosa: ambito e limiti
Abstract
L’autotutela amministrativa, identificata nel potere dell’amministrazione di rimuovere unilateralmente ed autonomamente gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dell’interesse pubblico, è considerata espressione di un potere discrezionale non potendo il cittadino vantare alcuna pretesa in merito alla definizione della richiesta di riesame del provvedimento ritenuto lesivo. Scopo di questo contributo è indagare se ed in quali limiti vi possano essere delle deroghe (di fonte legislativa, dottrinale e giurisprudenziale) a siffatto principio.
Sommario
1. Genesi di un “potere implicito”
2. Autotutela eliminatoria e autotutela conservativa
3. La natura del potere di autotutela secondo la giurisprudenza amministrativa e la configurabilità dell’autotutela doverosa
4. L’annullamento d’ufficio doveroso ex lege
5. I casi individuati dalla dottrina amministrativistica
1. Genesi di un “potere implicito”
Come unanimemente riconosciuto, l’attività della Pubblica Amministrazione si sostanzia nella cura concreta degli interessi pubblici individuati a monte dalla legge.
L’azione della P.A. soggiace pertanto, sotto più profili, al principio di legalità, che si pone alla base di tutte le manifestazioni pubbliche dell’ordinamento e, quindi, risponde all’immagine dell’amministrazione “esecutrice” della legge (CASETTA).
L’esigenza di assicurare in ogni momento che gli interessi ad essa affidati risultino curati in modo ottimale in relazione ai fini pubblici da perseguire (si tratta del principio di necessità), impongono all’amministrazione di rivedere continuamente il suo operato attraverso una verifica dei suoi provvedimenti sotto il profilo della legittimità e del merito.
Di qui, la necessità che l’amministrazione fruisca di peculiari poteri autoritativi di riesame dei suoi provvedimenti (sotto il profilo della validità dei suoi provvedimenti) e di revisione dei loro risultati (incidenti sull’efficacia e sull’esecuzione di precedenti atti), da ritenersi compresi ex lege nella sua competenza funzionale primaria, “quasi in proiezione dinamica della continuità, necessità ed effettività dell’attività amministrativa” (GALLI).
Ecco spiegato perché un risalente orientamento dottrinale inquadrava l’autotutela amministrativa nella categoria dei “poteri impliciti”.
Originariamente, infatti, pur mancando una norma che attribuisse exprissis verbis siffatto potere alla p.a. l’autotutela è sempre stata considerata funzionale al perseguimento del fine pubblico che la fonte giuridica primaria (e cioè l’art.97 della Costituzione) indica quale scopo da perseguire nell’esercizio di poteri espressamente conferiti: il potere amministrativo implicito dell’autotutela, si diceva, accompagna poteri espressamente conferiti, esercitato con l’obiettivo di realizzare più adeguatamente lo scopo che la stessa legge prescrive l’amministrazione di perseguire.
In altre parole, con l’emanazione del provvedimento amministrativo quale “prodotto della funzione”, non si esaurisce il potere della P.A., potendo sempre provvedere in funzione dell’interesse pubblico.
In buona sostanza, è da più parti sostenuto che l’art. 97 della Costituzione codificherebbe il principio di inesauribilità o inconsumabilità del potere amministrativo che legittimerebbe la P.A. non solo a comporre gli interessi in gioco nel provvedimento di primo grado, ma anche a valutare successivamente la rispondenza all’interesse pubblico dell’assetto di interessi cristallizzato nell’atto amministrativo, legittimandola, attraverso un atto di riesercizio del potere, a farsi giustizia da sé medesima conservando o eliminando il provvedimento.
Al riguardo si parlava in termini di “perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi” (in tal senso: Cons. Stato, II, 7 giugno 1995, n. 2917/94).
Tale assunto, va però necessariamente bilanciato con quello della certezza delle situazioni giuridiche anche a seguito della attenuazione dei privilegi riconosciuti all’amministrazione, anche quando agisce con poteri squisitamente autoritativi e nel perseguimento di primarie finalità di interesse pubblico.
L’autotutela è quindi la potestà dell’Ente Pubblico di farsi giustizia da sé, risolvendo un conflitto di interessi attuale o potenziale mediante l’auto impugnazione dei suoi atti.
Nel ricostruire il processo evolutivo della nozione in esame giova considerare che alcuni autori hanno inizialmente ritenuto che l’autotutela richiamasse unicamente il potere di esecuzione diretta dei provvedimenti amministrativi (la cosiddetta esecutorietà dei provvedimenti).
È invece acquisizione successiva l’attrazione all’ampio concetto di autotutela del potere di riesame, inteso come il potere di verifica da parte della Pubblica Amministrazione della validità/opportunità dei suoi provvedimenti e di ritiro dell’atto riconosciuto invalido o non più opportuno (autotutela decisoria).
2. Autotutela eliminatoria e autotutela conservativa
A seconda del provvedimento adottato, l’autotutela decisoria si ripartisce in autotutela ad effetti eliminatori, il cui scopo è semplicemente quello di eliminare l’atto dal mondo giuridico attraverso un contrarius actus che è esercizio del medesimo potere che ha condotto all’emanazione del provvedimento originario e autotutela ad effetti conservativi, avente lo scopo di conservare l’atto eliminandone i vizi giuridici.
Esaminiamoli partitamente:
- Atto di annullamento, atto di ritiro e più propriamente di riesame eliminatorio disposto dalla p.a. per motivi di legittimità e con effetto ex tunc (anche se nulla esclude che la p.a. all’esito della ponderazione comparativa con altri interessi potrebbe decidere di disporre l’annullamento d’ufficio solo ex nunc, facendo salvi gli effetti del provvedimento originario sin lì prodottisi).
- Atto di revoca, disciplinata dall’art.21-quinquies della legge n.241 del 1990 (e introdotta dall’art.14 della legge n.15 del 2005) è atto di ritiro con effetti eliminatori disposto dalla p.a. per motivi di opportunità e con effetto ex nunc. Trattasi pertanto di un provvedimento di revisione, perché esso attiene ai risultati dell’atto e cioè ai suoi effetti. La p.a. sottopone la verifica dell’atto sotto il profilo della sua conformità all’interesse pubblico.
I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall’art.21-quinquies (per come modificato dall’art.25, comma 1, lett. b-ter, d.l. n.133 del 2014) con formule lessicali (volutamente) generiche e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto (imprevedibile al momento dell’adozione del provvedimento) e in una rinnovata (e diversa) valutazione dell’interesse pubblico originario (tranne che per i provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici).
Ora, ancorché l’innovazione del 2014 abbia inteso accrescere la tutela del privato da un arbitrario e sproporzionato esercizio del potere di autotutela in questione (per mezzo dell’esclusione dei titoli abilitativi o attributivi di vantaggi economici dal catalogo di quelli revocabili in esito a una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario), il potere di revoca resta connotato da un’ampia (e, forse, eccessiva) discrezionalità.
A differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca esige, infatti, solo una valutazione di opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti dettagliate all’art.21-quinquies l. cit. (e che, nondimeno, sono descritte con clausole di ampia latitudine semantica), sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’Amministrazione procedente.
La configurazione normativa del potere di autotutela in esame si presta, quindi, ad essere criticata, nella misura in cui omette un’adeguata considerazione e un’appropriata protezione delle esigenze, sempre più avvertite come ineludibili, connesse alla tutela del legittimo affidamento (qualificato come “principio fondamentale” dell’Unione Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE) ingenerato nel privato danneggiato dalla revoca e all’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici costituiti dall’atto originario, nonché, più in generale, alla stabilità dei provvedimenti amministrativi.
E non vale, di per sé, la previsione della debenza di un indennizzo ai privati danneggiati dalla revoca a compensare gli squilibri regolativi sopra segnalati.
Un’esegesi e un’applicazione della disposizione in esame che siano coerenti con i principi generali dell’ordinamento della tutela della buona fede, della lealtà nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione e del buon andamento dell’azione amministrativa (che ne implica, a sua volta, l’imparzialità e la proporzionalità) impongono, allora, la lettura e l’attuazione della norma secondo i canoni stringenti di seguito enunciati: a) la revisione dell’assetto di interessi recato dall’atto originario dev’essere preceduta da un confronto procedimentale con il destinatario dell’atto che si intende revocare; b) non è sufficiente, per legittimare la revoca, un ripensamento tardivo e generico circa la convenienza dell’emanazione dell’atto originario; c) le ragioni addotte a sostegno della revoca devono rivelare la consistenza e l’intensità dell’interesse pubblico che si intende perseguire con il ritiro dell’atto originario; d) la motivazione della revoca dev’essere profonda e convincente, nell’esplicitare, non solo i contenuti della nuova valutazione dell’interesse pubblico, ma anche la sua prevalenza su quello del privato che aveva ricevuto vantaggi dal provvedimento originario a lui favorevole.
a. Atto di decadenza, atto di rimozione di un precedente provvedimento per l’accertato inadempimento di obblighi da parte del destinatario ovvero per il mancato esercizio di diritti o per il venir meno delle condizioni necessarie per la costituzione e la permanenza del rapporto.
b. Mero ritiro, atto con cui l’amministrazione dichiara un atto non produttivo di effetti, caducato per illegittimità o inopportunità.
c. Atto di abrogazione: tale figura opera in presenza di una illegittimità sopravvenuta del provvedimento, ossia quando il provvedimento originariamente legittimo, a causa di un mutamento delle circostanze di fatto, diventi successivamente illegittimo.
d. Atto di sospensione, atto previsto dall’art. 21 quater comma 2 della legge 241/1990 la cui finalità è cautelare.
e. Provvedimenti con esito conservativo o di convalescenza in attuazione del principio di economia dei mezzi giuridici e cioè: convalida ex art. 21 nonies l. 241/1990, sanatoria, conversione, riforma, rettifica e la conferma. Questi mirano a conservare l’atto mediante una sorta di “guarigione” dai vizi che lo affliggevano.
3. La natura del potere di autotutela secondo la giurisprudenza amministrativa e la configurabilità dell’autotutela doverosa
Come più volte chiarito dai Giudici di Palazzo Spada, l’esercizio del potere di autotutela amministrativa mediante annullamento costituisce espressione di un potere di merito, incoercibile da parte del giudice amministrativo, e che, sebbene l’articolo 21 nonies della legge n. 241 del 1990 abbia disciplinato i presupposti e le forme dell'annullamento d'ufficio, non è stata tuttavia modificata la natura di detto potere, che non è stato trasformato da discrezionale in obbligatorio.
Rispetto all’esercizio di tale potere, si è detto, “non è configurabile un obbligo di provvedere, essendo l’amministrazione titolare di un potere di merito, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse, insindacabile da parte del giudice, con la conseguenza che la richiesta del privato, rivolta all'amministrazione, di esercizio dell'autotutela, come nel caso di specie, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria che non fa sorgere un obbligo di provvedere.
Né può logicamente e sistematicamente ammettersi che l’interessato possa impugnare l’eventuale risposta negativa (quanto alla richiesta di annullamento di ufficio) che l’amministrazione fornisca all’istanza sollecitatoria senza esprimere alcuna nuova considerazione e senza rivalutare gli interessi pubblici coinvolti, giacché ciò determinerebbe l’inammissibile elusione dei termini decadenziali per l’impugnazione degli atti e provvedimenti amministrativi”.
La discrezionalità dell’amministrazione nell’esercizio di siffatto potere emerge con tutta la sua forza nell’ipotesi in cui il privato solleciti il potere di riesame su atti autoritativi a lui sfavorevoli precedentemente emanati ma non impugnati nell’ordinario termine decadenziale prescritto.
Sull’amministrazione non incombe né l’obbligo di pronunciarsi ex novo sulla richiesta di riesame di una questione già definita e non coltivata dall’interessato nelle opportune sedi giurisdizionali, né quello di determinarsi su un’istanza meramente ripetitiva di altra precedente relativamente alla quale l’amministrazione si sia già pronunciata negativamente, sicché, in tal caso, non configurandosi un obbligo di risposta sull’istanza, non può ritenersi formato me il silenzio-assenso, né il silenzio-inadempimento.
Ciò detto, tale orientamento di rigore conosce delle deroghe:
- Quando l’atto amministrativo riproduca un vizio che aveva già dato luogo all’annullamento giurisdizionale;
- Quando l’atto amministrativo disponga un illegittimo inquadramento di un pubblico impiegato;
- Quando l’atto amministrativo sia stato adottato sulla base di dichiarazioni sostitutive mendaci circa atti, fatti, circostanze, stati e qualità asseverate dall’interessato nei rapporti con le pubbliche amministrazioni;
- Nell’ipotesi in cui l’amministrazione si trovi al cospetto d di un titolo edilizio illegittimo (anche se rilasciato in sanatoria). Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato.
- Ed infatti, una volta affermata la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa al ripristino della legittimità violata, non residuerebbero in alcun caso effettivi spazi per l’amministrazione per non esercitare il proprio ius poenitendi attraverso l’annullamento d’ufficio. L’amministrazione non potrebbe valutare a tal fine né il decorso del tempo (inidoneo, nell’ottica in esame, ad attenuare la prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino), né la sussistenza di un interesse pubblico in senso contrario (il quale sarebbe per definizione insussistente, a meno di voler determinare un vero e proprio ossimoro), né – infine – l’interesse del privato destinatario dell’atto, che non potrebbe in alcun caso essere valorizzato neppure nell’ottica del legittimo affidamento.
I fautori di tale tesi ritengono in particolare che non gravi in capo all’amministrazione un particolare onere motivazionale – ovvero l’obbligo di valutare i diversi interessi in campo – laddove l’illegittimità del titolo in sanatoria sia stata determinata da una falsa rappresentazione dei fatti e dello stato dei luoghi imputabile al beneficiario del titolo in sanatoria.
- Nell’ipotesi in cui l’amministrazione si sia già pronunciata su analoghe istanze di riesame presentate da altri soggetti.
Per completare l’esame del diritto vivente formatosi sul punto, va detto, altresì, che la Corte Costituzionale ha chiarito che il legislatore possa introdurre casi di annullamento d’ufficio doveroso posto che il riconosciuto carattere discrezionale non goda di copertura costituzionale.
È pertanto, legittima una norma di legge che preveda un “annullamento vincolato” a determinati presupposti diversi da quelli di cui all’art. 21 – nonies legge 241/1990.
In tal caso la norma in parola prevarrà sull’art. 21 nonies in quanto “speciale e derogatoria” a tale disposizione (TARULLO).
4. L’annullamento d’ufficio doveroso ex lege
Non vanno pertanto considerati costituzionalmente illegittimi i casi di “autotutela doverosa” previsti dal diritto positivo e cioè:
- L’ipotesi dell’annullamento prevista dall’art. 2 della legge 23 agosto del 1988 n. 400 che impone “l’annullamento straordinario a tutela dell’unità dell’ordinamento, degli atti amministrativi illegittimi, previo parere del Consiglio di Stato”. Al riguardo va detto che alcuni studiosi hanno individuato in tale potere una forma speciale di controllo sugli atti, altri, hanno invece, avvicinato la natura alle forme dell'autotutela e dell'annullamento di ufficio; altri ancora, valorizzando al massimo la discrezionalità dell'intervento, hanno ricondotto il potere in parola all'attività di “alta amministrazione” o di “indirizzo politico”.
La Corte Costituzionale sul punto ha chiarito che in realtà, il fatto che il potere venga esercitato da un soggetto esterno all'amministrazione che ha posto l'atto da annullare e nei confronti di atti comunque viziati nella legittimità induce a ritenere prevalenti, nella fattispecie, le garanzie della legalità che si ricollegano al controllo di legittimità sugli atti, pur con tutte le connotazioni speciali che tendono ad avvicinare il potere stesso all'amministrazione attiva, in relazione sia alla facoltatività dell'annullamento, sia all'inesistenza di un limite temporale per il suo esercizio, sia all'ampia discrezionalità della valutazione relativa alla presenza di un interesse attuale di carattere generale in grado di giustificare l'intervento straordinario del Governo.
- Il caso dell’annullamento “vincolato ex lege” dell’atto amministrativo che abbia disposto un illegittimo esborso di denaro pubblico prima che il comma 2 dell’articolo 36 della l. 7 agosto 2015, n. 124 lo abrogasse.
L’art. 1 comma 136 della legge n. 311 del 2004 disponeva testualmente “Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l'annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi sia ancora in corso.
L'annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti sui rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.
- Infine, l’ipotesi prevista nell’art. 112, comma 1 del Codice del Processo Amministrativo, che impone all’amministrazione di conformarsi al giudicato amministrativo che accerti l’illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato.
5. I casi individuati dalla dottrina amministrativistica
La dottrina tradizionale individua quattro casi di annullamento d’ufficio doveroso da parte della p.a.:
- Quando l’atto amministrativo sia stato disapplicato dal Giudice Ordinario che lo ha riconosciuto illegittimo ai sensi dell’art. 5 LAC (Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E);
- Quando l’atto amministrativo abbia formato oggetto di rilievi di legittimità da parte della Corte dei Conti in sede di controllo successivo;
- Quando il provvedimento sia stato emanato sulla base di una norma attributiva del potere, successivamente dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Ciò si spiega perché la dichiarazione d’illegittimità costituzionale produce un effetto non abrogativo, bensì “invalidante”, poiché presuppone l’esistenza di un vizio che inficia ab origine la norma attributiva del potere, che per tale motivo deve essere considerata tamquam non fuisset. Determinando la cessazione di efficacia delle norme oggetto del petitum costituzionale, la declaratoria di illegittimità impedisce, peraltro, dopo la pubblicazione della relativa sentenza dichiarativa, che tali norme siano applicabili anche a soggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo;
- Quando sia stato annullato dal G.A. in sede amministrativa un atto presupposto;
- Infine secondo alcuni, è doveroso che la p.a. annulli in via di autotutela l’atto in contrasto con il diritto comunitario, salvo che con ciò non comporti un pregiudizio ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.
A sostegno dell’assunto si adduce la necessità di rendere coerenti le regole nazionali che disciplinano l’esercizio del potere di autotutela con il principio di primazia del diritto comunitario.
Di parere opposto, tuttavia, è l’opinione del Consiglio di Stato secondo il quale anche nell’ordinamento comunitario la sola illegittimità dell’atto non è elemento sufficiente per giustificare la sua rimozione in via amministrativa, in quanto è necessaria una attenta ponderazione degli altri interessi coinvolti, tra cui quello del destinatario che ha fatto affidamento sul provvedimento illegittimo.
In sostanza, secondo i giudici amministrativi, l’esercizio del potere di annullamento di ufficio di un atto illegittimo poiché contrastante con il diritto comunitario deve ordinariamente svolgersi alla stregua dei presupposti individuati nell’art. 21 nonies, legge 241/1990.
Peraltro, secondo la Corte di Giustizia, la revoca di un atto illegittimo è consentita entro un termine ragionevole e se la Commissione ha adeguatamente tenuto conto della misura in cui il privato ha potuto eventualmente fare affidamento sulla legittimità dell’atto (Corte Giust. CE, 26 febbraio 1987, C 15/85).
Anche con la famosa “sentenza Kunhe & Heitz” il giudice comunitario, pur affermando che il giudicato formatosi su una interpretazione ritenuta poi non conforme al diritto comunitario dalla stessa Corte di Giustizia non costituisce un limite all’esercizio dei poteri di autotutela, ha ribadito che il diritto comunitario non esige, in linea di principio, che un organo amministrativo sia obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquistato carattere definitivo, in quanto la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario e il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza dei termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza.