Le Fondazioni di impresa
La figura giuridica della “Fondazione di impresa” (corporate foundation) è oggi pacificamente ammessa dalla dottrina e la stessa giurisprudenza ne ha sancito la piena legittimità.
Si tratta, sostanzialmente, di una fondazione che svolge un’attività “commerciale” destinata a perseguire un obiettivo “non profit”. È ormai acclarato che, così come per le associazioni, anche le fondazioni possano svolgere attività d’impresa, purché idonea e funzionale al conseguimento dello scopo che, invece ed ovviamente, deve permanere altruistico e non essere lucrativo.
La fondazione, dunque, può svolgere un’attività di impresa organizzata per la produzione e lo scambio di beni e servizi e ciò ad un possibile duplice fine: per realizzare direttamente il proprio scopo istituzionale (attività d’impresa svolta in via esclusiva o principale); oppure per ricavare utili da destinare allo scopo, ovviamente non profit, della fondazione (attività di impresa svolta in via secondaria).
Nel primo caso, si pensi ad una fondazione teatrale o cinematografica, creata per la promozione e diffusione dell’attività di prosa o cinematografica, che organizzi anche eventi teatrali o cinematografici a pagamento. Nel secondo caso, invece, si pensi ad una fondazione museale che svolga un’attività di produzione e commercializzazione di libri d’arte per finanziare l’acquisto di nuove opere, oppure per garantire l’esecuzione dell’attività di manutenzione o restauro delle opere già in collezione.
È pienamente ammissibile, pertanto, una Fondazione “titolare d’impresa”. La necessità, infatti, che la stessa debba perseguire uno scopo socialmente rilevante, non impedisce che essa possa esercitare una vera e propria attività economica, anche in forma di attività d’impresa, a condizione che gli utili, o comunque i profitti, derivanti dall’esercizio di tale attività, vengano poi reimpiegati per il raggiungimento delle finalità di tipo altruistico, scopo proprio dell’ente.
Questa tipologia di fondazione, mediante lo svolgimento di attività d’impresa, crea risorse finanziarie, senza tuttavia farne conseguire la distribuzione dei profitti (utili) generati, che devono in ogni caso essere destinati allo scopo “non profit”.
Tanto nella letteratura giuridica internazionale, quanto nel nostro sistema, non è rinvenibile una definizione univoca e chiara di fondazione d’impresa. In Italia, in particolare, considerato che il tessuto economico è formato, in misura prevalente, da imprese familiari di medie o piccole dimensioni (e che, quindi, le vicende imprenditoriali s’intrecciano con quelle familiari), non è sempre agevole distinguere le fondazioni d’impresa dalle fondazioni di famiglia.
In linea generale possiamo senz’altro affermare che la fondazione d’impresa viene, nella stragrande maggioranza dei casi, costituita da una impresa fondatrice. Ciò sulla base di una sempre maggiore convinzione che l’impresa (sia essa finanziaria/creditizia, assicurativa, farmaceutica, industriale o operante genericamente nel settore del terziario) debba sostanziarsi in un’istituzione non soltanto economica, quanto sociale e, comunque, comunitaria.
È sempre maggiore, in buona sostanza, la consapevolezza, negli stessi imprenditori, di una responsabilità “sociale” dell’impresa.
Le ragioni costitutive delle fondazioni d’impresa spaziano, infatti, dalla necessità di qualificare l’impegno per il bene comune come espressione della cultura aziendale, alla forte volontà filantropica del fondatore o dei fondatori dell’impresa, fino all’esigenza di migliorare le relazioni dell’impresa con la comunità che la circonda e, quindi, la propria reputazione. Il tutto attraverso iniziative che apportino, comunque, un beneficio comune.
I campi di intervento delle fondazioni “corporate” sono i più vari, anche se prevalgono, almeno in Italia, quelle operanti nel campo dell’istruzione, della cultura e dell’arte, dello sviluppo economico e coesione sociale e, infine, della ricerca, anzitutto in campo medico.
Il rapporto tra fondazione d’impresa ed impresa fondatrice può declinarsi in diverse modalità: dalla totale indipendenza alla più stretta integrazione. È comunque indubbio che le fondazioni d’impresa, pur mantenendo necessariamente una propria autonomia (che gli deriva da una propria personalità giuridica, dall’architettura statutaria e dallo scopo altruistico), presentano in concreto un forte grado di integrazione con le fondatrici, che ne sono, il moltissimi casi, il maggiore finanziatore e con le quali condividono, spesso, strutture e competenze tecniche.
Dottrina e giurisprudenza ritengono che, svolgendo la fondazione di impresa un’attività, principalmente o esclusivamente, economica, essa dove essere comunque disciplinata dalle norme dello Statuto dell’imprenditore commerciale, cioè da quell’insieme di previsioni che disciplinano la struttura ed il funzionamento dell’impresa commerciale. Da ciò, peraltro, conseguirebbe il suo assoggettamento al fallimento, analogamente a quanto avviene per l’imprenditore.
Parte della giurisprudenza ritiene, altresì, che la fondazione potesse esercitare attività d’impresa in via esclusiva soltanto qualora quest’ultima sia coerente con gli scopi propri dell’ente. Questo perché, in caso contrario, verrebbe meno l’essenza stessa dell’istituto e si rientrerebbe, inevitabilmente, nell’alveo societario.
È di tutta evidenza come tale indirizzo mira ad evitare che la figura della fondazione d’impresa possa fungere da strumento per mascherare lo svolgimento di una attività commerciale del tutto avulsa dallo scopo non lucrativo e sostanzialmente finalizzata a trarre beneficio dalla circostanza di trovarsi in una condizione giuridica ed impositiva di favore rispetto a quella in cui si trova una compagine societaria.
Gli Organi di governo delle fondazioni d’impresa sono individuati dai rispettivi statuti. Il modello di governace può essere di tipo “monistico”, cioè caratterizzato dalla presenza di un solo organo: il Consiglio di Amministrazione o Organo di Amministrazione (eventualmente coadiuvato, al suo interno, da un Comitato esecutivo ristretto); oppure può essere di tipo “dualistico”, cioè con un Organo-Consiglio di Amministrazione, affiancato da un Organo o Consiglio di Indirizzo.
Gli organi di governance possono essere nominati dall’assemblea dei soci, qualora prevista, oppure nominati direttamente dal soggetto o dai soggetti promotori della fondazione.
In effetti, nella fondazione d’impresa gli organi di governo (al contrario di quanto accade oggi, a seguito della riforma, nelle fondazioni di origine bancaria, dove essi sono stati rigidamente previsti) non sono tassativamente indicati. Da ciò deriva la presenza di svariate forme di governance: possono essere previsti anche Comitati scientifici consultivi, ovvero organi di supporto a quello di amministrazione, con funzioni di consulenza ed ausilio tecnico.
Nell’ambito delle fondazioni d’impresa, si possono individuare tre diverse tipologie di modelli legati alle modalità di intervento adottate: mista; finanziaria/erogativa; operativa/operante.
La Fondazione mista svolge, al contempo ed al suo interno, sia l’attività erogativa e finanziaria (anche attraverso lo svolgimento di attività di impresa), sia quella operativa. L’ente reperisce fondi per perseguire direttamente il proprio scopo non lucrativo (o i propri scopi) e lo attua attraverso tutta una serie di iniziative.
La “Fondazione Finanziaria” (o “Fondazione Holding o erogativa o grant-making”) svolge, invece, una mera attività di erogazione e finanziamento, anche attraverso attività di tipo commerciale, ma diversamente dalla fondazione d’impresa c.d. mista, persegue lo scopo statutario in modo indiretto, finanziando un altro ente.
Ciò significa che gli utili o le rendite della fondazione erogativa sono destinati ad una diversa fondazione, qualificata appunto come “Operante” (o Fondazione Operativa o Operating), che in concreto persegue i fini statutari di quella che la finanzia.
La necessità di tenere distinta la gestione ed amministrazione del patrimonio della fondazione da quello della destinazione delle rendite allo scopo istituzionale, appare maggiormente sentita come necessaria proprio quando l’ente reperisca i mezzi finanziari, per il raggiungimento del proprio scopo non profit, attraverso l’esercizio di attività d’impresa.
Nel caso di Fondazione d’impresa c.d mista, per garantire l’esercizio dell’attività commerciale, i cui proventi saranno poi reinvestiti nello scopo istituzionale, si costituiscono all’interno del medesimo ente separati organi di gestione ed amministrazione.
Nel secondo caso, invece, siamo di fronte alla costituzione di due distinte fondazioni. La prima, che ha per oggetto esclusivamente l’amministrazione del patrimonio e la gestione dell’attività di impresa e che è caratterizzata dall’obbligo statutario di devolvere tutti gli utili derivanti dall’esercizio dell’attività di impresa e tutte le proprie rendite patrimoniali ad una seconda fondazione, che li utilizza per perseguire direttamente gli scopi statutari dell’ente che la finanzia.
In taluni casi, peraltro, lo statuto della fondazione holding può anche prevedere l’obbligo di devolvere gli utili e le rendite ad una pluralità di fondazioni operanti/operative, distinte per diversi settori di attività. La fondazione erogativa può, quindi, finanziare diversi progetti in capo a più enti.
Tale ipotesi, in effetti, è molto frequente. La fondazione opera come una sorta di “ente mecenate” e finanzia tutta una serie di progetti (delle fondazioni operative), che sviluppano temi vicini al proprio scopo statutario.
La fondazione finanziaria e quella operante possono essere costituite simultaneamente, oppure si può verificare la circostanza che una fondazione, inizialmente unitaria, dia successivamente origine ad altre fondazioni operative, mantenendo per sé stessa il ruolo di fondazione finanziaria.
La fondazione erogativa, come chiarito, provvede al finanziamento ed alla devoluzione di fondi in favore di quella operante. È possibile, tuttavia, che essa abbia anche, o soltanto, funzioni direttive e di controllo rispetto a quella finanziata. In quest’ultimo caso è necessario, ovviamente, che lo statuto della fondazione operante preveda una clausola dove è previsto l’obbligo di seguire le direttive della holding.
È di tutta evidenza come la figura della Fondazione finanziaria/erogativa sollevi tutta una serie di perplessità, o comunque di riflessioni, qualora eserciti direttamente un’attività d’impresa. La circostanza, infatti, che essa mantenga una sostanziale ed effettiva autonomia giuridica rispetto a quella operante, comporta che non persegua direttamente e con mezzi propri uno scopo non profit o altruistico, cioè di pubblica utilità, condizione che dovrebbe essere il fondamento della sua costituzione.
In realtà, a ben vedere, poiché, in ogni caso, lo statuto della fondazione finanziaria deve contenere, necessariamente, la previsione della devoluzione di tutti gli utili e le rendite ad altra fondazione o ad altre fondazioni in base ad uno scopo di pubblica utilità, che poi è quello dalla stessa perseguito, quest’ultimo è comunque raggiunto in via indiretta, o mediata, essendo semplicemente lasciata la sua attuazione ad un altro ente.
Non si ravvisano, quindi, obiezioni sufficienti per escludere, a priori, la possibilità anche per queste ultime di svolgere attività d’impresa. È ovvio che, qualora la fondazione finanziaria svolga autonomamente un’attività di impresa, ad essa di applicherà, comunque, lo statuto dell’imprenditore commerciale (come sopra già sopra precisato).
Su questo schema generale, interpretativo ed applicativo, si è andata ad inserire la Riforma del Terzo Settore e l’introduzione del relativo Codice.
Il D.Lgs 112/2017 e, quindi, il D.Lgs. 117/2017 hanno, in particolare, disciplinato la figura della “Impresa sociale”. In realtà, già il D.Lgs 155/2006 aveva introdotto nel nostro ordinamento questo istituto, inteso come un tipo particolare di impresa, destinata a svolgere la propria attività nel settore del “non profit”. La nuova normativa, tuttavia, ha apportato sostanziali modifiche rispetto alla originaria disciplina.
L’intero quadro normativo merita, ovviamente, un approfondimento a parte. Ai nostri fini, è opportuno, soltanto, precisare come il legislatore abbia previsto che possano assumere la qualifica di imprese sociali (Art. 1 D.Lgs 112/2017) tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del Codice civile (società), che, in conformità delle disposizioni del decreto, esercitino “ … in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e degli altri soggetti interessati alle loro attività” …”.
Non possono assumere tale qualifica: le società costituite da un unico socio persona fisica, le amministrazioni pubbliche e gli enti i cui atti costitutivi limitino l’erogazione dei bene e servizi ai soli soci o associati.
Alle imprese sociali si applicano, se compatibili, le norme di cui al D.Lgs. 117/2017 (Codice del terzo settore), nonché, per gli aspetti che restano ancora non disciplinati da quest’ultimo, le disposizioni del Codice civile relative alla forma giuridica in cui l’impresa sociale è costituita.
Le fondazioni d’impresa, possono dunque, senza dubbio alcuno, acquisire la qualifica di imprese sociali. Per assumere tale qualifica la fondazione dovrà, tuttavia, rispondere a determinati requisiti normativi e statutari e svolgere, esclusivamente, le attività previste per tali imprese. Il tutto secondo quanto previsto, appunto, dal Codice del terzo settore. Per quanto non previsto da quest’ultimo, si applicheranno le norme di cui agli artt. 14 – 42 bis Codice civile (Libro I Titolo II Capi II e III).
Ciò chiarito, l’introduzione della nuova disciplina sugli Enti del Terzo Settore (ETS) pone il problema per le fondazioni, così come per le associazioni e per tutte quelle tipologie di enti che svolgono attività senza fini di lucro, dell’eventuale obbligo, per potere operare nei settori di rispettiva competenza, di assumere la qualifica di impresa sociale.
In realtà, ad avviso dello scrivente, l’interpretazione letterale del testo legislativo esclude a priori che sia necessario, per operare senza finalità di lucro, assumere tale qualifica. L’Art. 1 del D.Lgs. 112/2017 prevede, infatti, che “Possono acquisire la qualifica di impresa sociale …”. È di tutta evidenza, pertanto, come si tratti di una facoltà e non di un obbligo.
Soltanto le cooperative sociali ed i loro consorzi acquisiscono di diritto la qualifica di imprese sociali (art. 1 comma IV D.Lgs 112/2017). Ciò ad ulteriore riprova che, per tutti gli altri enti, non è necessario acquisire tale qualifica per svolgere la propria attività.
Diverse sono, poi, le conseguenze, in materia civilistica e tributaria, derivanti dall’assunzione della qualifica di impresa sociale (ad esempio in caso di insolvenza l’assoggettamento alla liquidazione coatta amministrativa e non al fallimento). La questione dei rapporti tra enti che operano senza fini di lucro e nuova disciplina del Terzo Settore, merita, tuttavia, come sopra già precisato, uno specifico ed autonomo approfondimento, che travalica l’oggetto del presente contributo.