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Le Case Rurali

così va il mondo
Case Rurali
Ph. Sigfrido Bartolini / Case Rurali

Le Case Rurali

Un tempo, non molto lontano, la campagna toscana era un giardino continuo, ben tenuto e lussureggiante. Forse l’unico luogo al mondo dove il disegno della natura si confondeva con le cure apportate dall’uomo, tanto da non sapere a chi dei due spettasse il merito maggiore, al punto da non far rimpiangere la selvatica e incorrotta bellezza dei primordi. 

E se l’opera costante dell’uomo dei campi aveva assecondato la natura impreziosendola senza guastarla; le case rurali erano spesso imponenti come templi e armoniosissime nella loro ovvia razionalità. Dimore modeste di fronte alla villa patrizia, ma a lei vicine per affinità di stile e compostezza. Veniva il tutto da una civiltà nella quale servo e padrone si equivalevano nella dignità. Padrone e contadino vivevano della terra per la terra, legati da uno stesso dovere, disciplinati nel medesimo impegno di tramandare, migliorandolo, un valore guadagnato nei secoli a prezzo di fatica.                        

Poi le campagne caddero preda al rovo che si espande, i vigneti lasciati soffocare nella stretta dell’erbe, le fosse straripare perché non più curate e smottare gli argini non più rafforzati. Le case abbandonate andavano velocemente in rovina. L’erba si insinuava tra le pietre dell’aia e i bei tetti, dalle tegole etrusche composte come campi arati, cadevano aprendo al cielo lo sguardo su intimità dai colori rosa e celeste.                                                                                                                                     
 

casa rurale
casa rurale

Corsero allora i diseredati della città; coloro ai quali il mondo moderno ha assegnato, per vivere, uno sgabello dietro a uno sportello di cristallo mezzo abbassato, dietro una scrivania asettica, davanti ad un quadro automatico di controllo. 

Corsero e si accaparrarono quelle case abbandonate dai nobili proprietari ormai dissennati. Le corressero, le riattarono, spesso le immeschinirono con stolta presunzione e le riempirono con gli inutili oggetti indispensabili ai moderni schiavi. E loro, le case autentiche dei signori della terra, subirono tutto con indifferenza, anche l’ansimare della macchina surriscaldata e puzzolente che sostituiva il barroccio odoroso di fieni sotto il portico della curva arcata a mattoni.

Eppure non tutto fu guastato. La nobile nascita rimane sotto il belletto; malgrado tutto sono ancora case belle, ospitali, fascinose. Sono il nobile decaduto che pur nell’umile mansione conserva la dignità del suo rango. Rappresentano un’armonia che difficilmente si lascia completamente guastare e gli ospiti attuali, sia pure inconsciamente, avvertono la bellezza di queste stanze senza misure fisse, dagli spazi irrazionali ma sempre a misura d’uomo e si sentono un po’ meno schiavi, liberi almeno in casa propria, per poche ore, ma almeno allora liberi.

Le povere dimore dei contadini, senza ricercatezze, senza civetterie, senza stucchi e senza ornati possono ancora divenire una villa, una casa ambita, una conquista sociale e una vanteria se, appena, appena vengono riattate. 

Ma dei superbi condomini, dei quartieri spocchiosi di marmi e di moquette, di parquet e di ceramiche, che ne faremo un giorno, quando la vita dovesse tornare al suo sapore di verità?

Delle stanze fredde e lugubri, uscite dal tavolo dell’architetto come cadaveri da un tavolo anatomico, che ne potremmo fare? Chi vorrà adattarle e per quale uso? Dovremo chiedere alla giungla vera di tornare ad avanzare, di riprendersi lo spazio usurpato dalle giungle d’asfalto e di cemento.

Allora anche il rovo tornerà utile, se pure basterà, per seppellire l’avvilente stupidità del nostro tempo

(Sigfrido Bartolini)

 “LA TORRE” – Roma - Aprile 1978